Il tennis ti dà una soddisfazione impareggiabile: intervista a Luca Ravenna

Uno dei migliori comici italiani voleva diventare Andrea Gaudenzi, ma purtroppo è un pallettaro.

Ho conosciuto Luca Ravenna su uno sterminato campo di calciotto durante una partita umidissima in cui lui faceva l’esterno nella squadra avversaria e io il centrocampista centrale. Roma ha il pregio irripetibile di farti parlare con chiunque, un effetto che si moltiplica quando hai 25 anni, stai giocando a calcio con qualche amico che ti ha raccattato all’ultimo secondo su Facebook e – di fondo – non hai mezzo pensiero storto in tutta la vita. Dopo aver fatto la doccia, nel tragitto verso auto e motorini, mi vide con in spalla una borsa da tennis Head e mi riconobbe come un suo simile. Era il 2018, il tennis era già lo sport più bello del mondo ma non stava vivendo il momento di popolarità attuale. Inoltre, gli anni dai 18 ai 30 sono quelli della crisi per chi non gioca abbastanza bene da farne una carriera e neanche abbastanza male da fare una partita all’anno, al mare, con le Stan Smith ai piedi e una racchetta senza grip che ti scivola a ogni mezzo dritto tirato con un’impugnatura indecente. Se hai giocato da bambino e anche da adolescente, è difficile continuare durante il periodo dell’università, ancora di più da fuori sede.

Invece, per caso ci trovammo e giocammo anche molto volte la nostra personale Coppa Davis: in casa mia al Pro Roma di Largo Preneste, in casa sua al Circolo Atac sul Lungotvere. Belle partite devo dire, da terraioli, da pallettari appassionati che visti da fuori tirano ai due all’ora ma dentro al campo si sentono Guillermo Coria e Gaston Gaudio al quinto della Finale del Roland Garros. Quando gli telefono per intervistarlo è ancora stordito di felicità per i sold out consecutivi che il suo spettacolo, intitolato Red Sox, sta accumulando in tutta Italia e per essere diventato ed essersi affermato come uno dei migliori comici italiani. 

Ⓤ: Luca, parto con una domanda impossibile. Qual è la tua partita di tennis preferita di sempre? 

È difficilissimo rispondere ma penso che quella che mi abbia dato più soddisfazione sia stata la semifinale 2011 al Roland Garros tra Federer e Djokovic. Roger ha interrotto la striscia positiva di Nole di 43 partite di fila e quella vittoria in quattro set è stata la partita più bella che abbiamo mai visto.

Ⓤ: Chiudi gli occhi e dimmi il tuo primo ricordo legato al mondo del tennis.  

La parola tennis è arrivata nella mia vita grazie a mio padre all’inizio degli anni Novanta. Faceva dei doppi con gli amici e per giocare indossava un costume a slip sotto i calzoncini per assorbire meglio il sudore. Quando lo vedevo andare a prendere quello nell’armadio, capivo che era il momento del tennis. Poi tutto è diventato più concreto, ricordo di aver visto un Sampras contro Becker sulla terra rossa trasmesso su TeleMonteCarlo ma non saprei dirti di che torneo si trattasse. 

Ⓤ: Luca Ravenna ha dieci anni, il numero uno d’Italia è Renzo Furlan che come massimo risultato in carriera ha i quarti di finale al Roland Garros. Com’era nel 1997 essere un bambino italiano appassionato di tennis? 

Mio padre è sempre stato appassionato di tutti gli sport e li seguiva con passione. Quelli erano gli anni sfavillanti di Tomba che stravinceva, ma la Coppa Davis era una cosa importante in Italia, quasi sacra. In casa ricordo che si parlava di Canè, di Ocleppo, ma io volevo diventare Andrea Gaudenzi. Questo credo restituisca la misura di cos’era seguire il tennis negli anni Novanta. Ero al Forum quando perdemmo la finale di Coppa Davis contro la Svezia. 

Ⓤ: Hai assistito al punto più alto del tennis italiano maschile di squadra prima del trionfo in Coppa Davis di novembre. 

Sono arrivato al Forum insieme a mio padre mentre Gaudenzi stava stringendo la mano a Magnus Norman dopo essersi ritirato per l’infortunio alla spalla sul 6-6 al quinto set. Il Forum era disperato, eravamo tutti appesi a Sanguinetti ma proprio non ce la faceva e perse in tre set contro Gustafsson. Si stavano diffondendo i cellulari e mi ricordo che dentro al palazzetto squillavano di continuo, l’amico di mio padre che ci aveva portato ripeteva di continuo, indignato: ma non potete mettere il vibracall? Penso sia la frase più da sfigato che abbia mai sentito. 

Un momento piuttosto comico della Coppa Davis 1998, ma Luca Ravenna non c’entra

Ⓤ: Vincere a Málaga è stato bello, forse un risarcimento per le generazioni di mezzo come la nostra e un grande acceleratore di passione per chi si sta avvicinando al tennis. Senza essere accusati di passatismo e nostalgia, possiamo dire che la Coppa Davis come esiste adesso non è paragonabile a quella di una volta?

Ti faccio un paragone calcistico. Continuare a dire che la Coppa dei Campioni di una volta era più difficile della Champions League attuale non ha senso, per la Coppa Davis invece il ragionamento è totalmente l’opposto. Facevano viaggi assurdi in mezzo alla stagione, ma vai a giocare in Argentina sulla terra rossa contri i peggiori rematori della storia e tutto lo stadio che ti sputa addosso. Sono stato due anni fa a Bologna a vedere il girone di qualificazione, bellissimo ma quell’atmosfera mancava. Vincere a Malaga è stata una grande soddisfazione anche perché ha lanciato Sinner nella stratosfera e mi ha emozionato vederlo battere Djokovic. Ma cosa sarebbe stato se lo avesse battuto a Belgrado o in una qualunque città italiana? Quella dimensione è irripetibile, di quando una squadra vinceva fuori casa e avevi l’impressione che cinque persone avessero battuto una nazione intera Io sono un figlio degli anni ’90, della polo Fila, della maglia Lotto, eccetera eccetera.

Ⓤ: Avresti mai pensato di assistere alla vittoria di uno Slam maschile da parte di un italiano? 

Assolutamente no, mai e poi mai. Noi arriviamo da un’epoca drogata dai trionfi di Federer, Nadal e Djokovic. Poi pensi a Wawrinka, a Murray ma anche a Cilic per citare uno che ha vinto uno Slam e noi italiani negli ultimi anni non c’eravamo mai nemmeno avvicinati a giocatori così. Mi è dispiaciuto molto quando Berrettini ha perso la finale di Wimbledon dopo aver vinto il primo set perché ho pensato che un’occasione del genere non sarebbe mai più ricapitata. Matteo è stato il primo giocatore dopo anni che ha rimesso l’Italia sulla cartina geografica delle nazioni che potevano vincere un torneo del Grande Slam. Lo ha fatto nel torneo più bello di tutto lo sport in assoluto, nel posto più affascinante del mondo. Adesso invece sembra che non abbia mai fatto niente. 

Ⓤ: Quanto è stato squallido il modo in cui i media hanno trattato – e stanno trattando ancora – Berrettini? 

Purtroppo è una consuetudine triste del mondo dell’informazione sportiva. Capitò ad Angellilo che dopo aver vinto il titolo cannonieri si fidanzò con una soubrette di allora, è successo a Fausto Coppi con la Dama Bianca. La figura femminile viene strumentalizzata per gettare discredito su una carriera, e alla fine anche su due persone. Berrettini ha fatto finale a Wimbledon, semifinale in Australia e negli Stati Uniti e quarti al Roland Garros perdendo da Djokovic. Forse non ci rendiamo conto di quello che ha fatto, è un ragazzo del 1996 che a 25 anni è arrivato in fondo a un torneo del Grande Slam e a cui è cambiata la vita. L’anno successivo è stato fermato dal Covid e lo ha detto pubblicamente anche se non era tenuto a farlo. Credo che i suoi risultati siano stati sottovalutati. È stato trattato con una violenza immeritata, e lo stesso è successo con la campagna denigratoria ai danni di Sinner che ha portato avanti La Gazzetta dello Sport a fine 2023. 

Ⓤ: Come stai vivendo l’esplosione popolare del tennis? Spesso mi scatta dentro anche un po’ di risentimento per una cosa che prima era un po’ solo mia, nostra, e adesso invece è di tutti. 

Quando negli anni Novanta Tomba vinceva, tutti ascoltavano le telecronache di Bruno Gattai e si sentivano sciatori. Lo amavamo anche perché vedere la prima manche delle sue gare ci permetteva di saltare la messa della domenica mattina. È inevitabile che la popolarità investa gli sport del momento, è accaduto anche con Luna Rossa e tutto ciò che non è calcio e olimpiadi diventa subito fenomeno. È confortante pensare che i campi da tennis si stiano riempiendo di bambini che prendono in mano una racchetta per imitare Sinner dopo anni in cui i modelli potevano essere solo Federer, Nadal e Djokovic. Certo, noi eravamo ad ascoltare la band quando dentro a piccoli club scalcagnati c’erano tre spettatori, adesso che riempie gli stadi mi viene spesso da dire io ve l’avevo detto. Noi ci siamo gasati a vedere Potito Starace contro Grosjean al Roland Garros 2004, vallo a spiegare che un pallettaro casertano ti faceva saltare in piedi sulla sedia. 

Ⓤ: A che età hai iniziato a giocare? 

Direi nel 1995. Giocavo molto male ma con grande passione. Il tennis è uno sport che ti rovina la settimana ma nelle tre o quattro volte all’anno in cui sei nel tuo ti investe una soddisfazione impareggiabile. Credo – e immagino – che solo il surf ti possa dare una sensazione di armonia paragonabile. 

Ⓤ: Giocavi i tornei? 

Minchia! Nei circoli della Lombardia mi conoscevano tutti, prendevo 6-0 6-0 fisso, una garanzia. Sono sempre stato tesserato per il glorioso Tennis Lombardo ma sono sempre stato NC (non classificato, cioè senza i punti necessari per entrare in classifica nda). Una volta passai un turno grazie a un bye al torneo di casa e poi fui battuto da un ragazzo che forse era 3.5 o 4.1: dopo aver perso il primo set 6-0 al cambio campo chiesi al mio maestro se poteva portarmi un Gatorade. È dalla primavera del 2002 che aspetto ancora quella bottiglietta. Grazie al tennis diciamo che ho iniziato a lavorare perché ho ripreso quando mi sono trasferito a Roma e giocavo spesso con gli sceneggiatori che erano i miei professori al Centro Sperimentale e questo è stato un ottimo modo per creare dei contatti e dei rapporti. 

Ⓤ: Ti posso considerare ancora un giocatore di tennis in attività? 

Purtroppo non gioco da oltre un anno perché sto facendo fatica a conciliare la vita professionale con lo sport. Sono sempre stato uno che si prenotava due ore, prendendomi il giusto tempo, e ultimamene non ci riesco. Diciamo che attualmente ho messo su il fisico di Stan Wawrinka ma senza la sua potenza di braccio. Non ho neanche il suo tatuaggio con la frase di Samuel Beckett “Provarci sempre, fallire sempre. Non importa, bisogna riprovarci, fallire ancora e fallire meglio” ma devo dire che è una buona sintesi di come vivo il tennis. Sono la spalla del team di Davis della Svizzera senza essere così forte ma con una gran dedizione. 

Ⓤ: Descrivimi il Luca Ravenna tennista come farebbe un cronista in diretta su Eurosport alla vigilia di un primo turno di un Master1000. 

Fondamentalmente un pallettaro, terrorizzato dal mio stesso servizio con cui litigo fin dall’infanzia. Rovescio bimane per una vita poi mi sono rotto il polso due volte e sono dovuto passare a quello a una mano. Quando riesco a giocare bene questo colpo mi gratifica in un modo che fatico a raccontare a qualcuno che non ha mai giocato a tennis. 

Ⓤ: La domanda classica: Federer, Nadal o Djokovic? 

Adesso che sono cresciuto penso che la fortuna di aver visto prima uno e poi gli altri due sia superiore a ogni forma di tifo. Però devo essere sincero: Roger Federer è stato l’unico sportivo che mi ha fatto piangere, a parte il calcio. Ho pianto vedendo delle immagini dei suoi colpi e ho pianto di emozione la domenica mattina del 2017 in cui ha battuto Nadal in finale agli Australian Open. Lui per me è più degli altri perché senza di lui non avremmo avuto gli altri due, ha elevato il gioco in una dimensione nuova. Poi, fare quello che hanno fatto Rafa e Nole non ha senso, sono campioni immensi, ma anche il povero Murray che si è tolto le anche per fronteggiarli. La grandezza dei big tre a volte ci fa considerare poco altri giocatori incredibili. 

Un punto strepitoso di Federer contro Djokovic: era la semifinale del Roland Garros 2011, la partita più bella di sempre secondo Luca Ravenna. Per chi volesse, qui c’è la versione integrale del match.

Ⓤ: Due anni fa sono stato alle Finals a Torino e ho visto giocare da vicino Casper Ruud che è uno di cui sento dire – più che altro sui social – che è scarso, è noioso, eccetera. Tirava dritto, rovescio e servizio con un equilibrio, una forza, un’eleganza che io avrei ucciso per giocare così anche solo un’ora in tutta la vita. 

Arrivare al livello dei primi dieci giocatori del mondo secondo è me è di una complessità impensabile e a volte giudichiamo questi atleti con troppa superficialità. Penso a come le persone trattano gli anni da numero uno del mondo di Hewitt, o a giocatori come David Ferrer. Tsitsipas, Zverev, tutta quella gente lì non mi emozionano magari ma che giocatori sono? Parliamo di atleti di un livello altissimo. Nel tennis moderno forse si sono persi un po’ i cavalli pazzi intorno alla posizione 50, è rimasto solo Bublik. 

Ⓤ: Il tennis si porta dietro anche tutto un immaginario estetico importante. Brand preferito? Completo più iconico? 

Vorrei dirti Sergio Tacchini ma sarei ipocrita e devo essere sincero: Nike, Nike, Nike! I completi lanciati nel 1997 da Agassi e poi indossati anche da Marcelo Rios, strappato alla concorrenza di adidas, sono i miei preferiti. 

Ⓤ: Qual è la tua racchetta del cuore? 

Sono stato – come tutti i bambini del mondo – un grande utilizzatore Babolat perché era una racchetta facile. Poi invece adesso solo Head Radical, qualche tempo fa ho provato una Wilson Pro Staff ma mi stava uscendo una spalla praticamente. 

Ⓤ: Ti piace andare a vedere il tennis dal vivo?

Credo che il tennis sia uno sport che cambia completamente se visto in televisione o dal vivo. Sedermi al Foro Italico è affascinante, qualunque partita ci sia in campo. Una cosa bellissima del tennis è andarlo a vedere con qualcuno che non ne è esperto e potergli spiegare le cose, parlarne. Una cosa che lo rende unico è che le persone tifano sempre per quello indietro nel punteggio per vedere più partita. Non penso accada da nessun’altra parte. 

Ⓤ: Il tennis è uno sport di culto anche per i suoi racconti e per i suoi cantori. Luca Ravenna è un bambino cresciuto con Clerici e Tommasi? 

Uno dei ricordi più belli della mia vita sono le domeniche di luglio, a casa da solo a Milano a vedere le finali di Wimbledon Federer-Roddick con loro che parlavano delle ore e io che mi preparavo un panino al salmone. Sono stati la mia infanzia e la mia adolescenza, per tutto quello che dicevano e per la cultura che ci mettevano dentro. Erano come due rapper: anche se non capivo tutto, mi facevano nascere la curiosità per le cose belle, commentavano aprendomi le porte di un mondo che a volte non conoscevo. Cazzeggiavano insieme a noi con una leggerezza e una cultura mai viste, parlavano delle ore e riempivano i tempi morti di uno sport che ne ha molti. Sono anche un buon lettore di tennis, da Winning Ugly di Brad Gilbert che parla di tennis ma non solo, fino a Open di Agassi per cui tutti siamo in fissa. David Foster Wallace forse è il migliore in senso assoluto. Un libro molto bello che è uscito negli ultimi anni è Roger Federer è esistito davvero di Emanuele Atturo». 

Ⓤ: Anche tu hai un podcast sportivo insieme a Daniele Tinti. È un progetto che va avanti da anni, in principio si chiamava Tintoria Isspro 98, poi TAQ e adesso Antenna Sport. Quanto ti piace parlare di tennis? 

Parlare di tennis è molto difficile quando hai vicino qualcuno a cui non interessa, Daniele negli anni si è appassionato molto e si informa, credo anche per colpa o merito mio. Mi piace parlarne con leggerezza. Recentemente sono stato ospite a “Un podcast sul tennis” e mi sono divertito moltissimo con tutti i ragazzi che lo realizzano. È divertente, rivolto ai malati del gioco. Raccontano di tutto, scovano personaggi incredibili e riescono a far vivere la realtà di un tennista che arriva, non so, dal Cile e si trova a giocare tre tornei scassati in dei posti in Italia in cui nessuno di noi andrebbe mai. Il tennis è anche questo in fond»