Non è che stiamo sopravvalutando le squadre di Premier League?

I club inglesi hanno tantissimi soldi, eppure fanno fatica a creare progetti a lungo termine. E questo problema si riflette sui risultati nelle coppe europee.

I gironi di Champions League non sono andati proprio benissimo per le squadre inglesi. Due primi posti, anche piuttosto annunciati, per Manchester City e Arsenal; due quarti posti a dir poco deludenti per Manchester United e Newcastle. Il totale, la somma di questi valori ci dice che fin qui la Champions League 2023/24 è la peggiore di sempre per i club inglesi. E in qualche modo è una notizia, perché questa è, o dovrebbe essere, l’epoca in cui il vantaggio economico, poi tradotto nei valori in campo, delle squadre di Premier League sulla concorrenza degli altri campionati è totale, strutturale, sistemico. E quindi è, o dovrebbe essere, un’epoca di dominio inglese sul calcio europeo.

Oggi il Manchester City è campione d’Europa ed è probabilmente la miglior squadra del mondo, visto che ha un’egemonia senza precedenti sull’Inghilterra – ha cinque degli ultimi sei campionati. Questo status l’ha costruito negli anni, con pazienza e visione. A settembre 2016, dopo sole quattro partite dall’inizio della stagione, un articolo del The Independent aveva già intuito l’impatto di Guardiola sull’ecosistema della Premier: «Il Manchester City sta dimostrando che anche in Inghilterra è possibile vincere praticando un calcio di possesso, con un modello lontano dallo stile stereotipato a cui siamo aggrappati. La Premier può vantare tanti calciatori di talento, ma i nostri manager non riescono a esaltare la qualità dei loro giocatori, a mettere a punto delle strategie che cerchino di andare oltre il successo a breve termine». L’auspicio sottinteso nell’articolo era che l’esempio di Guardiola potesse essere seguito da molti club inglesi, considerando che questi club hanno risorse più che sufficienti a costruire una squadra di altro livello. Ecco, non è andata proprio così.

L’unico club ad aver fatto un percorso simile sembra essere il Liverpool, oggi tornato ai vertici del campionato dopo una stagione negativa – che, visti i recenti risultati, può essere derubricata a passo falso fisiologico nel mezzo di un ciclo lunghissimo e vincente. L’Arsenal sembra incamminato sulla stessa direzione, ma la sua storia recente è piena di errori e passi falsi: dopo l’addio di Wenger, i Gunners hanno girato a vuoto per anni alla ricerca di un’identità, di una soluzione strategica di lungo periodo che andasse oltre l’accumulo di talento per vincere le partite. Solo con l’arrivo di Mikel Arteta – che era stato spalla di Guardiola al City, forse è un caso o forse no – è riuscito a dare forma alle idee, con la pazienza giusta per costruire una squadra vera, modellando la rosa un pezzetto alla volta, fidandosi finalmente della sua guida tecnica.

Tutti gli altri sembrano presi da una frenesia cieca, trovare un progetto di ampio respiro sembra impossibile. È vero che il livello medio del campionato richiede quasi sempre risposte immediate e un pragmatismo emersoniano, ma nessuno sembra in grado di inserire queste esigenze in una visione più larga. Il Chelsea ha raggiunto il risultato migliore della sua storia recente con Thomas Tuchel in panchina, in una stagione in cui aveva esonerato il tecnico che aveva iniziato il campionato, vale a dire Frank Lampard. Ma, dopo aver vinto la Champions League nella primavera del 2021, il tecnico tedesco non è stato seguito dalla società, e non è arrivato alla fine della stagione successiva sulla panchina dei Blues. Il fatto che oggi le vicende del Chelsea siano ai limiti del romanzo grottesco, con spese fuori dal mondo e un’incapacità quasi mistica di costruire qualsiasi cosa, è un riflesso di questo approccio.

(Questo tra parentesi invece è un paragrafo allegorico: qui si dovrebbe parlare di quel Circolo Pickwick che è il Manchester United, ma forse non è il caso di infierire. Però almeno si può dire che l’idea di chiamare Erik ten Hag a guidare la squadra sembrava il seme di un progetto visionario, uno in cui un Moloch ingombrante come Cristiano Ronaldo non avesse diritto di cittadinanza. Invece anche l’allenatore olandese sembra destinato a crollare: chi osa troppo finisce col farsi, come Icaro.)

Nel 2019 Louis van Gaal, ex allenatore dei Red Devils, venne intervistato dal Guardian. E disse: «Quando ho fatto il colloquio con lo United nel 2014 non abbiamo mai parlato di sistemi e idee di gioco. Volevano che facessi molto altro. Il club aveva bisogno di essere rinnovato nell’organizzazione perché oggi c’è uno squilibrio tra la dimensione sportiva e quella commerciale». È un problema che in seguito è costato il posto a Unai Emery alla guida dell’Arsenal, in un club in piena trasformazione che gli chiedeva di andare oltre il ruolo di allenatore. La verità è che la Premier League sta ancora scontando i ritardi causati da abitudini anacronistiche – come quella del manager all’inglese, onnisciente e tuttofare – e quella autoreferenzialità tipica britannica che per anni hanno bloccato il club nel tempo passato. Così mentre il calcio europeo si evolveva verso nuove complessità – soprattutto sul campo, perché sul piano industriale/commerciale gli inglesi non hanno mai preso terreno – e studiava/formulava/imparava il calcio posizionale e poi quello relazionale, le squadre di Premier affogavano in un gioco ancora legato ai singoli e alla loro capacità di correre, saltare, muoversi più degli avversari, nella speranza che sporcarsi calzoncini e calzettoni fosse ancora il modo migliore per giocare a calcio. Un’inerzia antica, che si ritrova nel libro La Piramide Rovesciata di Jonathan Wilson, in riferimento agli anni Cinquanta e poi di nuovo agli anni Settanta: «Alcune pesanti sconfitte in campo internazionale avevano chiarito che qualsiasi convincimento in merito alla superiorità del football inglese era solamente un mito, o quantomeno c’era una certa consapevolezza che lo stile doveva necessariamente cambiare. Il problema era che nessuno sembrava essere sicuro su come affrontare la situazione».

La storia ha iniziato a cambiare solo di recente, con l’ondata di migrazione degli allenatori stranieri. Sono appunto i Guardiola, i Klopp, gli Arteta, ma anche gli italiani Antonio Conte, Maurizio Sarri e Roberto Mancini, e tutta la schiera di allenatori spagnoli. L’innesto di nuove idee, nuovi metodi di lavoro e nuove abitudini – corroborate dai risultati – hanno convinto tutti i club a puntare su un aggiornamento generale. Adesso è assodato che, senza un allenatore straniero, non si possa vincere: dall’istituzione della Premier League contemporanea, nel 1992, solo due manager britannici sono riusciti a vincere il campionato, Ferguson e Dalglish, entrambi scozzesi; l’ultimo allenatore inglese a riuscire in questa impresa è Howard Wilkinson, con il Leeds United, stagione di grazia 1991/92.

Da quando è arrivato a Manchester, sette anni e mezzo fa, Pep Guardiola ha vinto cinque volte la Premier League: non ci è riuscito solo nella stagione d’esordio e nell’annata 2019/20 quella segnata dalla pandemia (Michael Regan/Getty Images)

In una prospettiva europea va detto che le squadre di Premier League hanno ancora tutte le quote di Las Vegas a loro favore. Negli ultimi cinque anni in finale di Champions League sei squadre su dieci erano inglesi – Manchester City e Liverpool due volte, Tottenham e Chelsea una volta, seguite da Inter, Real Madrid, Bayern Monaco e Paris Saint-Germain. E solo in un’edizione, quella del 2020, non c’era una formazione inglese a giocarsi il trofeo. Eppure questa condizione non sembra ancora paragonabile alle fasi storiche di dominio di altre nazioni sul calcio europeo.

La Serie A degli anni Novanta, quella delle sette sorelle, aveva dei tratti in comune con la Premier League di oggi, soprattutto nella capacità di attrarre i migliori giocatori disponibili sul mercato. Anche quello era un dominio dovuto a una disponibilità economica spaventosa, ma sul campo era decisamente più netto di quello inglese attuale, sia in Champions League che in Coppa Uefa – e allora c’era anche la Coppa delle Coppe, vinta da Sampdoria, Parma e Lazio, con Atalanta, Fiorentina e Vicenza capaci di arrivare fino in semifinale. Allo stesso modo la Liga ha ammazzato ogni competizione europea per un decennio, o forse di più, dopo la rivoluzione del gioco di posizione portato da Pep Guardiola al Barcellona a partire dal 2008. L’autorità delle squadre spagnole nasceva direttamente dal campo, considerando che solo Real Madrid e Barcellona avevano – e hanno – la ricchezza dei competitor internazionali, ma le altre vivevano e vincevano sulla scorta di idee, sviluppo del talento, costruzione di un’identità tattica e di squadra nettamente superiore a tutti gli altri. Una stagione d’oro sostanziata in una varietà di risultati che va ben oltre la retorica sul campionato a due sole potenze: per un periodo più o meno lungo affrontare una squadra della Liga in un turno a eliminazione diretta significava sostanzialmente salutare la competizione.

È sempre difficile decifrare lo stato di salute o il valore assoluto di squadre, campionati e movimenti calcistici nazionali. Dopotutto, il calcio è allo stesso tempo uno sport e un’industria globale. E oggi la Premier League, nonostante alcuni tonfi clamorosi nelle coppe, può vendere il suo prodotto al prezzo della stessa Champions League in fatto di diritti di trasmissione. A pensarci bene, anche questo è un modo di vincere. Nella doppia esistenza del calcio come prodotto d’intrattenimento e come competizione agonistica, tutti gli shareholder della Premier League hanno saputo puntare sulle migliori competenze per investire nella prima componente, nella convinzione che per la seconda – quella del campo – sarebbe bastato spendere più della concorrenza. Lentamente stanno aggiustando il tiro, ma come per tutte le cose di un certo peso ci vuole tempo. Intanto possono godersi i risultati della Premier League come spettacolo globale. Non è poco. Anzi, forse gli ve anche bene così.