Il Manchester United è prigioniero della sua storia?

L'ombra lunga del passato, e di chi ne ha fatto parte, è uno dei grandi problemi irrisolti dei Red Devils.

Zlatan Ibrahimovic avrà tutti i difetti di questo mondo, ma di sicuro non è una persona ingenua. Le sue esperienze di vita e la sua strepitosa carriera nel calcio professionistico ne hanno evidentemente accresciuto l’ego, ma hanno anche alimentato la sua intelligenza relazionale la sua capacità di comprendere e decrittare i contesti in cui si trova, le persone con cui ha a che fare. Ibra, poi, possiede anche l’arroganza che occorre per parlare delle sue percezioni in totale libertà, per dire sempre la sua verità – che spesso coincide con la verità in senso assoluto. Ebbene, quando a Ibrahimovic è stata fatta una domanda sulla sua esperienza al Manchester United, lui ha risposto dicendo che «in quel club parlano troppo del loro passato. Quando sono arrivato, ho detto a tutti che Zlatan era lì per creare una nuova storia, la sua storia. Loro, invece, pensavano solo alla storia che avevano vissuto. Forse ne hanno troppa, e allora finiscono per non occuparsi del presente. E del futuro».

Quando Zlatan Ibrahimovic è arrivato a Manchester, nel 2016, il profilo Twitter dello United era stato aperto soltanto da tre anni, mentre il primo tweet del Chelsea risaliva al 2009; la squadra femminile non c’era ancora, sarebbe stata creata solo due anni dopo, nel 2018; stessa cosa per il primo direttore sportivo nella storia del club, che sarebbe stato assunto addirittura nel 2021. La scelta per il Director of Football, questa è l’etichetta linguistica del ruolo nel calcio inglese, ricadde su John Murtough, già presente da anni nell’organigramma del club. A Murtough la società affiancò – nel ruolo di direttore tecnico – Darren Fletcher, centrocampista dei Red Devils dal 1995 al 2015. Questi eventi e queste date e questi nomi sono delle prove schiaccianti, dimostrano che Ibrahimovic aveva perfettamente ragione: il Manchester United ha pensato e agito molto lentamente rispetto alla concorrenza, e ancora oggi continua ad accumulare ritardo. Perché vuole guardarsi costantemente alle spalle, perché spesso decide di seguire – o comunque tende ad ascoltare – le indicazioni, i pareri, le critiche di chi è passato per Old Trafford.

A questo punto, vista la grandezza e la complessità del caso, è inevitabile citare la retrotopia teorizzata da Zygmut Baumann, vale a dire quel meccanismo psicologico, tipico dei nostri tempi, che porta a idealizzare il passato, a considerarlo più dolce e più giusto e più rassicurante rispetto al presente, quando in realtà sono i nostri ricordi a rievocarlo in modo distorto, a renderlo bellissimo. Ecco, al Manchester United la retrotopia è una realtà oggettiva: la storia del club è effettivamente meravigliosa, l’era-Busby e l’era-Ferguson hanno portato la squadra sul tetto del mondo, l’hanno resa perpetuamente nobile, hanno fissato degli standard altissimi. Insomma, da un certo punto di vista è impossibile non avere nostalgia di quegli anni, se pensiamo al grigiore di oggi. Ma se invece fosse arrivato il momento di rivalutare – e poi di ribaltare – il nesso causa-effetto? Non è che il presente del Manchester United risulta così oscuro anche perché l’ombra di ciò che è stato è troppo lunga e troppo ingombrante?

Tutto nasce, ovviamente, a partire dai disastri fatti dalla famiglia Glazer, proprietaria del club dal 2005. La loro avventura a Old Trafford è segnata da evidenti picchi di assenza e incompetenza, e anche l’ultima fase è coerente con questa tradizione, basti pensare alla lentezza e alla nebulosità del processo di vendita del club. Tornando al nocciolo di questa analisi, è evidente che la mancanza di una leadership chiara sia stata colmata in modo sbagliato: nel 2013 lo United ha risposto al ritiro di Sir Alex Ferguson cercando di ricopiare e attuare lo stesso identico modello, non ha compreso – o meglio: non aveva le professionalità necessarie per comprendere – che il manager all’inglese era una figura destinata a estinguersi presto, che sarebbe stato necessario inserire nuovi elementi nello staff tecnico e in quello manageriale, che l’eccesso di tradizione avrebbe reso antiquato il club, proprio come succede a quei ristoranti che vengono costruiti e arredati per sembrare vintage e alla fine risultano vecchi e basta. In fondo cos’è stata l’assunzione di David Moyes, se non il tentativo di tenere in vita e/o di ricreare l’effetto-Ferguson? Tra l’altro al manager scozzese venne offerto e fatto firmare un contratto di sei anni, un’assurdità nel calcio contemporaneo, e accanto a lui venne scelto Ryan Giggs come vice.

Al termine di quella terribile esperienza, durata meno di un anno, lo United scelse di ripartire da Louis van Gaal, ma continuò a tenere Giggs come allenatore in seconda, così da non recidere il legame con il ventennio precedente. A giugno 2016 l’arrivo di Mourinho riscrisse l’atlante emotivo delle terre emerse intorno a Old Trafford e depurò lo staff tecnico dalla maggior parte dei reduci dall’epopea-Ferguson, così nella primavera 2017 – non a caso, forse? – arrivarono quelli che sono ancora gli ultimi trofei conquistati dai Red Devils, vale a dire la Coppa di Lega e l’Europa League. Solo che poi il regno monocratico di Mou si sgretolò in modo inesorabile, dimostrando una volta di più che un uomo solo, nel calcio contemporaneo, non può guidare e rappresentare un intero club. Nemmeno se si chiama José Mourinho.

A quel punto, come dire, la famiglia Glazer e i loro consiglieri avrebbero dovuto quantomeno intuire che la ricerca di un nuovo manager all-in-one non fosse la strategia migliore, che magari l’idea giusta potesse essere quella di costruire un organigramma affrancandosi dai volti e dai nomi del passato. E invece l’esonero di Mourinho, avvenuto a dicembre 2018, determinò l’arrivo in panchina di Ole Gunnar Solskjaer. Il tecnico norvegese venne assunto prima come manager a interim e poi firmò un contratto triennale: una scelta inattesa e perciò clamorosa, soprattutto in virtù del fatto che si trattava di un allenatore dall’esperienza modesta, sei stagioni al Molde e un passaggio non proprio felice – subentro, retrocessione, esonero – a Cardiff. Per capire i codici e i contenuti classici della comunicazione secondo il Man Utd, basta consultare la nota ufficiale pubblicata quando Solskjaer è diventato allenatore a tempo pieno: la prima frase è «Solskjaer ha segnato 126 gol in 366 presenze con lo United tra il 1996 e il 2007», come se questo fosse un titolo di merito per chi sta per sedersi su una panchina più ambite del mondo.

L’illusione iniziale – Solskjaer ebbe un grande avvio, poi ha tenuto la barra più o meno dritta per un anno e mezzo, prima di implodere – di aver ricreato un fantomatico dna United è sfiorita in modo malinconico, dando il via a una nuova era di fermento e turbamenti. Negli ultimi due anni sono avvenuti i seguenti avvenimenti, eccoli riassunti in breve: l’arrivo anticipato di Rangnick e il suo passo indietro altrettanto anticipato; le polemiche sul ruolo che avrebbe avuto il tecnico tedesco e sul suo dietrofront; l’avvio, l’esplosione apparente e ora le prime crepe del progetto Ten Hag. Come scritto da The Athletic in un articolo piuttosto illuminante, a Old Trafford «hanno operato in modo esattamente contrario rispetto al Manchester City: Ferran Soriano e Txiki Beguiristain sono stati chiamati per avviare un nuovo progetto e perché erano i migliori dirigenti calcistici al mondo, non perché avessero qualcosa a che fare con la storia della squadra». Il problema, in fondo, è tutto qui: guardando primariamente verso il passato, il Manchester United ha sprecato tempo. E così non è riuscito a individuare/inserire quelle nuove professionalità che nel calcio di oggi sono necessarie perché una squadra possa essere competitiva.

Da quando è arrivato a Old Trafford, alla vigilia della stagione 2022/23, Erik ten Hag ha messo insieme 45 vittorie, nove pareggi e sconfitte, tra cui quella nella finale della FA Cup contro il Manchester City (Richard Heathcote/Getty Images)

L’ambiente del Manchester United, inteso come multiverso che si muove dentro e intorno al club, riflette esattamente queste dinamiche gestionali, comunicative e di rapporti. Negli uffici di Old Trafford è come se non si rendessero conto di come funzioni il tempo, del fatto che si tratti di un’entità crudele che passa e cambia le cose, fino a distruggerle. E fanno di tutto per combatterlo, il tempo. Al punto da risultare teneri: Nicky Butt, cresciuto con i vari Beckham e Scholes e Giggs e Gary Neville e Phil Neville nella Class Of ’92, ha deciso di lasciare il suo incarico di allenatore delle giovanili perché «a un certo punto sono successe delle cose dentro il nostro club»; Tony Whelan, ex calciatore e preparatore classe 1952, ha raccontato che «qui è cambiato tutto, una volta lo United era un luogo fiorente, giocatori e allenatori avevano il dna della squadra che gli ardeva dentro. Oggi invece è un ambiente freddo: ci hanno strappato il cuore e l’anima via dal petto, troppe persone sono arrivate per imprimere la loro filosofia, senza alcun rispetto per la cultura e la storia del club».

Al Manchester United, è evidente, non si sta combattendo la solita, infinita battaglia tra identità storico-calcistica e modernità iper-capitalista. È qualcosa di più: parliamo di veri e propri atti di resistenza, di un’evidente incapacità nell’accettare non tanto le novità, quanto l’invecchiamento inevitabile di un modello, la sua usura naturale, prima ancora che il suo fallimento. E sono gli stessi dirigenti del Manchester United a perpetrare in questi errori: certo, non possono fermare un nugolo di commentatori e opinionisti – primi tra tutti Paul Scholes e Patrice Evra – che continuano ad andare in tv per rivangare aneddoti e concetti vecchi di venti o trent’anni, ma forse potrebbero anche evitare di intervistare Gary Neville e fargli dire quanto è importante l’inserimento Steve McClaren nello staff di Ten Hag, ovviamente perché il tecnico olandese «ha bisogno di qualcuno al suo fianco che possa parlargli di cosa significa il Manchester United, dei diversi stadi, degli arbitri, delle differenze culturali tra il calcio inglese e altri contesti». In questo momento Gary Neville, tra l’altro, non ha alcun ruolo ufficiale all’interno del club. Magari l’intervista a Sir Alex Ferguson sulla prima stagione con Ten Hag in panchina ha un po’ più di senso, in fondo parliamo di un allenatore da leggenda che è anche un ambasciatore ufficiale della società. Il punto, però, è proprio questo: fin quando il Manchester United non si emanciperà dalla necessità di ricevere certi visti d’approvazione, non sarà mai davvero libero di costruire il suo futuro. In fondo anche la tradizione, a volte, può essere una trappola.