Eden Hazard non mi ha mai convinto del tutto. Ecco, l’ho detto. Ma, prima che mi saltiate alla gola, specifico che non sto parlando dell’Hazard calciatore, anche se dividere un uomo dalla sua professione è un esercizio che spesso irrigidisce il discorso. Sebbene ritenga che si possa ammirare l’arte di un artista anche se l’artista è un poco di buono – guardatevi il criticato film di Wes Anderson The French Dispatch, più precisamente l’episodio “Il capolavoro di cemento”, se vi interessa il tema – c’è sempre e inevitabilmente, dicevo, una contaminazione e una sinergia tra i lati di un essere umano che non possono essere ignorate, quando si analizza cos’è stato qualcuno. Walt Whitman, del resto, diceva «Sono vasto, contengo moltitudini» E la vastità di ciò che è stato Eden Hazard ha finito inevitabilmente col contenere e poi disperdere nel nostro tempo e nella nostra memoria l’eredità di una carriera contraddittoria: le luci e le ombre dei suoi chiaroscuri hanno così vividamente illuminato il nostro senso estetico – nei suoi apici – e così freddamente ottenebrato il nostro cuore – nei suoi bassi – da porci in una condizione di perenne disequilibrio in merito alla solita, vecchia questione. Questa: Eden Hazard è stato un campione o un bluff?
Ha vinto tanto, sì. Ma forse poteva vincere di più, e più da protagonista come epica impone, quando era al Real Madrid. È diventato l’ombra di se stesso, ma ehi, è stato un’ira di Dio, quando era al Chelsea. In un’epoca come la nostra, dove la costanza dell’eccellenza – o meglio, la sua richiesta – si è gonfiata in maniera ipertrofica, credo che la parabola di Hazard racchiuda inevitabilmente questa dissonanza. Ed è in casi come questi che occorre tenere conto delle sfumature. Ma non per esprimere una sentenza definitiva, che è una pratica onanistica. A cosa servirebbe, dopotutto? Le classifiche individuali nel calcio sono spesso aleatorie e pretenziose.
Il mio giudizio su Hazard, che sinteticamente è riassunto dalla provocazione a inizio articolo, potrebbe pertanto sembrare il frutto di un bias generato dal nostro incontentabile sistema, dalla nostra pretesa del tutto e subito e sempre. Ma è in realtà un occhiolino – un abbraccio virtuale – a quello che Eden Hazard, con la sua malinconia e la sua fragilità, ha rappresentato per chi, come tanti di noi e per tanti motivi, non è riuscito a esprimere appieno il proprio potenziale. O per chi ci è riuscito, ma solo per un periodo limitato. O per chi non ha mai salito quell’ultimo agognato scalino, per chi non ha completato lo step della consacrazione.
Hazard non mi ha mai convinto del tutto come per dire che in lui, nell’uomo che non conosco ma che le sue gesta in campo mi restituiscono, fino a rendermelo familiare, rivedo i miei umanissimi difetti, le mie mancanze, la mia hybris. Nonché gli sprazzi di genialità, il talento, l’onnipotenza di certi frangenti. A chi non è mai capitato, anche solo per un secondo, di sentirsi invincibile o destinato alla grandezza? E anche quell’orgoglio che lui stesso trasudava per le sue giocate, per il grande giocatore che ancora sentiva di essere, specie in questi ultimi difficili anni a Madrid, me lo rendeva più umano, più simpatico. Nonostante la spocchia di facciata, l’insofferenza. Hazard epitome della fedeltà a sé stessi, al proprio talento. E alle bizze e all’incostanza di quest’ultimo. O meglio, alla sua finitezza.
Io sono sempre io sembrava volerci dire con la sua andatura stanca, acciaccata, e i suoi fugaci ritorni al passato, quando apriva il gioco o dribblava alla sua maniera. Sono Eden Hazard anche ora che ai vostri occhi sto facendo schifo, che mi prendete in giro per i miei chili di troppo, perché mi piace la cioccolata, perché sembra che non sia mai stato qui, dentro un campo da calcio. Che ne sapete voi?, sembrava volerci rammentare con l’arroganza dei leoni feriti, quando con indosso la camiseta blanca riproduceva le sue migliori giocate inglesi e dava l’impressione che potesse tornare a essere quello di Londra. Come se gli acciacchi e gli infortuni potessero essere ridotti a una nota a margine. In certi momenti, in certi suoi bagliori, sembrava poterlo fare. Poi la nube tornava. E lui spariva. In campo, fuori. Dov’è Hazard? È ancora infortunato?
A volte – anzi: spesso – pure la sfortuna ci si metteva. E poi si accaniva. Perché il calvario d’infortuni vissuto da Eden Hazard rientra nella categoria delle tempeste e dei tunnel più provanti, qualcosa che somiglia alle sofferenze inflitte a Giobbe. Alcuni giocatori, come anche capitò ad Alexandre Pato, vi entrano e sembrano destinati a non uscirne più. Vi si perdono, smarriscono sé stessi, la loro versione migliore, e quando finalmente ne escono sono così irriconoscibili che pure le cose più semplici e banali che fanno, quando le fanno, diventano una notizia. Come quando Hazard riuscì finalmente a rigiocare per intero una partita, qualcosa come un anno e una miriade d’infortuni dopo.
Ma, durante queste tempeste, Hazard tornava a essere Hazard. Magari anche solo per la durata di un lampo o di un pomeriggio di sole, un colpo di tacco, una partita ben giocata. Come il gol contro il Granada che vedete sotto: un ispido e allo stesso tempo elegantissimo pallonetto che però, invece di fare da cometa del nuovo corso, si rivelò coda, scia destinata a perdersi. E osservandola ora, la carriera di Hazard mi rimanda all’immagine di una stella cadente, di un lungo tramonto. Un tramonto così intenso e vivido da mascherare il movimento calante dell’astro, ma pur sempre una parabola. Qualcosa, insomma, che è destinato a cadere. E a scomparire.
Il video di tutti i suoi gol col Madrid dura un minuto e cinquanta secondi
Hazard non mi ha mai convinto del tutto per dire che in lui ho sempre percepito un qualcosa a metà tra l’entropia e la cosiddetta obsolescenza programmata. Da un lato qualcosa che non è una colpa, perché il processo entropico è inevitabile, sebbene le isterie del sistema ci portino a considerarlo nei termini di un peccato. Dall’altro qualcosa che potrebbe essere umano risentimento. Hazard, a 32 anni, e in un’epoca dove la durata media delle carriere si sta allungando, ha detto basta. E lo ha detto perché sicuramente ne avrà piene le scatole di sentirsi dire quanto era forte una volta, e del dover rispondere del perché non lo sia più – come se invecchiare, infortunarsi e spegnersi sia una scelta, un dispetto da fare all’avido sistema. Ma forse qualcosa della sua natura scontrosa – forse la sua naturale votazione alla controtendenza, che si liberava nella fantasia ribelle delle sue giocate più estrose – ha finito con l’influenzare la sua scelta. Perché, si diceva, non siamo fatti di compartimenti stagni. L’artista e l’arte influenzano l’uomo e la sua vita, e viceversa.
E l’Eden Hazard visto in questi ultimi anni, per ricollegarci al film The French Dispatch, sembrava incarnare il significato del capolavoro di cemento che dà il titolo all’episodio di cui si parlava. Un’opera d’arte moderna, disegnata da un artista allo stesso tempo dannato e benedetto, allo stesso tempo servo del proprio talento e suo peggior nemico, perché animato da un’autolesionistica propensione all’autodistruzione e al fallimento. Un’opera che adempie alla bellezza per vie traverse, lontano da quelle classiche, e che per soggetto e consistenza racchiude le contraddizioni che io ho rivisto nell’ultimo Hazard: un quadro astratto, destinato a far volare le menti attraverso la propria leggiadria, ma dipinto sulla parete di un carcere di massima sicurezza, e dunque inchiodato al proprio ospite – esattamente come il talento e la fantasia del belga erano inchiodati a un corpo fragile e a uno stato d’animo sempre più offuscato dai propri fantasmi, dalla propria sacra malinconia, dalla rabbia verso noi, ingrati e inappagabili fruitori.
Di programmato ci può essere ben poco in un ritiro prematuro come questo, ma in quel suo «ora è il momento di vivere nuove esperienze» scorgo anche una nota di sollievo, dietro il rimpianto. Che cosa ci lascia, dunque, Eden Hazard, che nella vita, al contrario di tanti che ci hanno provato e hanno fallito, ha fatto il calciatore? E lo ha fatto a livelli altissimi? La finezza e l’intelligenza delle sue aperture. La sofisticata potenza delle sue conclusioni da fuori. Il suo dribbling diabolico, perché mi ha sempre ricordato la melliflua velenosità del serpente di Adamo ed Eva – il modo in cui, al termine del dribbling, un secondo prima di lasciar partire il tiro, si allargava il pallone sull’esterno, spostandolo all’indietro. E ancora: i suoi anni d’oro al Chelsea, articolatisi in vittorie di squadra e giocate di grande bellezza e intelligenza. Le sue bordate dalla distanza, i calci piazzati, le rasoiate in diagonale che contro fisica e logica e avversari riuscivano comunque a trovare la via del gol. I suoi tiri a giro dove la palla si alzava indemoniata e finiva sotto l’incrocio più lontano in un unico magnifico arco. Di quest’ultima tipologia, questa rete contro il Tottenham è la mia preferita: Hazard che di prima, dal limite dell’area, dopo essere partito da centrocampo e aver triangolato con Costa, apre sotto il sette con la naturalezza dei grandi, con la visione degli artisti.
Quindi la domanda È stato un campione o un bluff? è in realtà una domanda ingenerosa, molto ingenerosa – per non dire insensata – alla luce del grande giocatore che Hazard ha dimostrato di essere, quando era in forma e in salute. Un numero dieci che se avesse avuto il pregio – o il privilegio? – della continuità, oggi potrebbe stare nel discorso – aleatorio, pretenzioso, ma anche sempre divertente da fare (perché il calcio è anche questo, è anche dibattito inconcludente sull’indefinibile) – di Messi e Cristiano Ronaldo. Cosa che ad Hazard stesso poco interesserà, ormai. Perché, come ha scritto nel suo messaggio di addio al calcio giocato, ora è tempo di guardare al futuro. E di lasciarsi finalmente alle spalle la tempesta.