Il Milan ha finito il suo ciclo?

La sconfitta col Borussia Dortmund e la crisi rossonera sono dei segnali chiari, in questo senso.

Nella letteratura del calcio italiano, i cosiddetti cicli vincenti dei vari club – ovviamente non tutti portano dei trofei, ma l’Atalanta che va in Champions per tre anni di fila, per dire, è certamente il frutto di un ciclo vincente – nascono e muoiono in simbiosi con il percorso di un allenatore, a sua volta legato a un gruppo di giocatori. Nel caso del Milan, quindi, è inevitabile parlare del Milan-di-Pioli, di una squadra fondata su un gioco aggressivo e verticale, su uomini-simbolo come Rafa Leão, Theo Hernández, Bennacer, Tonali, Tomori, Calabria, Maignan, Giroud. È tutto giusto, ci mancherebbe: stiamo parlando dei protagonisti assoluti di un campionato e mezzo giocato ad alto livello (la seconda parte del 2019/20 e tutto il 2020/21), di uno scudetto vinto in modo forse inatteso ma meritato (2021/22) e di una Champions sfumata solo in semifinale (2022/23). Il punto, però, è che dentro e dietro il gruppo-squadra lavora anche un altro gruppo: quello dei preparatori, dei dirigenti tecnici, dei manager economici. Come dire: la realtà è molto più vasta, si può leggere e indirizzare da diverse prospettive. E oggi la realtà, si può dire, sta suggerendo che il ciclo di questo Milan, tutto intero, sembra essere giunto alla sua fine naturale.

La sconfitta interna contro il Borussia Dortmund, che ha reso complicatissimo – per non dire impossibile – l’accesso agli ottavi di Champions League, ha avuto lo stesso effetto del colpo di martelletto di un giudice che ha appena enunciato la sentenza di un processo, nel senso che è arrivata in modo brutale. Non è solo una questione di risultato, in fondo una sconfitta può anche essere casuale, ma del modo in cui è maturata: un Milan spuntato, che già si teneva insieme con lo scotch, ha perso Thiaw per infortunio quando il risultato era di 1-1; Pioli ha dovuto inserire Krunic, un centrocampista centrale adattato nel ruolo di difensore, e alla fine il Borussia ha dilagato fino all’1-3.

Detta così, potrebbe anche sembrare che l’allenatore del Milan abbia delle attenuanti. Che questa sconfitta sia legata all’infortunio di Thiaw, e in parte è sicuramente vero. Il punto è che Thiaw è diventato uno dei 19 (!) giocatori del Milan, su 27 in rosa, che hanno accusato un problema fisico nel corso di questa stagione. Gli unici otto componenti della rosa che non hanno saltato nemmeno una convocazione a causa di un infortunio, finora, sono Mirante, Florenzi, Tomori, Adli, Reijnders, Pobega, Romero e Giroud. Questi numeri sono troppo grandi per poter essere ignorati, anche perché la maggior parte delle assenze – a cominciare da quella di Thiaw – è da ricondurre a incidenti di natura non traumatica. Insomma, è inevitabile pensare che lo staff di preparatori atletici costruito da Pioli abbia delle responsabilità, per questa lunghissima sequenza di infortuni.

Poi ci sono anche le responsabilità puramente tattiche dello stesso Pioli, che nonostante le emergenze – e le evidenze – si ostina a praticare un calcio di grande dispendio atletico, in cui centrocampisti e (soprattutto) difensori devono coprire ampie porzioni di campo duellando spalla a spalla e in velocità con gli avversari. La sensazione è che l’allenatore del Milan fatichi a comprendere come la sua squadra, per tanti motivi, non sia più quella del 2021 o del 2022: crede che possa giocare alla stessa maniera, con la stessa intensità, con le stesse spaziature. Ecco, evidentemente non è così. Non a caso, viene da dire, il reparto in cui Pioli ha più problemi è quello che viene sollecitato di più dai suoi principi di gioco, quello dei difensori centrali. Non a caso, viene da aggiungere, circa nove mesi fa il Milan era venuto fuori da una situazione simile – tra infortuni e prestazioni negative – con un nuovo sistema di gioco, con l’inserimento di un terzo difensore centrale. Che ora in rosa non è disponibile, i candidati potenziali sono tutti fuori per infortuni, ma fino a inizio novembre la situazione era diversa. Era meno grave. Solo che Pioli, questa volta, ha deciso di non investire nel cambiamento.

I dubbi di chi, oggi, chiede l’esonero dell’allenatore sono abbastanza fondati. Di certo sono comprensibili, come lo erano quelli sulla riconferma in estate. Allo stesso modo, però, vanno analizzate con uguale severità anche le scelte della dirigenza e della società. Partendo dai fatti del calciomercato: al netto dei soliti infortuni, il Milan ha deciso di tenere Kalulu, Kjaer e Pellegrino come alternative di Tomori e Thiaw, di confermare Florenzi come vice-Calabria e, di fatto, di non prendere una reale alternativa a Theo Hernández; a centrocampo, che sia a due o a tre, la lunga assenza di Bennacer è stata coperta con Adli e Krunic, due elementi molto diversi rispetto all’algerino; in avanti, Giroud ha 37 anni e i giocatori scelti per dargli fiato, Okafor e Jovic, hanno un profilo molto differente dal suo – e non si sono ancora mostrati all’altezza di prenderne il posto. Infine, è chiaro che la necessità di ricorrere a due teenager come Camarda e Chaka Traoré sia legata all’emergenza di questo periodo, ma resta comunque un dato.

Al Milan, è chiaro, tutti devono interrogarsi. Sul passato, e a questo punto anche sul futuro. Sulla possibilità che il nuovo progetto – inevitabile parlare in questi termini dopo l’addio di Maldini e Massara – non sia stato approntato con gli uomini e quindi con i concetti giusti, in campo, in panchina, in altre posizioni strategiche. Sull’eventualità che fare un cambiamento drastico, da parte di Pioli o riguardo Pioli, possa essere un’idea da valutare. Il cammino in Champions è evidentemente compromesso, ma in campionato ci sono i margini per recuperare qualche punto. A volte bisogna cancellare qualcosa, per poter ricominciare. A volte l’entusiasmo di un nuovo inizio può riaccendere dei fuochi che sembravano spenti in maniera irreversibile. E un nuovo inizio, questo è certo, arriva sempre dopo la fine di un ciclo.