Programmare per vincere

Progettare il futuro è un dovere per qualsiasi club, nel calcio contemporaneo. Ed è per questo che il Gran Galà del Calcio AIC, ogni anno, premia la miglior società di Serie A.

Il gol che ha sbloccato Torino-Inter sembra fin troppo facile per un attaccante come Thuram, con la palla che arriva orizzontale da Dumfries, la difesa che si schiaccia nell’area piccola, tutto il tempo per calciare senza opposizione. Poi Thuram la gira di prima nell’angolo più lontano con un tiro preciso e secco che fa sembrare tutto ancora più banale. Era esattamente quello che l’Inter chiedeva al suo attaccante quando l’ha acquistato: avrebbe dovuto portare il suo talento fisico e atletico, aggiungere una tensione verticale che i suoi due predecessori della scorsa stagione – Dzeko e Lukaku – non potevano avere, ma anche garantire quella continuità che è spesso mancata a chi negli ultimi anni ha fatto da spalla a Lautaro Martínez, la capacità di fare bene le piccole cose e le cose facili, che spesso fanno la differenza per una squadra con un sistema rodato come quello dell’Inter. In questo senso, i primi mesi di Thuram in nerazzurro sono una promessa mantenuta, o una scommessa vinta: una piccola, singola, bella vittoria del club che aveva puntato da qualche anno – ben prima che Thuram si infortunasse al legamento crociato, nel 2021 – un giocatore con zero presenze in Serie A per sostituire due totem del campionato, e così ha trovato un attaccante pronto, decisivo da subito, uno che sembra nato per stare nella sua squadra e nel nostro campionat.

Nell’ultima giornata abbiamo avuto molti esempi di come il lavoro e la programmazione dei club possano portare i loro frutti in modi molto evidenti, in momenti unici che cambiano una partita e magari una stagione. Meno di ventiquattro ore dopo il gol di Thuram, Zito Luvumbo ne ha segnato uno altrettanto facile in Salernitana-Cagliari: l’azione nasce da un recupero alto, o da una palla persa imprudentemente da Martegani; Jankto fa l’assist più facile del mondo a Luvumbo e lui la gira in porta forte e alta con l’interno del sinistro. Ogni volta che segna o incide in maniera diretta su una partita, Luvumbo ci ricorda quanto sia centrale nella sua squadra, non solo sul campo ma anche nel progetto sportivo del Cagliari: la società lo ha acquistato nel 2020 con un contratto quinquennale, mostrando visione e fiducia nelle capacità di un ragazzo allora appena diciottenne. E poi c’è l’Atalanta, che ha chiuso la partita con il Genoa con la porta inviolata anche per merito di un Carnesecchi spettacolare in almeno due occasioni. Stessa sera, poche ore dopo, Dean Huijsen ha esordito nella Juve impegnata a San Siro contro il Milan: il 18enne difensore olandese ha giocato con una lucidità e una tranquillità «da trentenne», come ha detto Allegri nel post-partita. E nel posticipo del lunedì il Lecce ha trovato il pari nel finale a Udine con un gol di Piccoli su assist di Sansone, cioè gli ultimi due arrivati in Salento, i due innesti fatti da Corvino per completare il reparto offensivo con giocatori già adatti al gioco di D’Aversa.

Thuram, Luvumbo, Carnesecchi, Huijsen, Piccoli e Sansone hanno tutti ruoli e peso diversi per le loro squadre. Ma tutti rappresentano in qualche modo – con le dovute differenze e proporzioni – un tassello rilevante nel percorso di crescita dei loro club. Le loro carriere e le loro storie sono inevitabilmente intrecciate al lavoro che c’è dietro le quinte, ai piani dirigenziali, all’attenzione e alla programmazione delle società. Perché nel calcio degli anni Venti, per vincere – o fare bene, in senso più generico, a tutti i livelli di classifica – non si può prescindere da un lavoro profondo, stratificato, analitico e umano allo stesso tempo, sempre proiettato al futuro. È questo il senso del premio alla miglior società conferito nell’ambito del Gran Galà del Calcio AIC, il riconoscimento annuale dell’Associazione Italiana Calciatori assegnato con i voti di allenatori, arbitri, giornalisti, ma soprattutto dei giocatori stessi. Un premio alla qualità del lavoro di dirigenti e presidenti, quelli che più di tutti conoscono le difficoltà ma anche la bellezza di un calcio che va a mille all’ora anche fuori dal campo, che cambia e si evolve e richiede sempre competenze nuove e conoscenze più aggiornate.

Nel 2011, cioè la prima edizione, il premio l’aveva vinto l’Udinese. Il club della famiglia Pozzo era arrivato ai vertici del calcio italiano, centrando il quarto posto e la qualificazione ai playoff di Champions League. La rosa messa a disposizione di Guidolin era un ensemble di giocatori che proprio nell’Udinese si sarebbero rivelati al grande calcio europeo. C’era uno dei migliori attaccanti della storia della Serie A, Antonio Di Natale, capocannoniere con 28 gol; attorno a lui una formazione giovane e fortissima, assemblata con pazienza e visione da videogioco. C’erano Samir Handanovic, Kwadwo Asamoah, Alexis Sanchez, Juan Cuadrado. E poi, ancora Mauricio Isla, Gökhan Inler e Mehdi Benatia. Futuri campioni che l’Udinese aveva scovato in giro per il mondo e portato in Italia.

Poi c’è stata l’era del dominio juventino. I bianconeri hanno vinto più volte, in tutti i modi, gestendo i campionati secondo esigenze e criticità sempre diverse. Allora in quegli anni – quasi un decennio – i premi alla miglior società riflettevano uno strapotere chiaramente percettibile in campo. Nel 2012 la Juventus è una bellissima rivelazione, la stagione che inaugura lo Juventus Stadium è la prima di Antonio Conte sulla panchina dei bianconeri e porta in dote lo scudetto. Le statistiche non sempre spiegano tutto, ma quella Juve aveva subito appena 20 gol in campionato, in una stagione con zero sconfitte in Serie A: in questo caso, quindi, i numeri fotografano una realtà autoevidente che non ha bisogno di troppe spiegazioni.

Il lavoro dirigenziale sulla squadra è certosino, la rosa viene rimodellata a ogni sessione di mercato, cesellata anno dopo anno. È così che la Juventus inaugura una striscia di successi senza precedenti. Al secondo anno di Conte, i bianconeri restano in vetta alla classifica dalla prima all’ultima giornata, e quella del 2013/14 sarà ricordata come la stagione dei record – per punti fatti (102) e vittorie consecutive (12). La rosa è certamente la migliore del campionato, ma i meriti del club vanno molto oltre il campo. Infatti l’addio di Antonio Conte non sembra cambiare granché: il dominio bianconero si ramifica e si rafforza ulteriormente nel quinquennio di Allegri, sempre appoggiato da una struttura societaria efficiente, moderna, rivolta ai migliori standard internazionali.

Flash forward al 2018 e la Juventus è ancora lì, è ancora la squadra da battere, è ancora la miglior società della stagione. Con una rosa completamente diversa, nuovi protagonisti, nuovi volti, nuove fisionomie. Ci sono Bentancur e Bernardeschi, Douglas Costa e Szczesny, poi ovviamente Higuaín e Dybala. I sette premi consecutivi sono uno speciale riconoscimento al lavoro pluriennale della dirigenza e della proprietà, a chi ha saputo muoversi prima e meglio degli altri su tutti i fronti, conquistando un vantaggio sulla concorrenza per poi conservarlo.

La Juventus ha vinto nove scudetti consecutivi tra il 2012 e il 2020: la striscia più lunga nella storia del calcio italiano. I sette premi come società dell’anno al Gran Galà del calcio sono arrivati tra il 2012 e il 2018 (Emilio Andreoli/Getty Images)

L’egemonia bianconera si interrompe nel 2019 e gli ultimi quattro anni hanno avuto un tono molto diverso, dei padroni diversi. C’è un doppio premio in back-to-back all’Atalanta di Gasperini, ormai diventata una delle squadre più interessanti d’Europa. Non solo perché, come ha detto Pep Guardiola, giocare contro di loro è un’esperienza cruda e spigolosa «come andare dal dentista». Il club nerazzurro dimostra, attraverso i risultati, di saper fare player trading come i migliori club del continente, di saper sviluppare il talento fin dalle giovanili, di saper valorizzare tutti gli asset societari, compresa la gestione dello stadio e del centro sportivo. Negli ultimi anni l’Atalanta è entrata nella modernità calcistica del XXI secolo, un’epoca in cui un club è allo stesso tempo espressione di una comunità territoriale e un’azienda con interessi globali che possono essere esplorati anche da chi non ha il blasone e la tradizione delle grandi storiche.

Nell’ultimo biennio c’è stato il ritorno delle milanesi, prima Inter poi Milan. Un premio a due vincitrici dello scudetto, alla rinnovata corsa cittadina a chi arriva per primo alla seconda stella. Ma Inter e Milan hanno seguito percorsi lontanissimi tra loro, quindi i loro premi come miglior società dell’anno hanno anime differenti. L’Inter ha vinto alla chiusura del biennio di Antonio Conte, in un’edizione in cui ha dominato anche in altre categorie – cinque giocatori nella squadra dell’anno, il miglior giocatore in assoluto (Lukaku) e il miglior allenatore. Quello è stato il trionfo di una squadra che stava consolidando la sua presenza stabile ai vertici della Serie A, in un percorso avviato già durante la gestione Spalletti. Il Milan ha vinto in uscita da quella banter era che sembrava aver ridimensionato definitivamente le ambizioni e le possibilità del club. I rossoneri che conquistano lo scudetto nel 2022 in realtà iniziano a rinascere non più tardi del 2020, con il ritorno di Ibrahimovic e l’arrivo – per la verità a fine 2019 – di Stefano Pioli in panchina. La crescita del Milan quindi parte dal campo, ma si concretizza nel lavoro della dirigenza, si riunisce all’impegno di Maldini e Massara, tutti insieme hanno saputo restituire al club la sua statura, lo standing internazionale che ha sempre avuto. Percorsi diversi, stili diversi, stesso risultato: il ritorno ai vertici del calcio italiano grazie alla programmazione e alla pianificazione ai piani più alti del club. Che bellezza, anche se non si tratta di campo.