Gli allenatori perfetti per i top club stanno diminuendo?

Liverpool, Bayern, Barcellona, ma anche Napoli, Juventus e Manchester United: le squadre più importanti faticano a trovare i loro prossimi tecnici.

Mentre al Santiago Bernabéu c’era la partita più bella dell’anno, a Londra Arsenal e Bayern Monaco si giocavano il loro divertentissimo quarto di finale. Arsenal e Bayern sono arrivate a questo punto della stagione in condizioni molto diverse, con premesse e aspettative praticamente opposte, e un solo punto in comune. L’allenatore dell’Arsenal, Mikel Arteta, a gennaio aveva annunciato il suo addio alla panchina dei Gunners: da lì non se ne è parlato più di tanto, anche perché nel frattempo la squadra sta vivendo la miglior campagna europea da molti anni ed è nel pieno della corsa al titolo più interessante della storia recente della Premier League. E quindi chissà, alla fine Arteta potrebbe anche rimanere. Il Bayern Monaco è dall’altro lato del diagramma. Per trovare risultati negativi come quelli di quest’anno bisogna scavare negli archivi del club e solo una vittoria in Champions League salverebbe la stagione. La dirigenza ha già annunciato che Thomas Tuchel dovrà cercarsi un’altra squadra a partire da luglio, ma del suo sostituto si parla pochissimo.

Le voci di mercato sugli allenatori, a questi livelli, non seguono le solite dinamiche dei rumors estivi, non c’è quella bulimia informativa a cui da anni siamo abituati. Né per una squadra che tutti vorrebbero allenare, né per una che sembra ingestibile. Per le grandi squadre d’Europa la campagna acquisti dei tecnici è diventata uno strano gioco di abilità: per trovare l’uomo giusto ci vogliono intuito, tempismo, una buona dose di carisma e anche un po’ di fortuna. Allora quando un allenatore come Xabi Alonso dice al mondo che vuole fermarsi ancora un anno al Bayer Leverkusen, ci sono club che restano impiccate – come il Bayern Monaco, il Liverpool e forse il Real Madrid. Trovare un piano B all’altezza delle aspettative, cioè un allenatore che abbia i gradi per entrare in uno spogliatoio di campioni ma anche un playbook aggiornato, è praticamente impossibile.

Negli ultimi anni molti grandi club si sono bruciati quando hanno provato a sperimentare con allenatori che non fossero già nel giro dell’élite calcistica europea. Il Chelsea aveva fatto un tentativo con Graham Potter, prendendolo dal Brighton con tutto il suo staff tecnico e alcuni membri dello scouting. Poi ovviamente il progetto era fallito come ultimamente falliscono quasi tutte le cose su cui mette le mani il Chelsea. Ci aveva provato anche il Real Madrid con Julen Lopetegui, il Barcellona con Ronald Koeman, il Paris Saint-Germain con Mauricio Pochettino: esperienze molto diverse, ma nessuna giudicata soddisfacente dal pubblico e dai dirigenti dei club. Dovrebbe rientrare nell’elenco anche la puntata del Manchester United su Erik ten Hag, l’unico di questo piccolo gruppo ancora in corsa per portare a termine due stagioni complete, ma più per mancanza di alternative che per meriti e risultati.

Non esiste un allenatore troppo bravo per non poter fallire quando arriva in una squadra di vertice. C’entra quel solito vecchio discorso della polarizzazione del calcio che ormai facciamo da tanti anni: le grandi squadre sono sempre più distanti dalle altre, giocano un campionato a parte, hanno standard tutti loro. E per quanto i Lopetegui, i Potter e i ten Hag di questo mondo possano dimostrare le loro abilità al Siviglia, al Brighton, all’Ajax, le pressioni e le ambizioni che devono avere quando arrivano al vertice sono un salto quantico.

A quelle altezze – non solo di classifica, anche di status del club, che spesso è anche una dimensione economica – i parametri di valutazione cambiano. L’avventura di Julian Nagelsmann al Bayern Monaco aveva la vittoria della Champions League come obiettivo minimo, e già è una specie di paradosso considerando le variabili e le coincidenze che di solito portano a vincere quella coppa. Poi magari in Baviera ci si aspettava anche la nascita di una dinastia vincente al servizio di un allenatore giovane e talentuoso, un progetto dorato destinato a durare anni. Invece quell’esperienza si è conclusa con un esonero dopo solo un anno e mezzo – la Bundesliga vinta con numeri senza senso non è nemmeno presa in considerazione nelle valutazioni finali. Si potrebbe fare un ragionamento simile anche per i diciotto mesi di Pochettino al Paris Saint-Germain: oggi li ricordiamo come una parentesi un po’ anonima, eppure parliamo di un allenatore che ha vinto l’unico campionato completo a disposizione e raggiunto una semifinale di Champions con una squadra parecchio disfunzionale.

Si dice sempre che vincere aiuta a vincere. È una di quelle frasi del dizionario calcistico che ormai si ripetono come uno slogan senza dare un vero peso al senso delle parole. Nel ristretto mercato degli allenatori questa sembra l’unica massima da seguire. Aver vinto in passato – non conta quanto, non conta quando, non conta come – sta diventando un’assicurazione sul rendimento futuro (tutti gli economisti del mondo sono in disaccordo con l’ultima frase, ma non i presidenti delle squadre di calcio). «Avere successo nella gestione di un club non è più necessario. È più importante la conoscenza di come funzionano questi templi giganti e tentacolari, la capacità di sentirsi a proprio agio al loro interno», scriveva Rory Smith sul New York Times ormai quasi tre anni fa. È proprio questo il paradosso: gli allenatori che meriterebbero una chiamata al vertice del calcio europeo – Roberto De Zerbi è uno di questi, ma anche Francesco Farioli (Nizza) o Andoni Iraola (Bournemouth) – sono considerati seconde scelte perché non hanno esperienza al vertice del calcio europeo.

L’élite calcistica è diventata sempre meno accessibile per gli outsider, per gli allenatori che non hanno il timbro del predestinato. Già tre anni fa, all’epoca del ritorno di Massimiliano Allegri alla Juventus e di Carlo Ancelotti al Real Madrid, scrivevamo che il mercato degli allenatori per le grandi squadre va verso la stagnazione: l’ascensore funziona solo a metà, e fatica ad arrivare ai piani più alti. Qualcosa però potrebbe cambiare presto (condizionale obbligato). La speranza sta nell’evoluzione del gioco. I nuovi principi del calcio relazionale, sempre meno rigido e impostato, sempre meno meccanico e invece tendente al read&react, sembrano appartenere soprattutto ad allenatori giovani o comunque non testati ad altissimi livelli – oltre a pochi eletti della vecchia guardia, come Ancelotti e Luciano Spalletti.

In Italia quest’anno abbiamo visto da vicino una delle esperienze calcistiche più interessanti della stagione, con il Bologna di Thiago Motta che mescola calcio posizionale e calcio relazionale. Una storia che contiene al suo interno l’esplosione di Calafiori come un nuovo prototipo di difensore centrale, il lavoro di Zirkzee da attaccante rifinitore, la fluidità delle connessioni tra difensori, centrocampisti e trequartisti. Ma non c’è solo Thiago Motta. Rúben Amorim che aveva fatto volare il Braga ora sta facendo lo stesso con lo Sporting Cp, ormai conosciuto da tutta Europa almeno per i numeri senza senso di Viktor Gyökeres, un attaccante che sembra sbucato da una campagna andata un po’ per le lunghe a Football Manager solo per rompere le statistiche degli expected goals. E poi c’è la scuola di allenatori brasiliani guidata da Fernando Diniz e Dorival Júnior, ma anche l’Argentina di Lionel Scaloni che ha adattato la tradizione dell’Albiceleste alle esigenze del calcio contemporaneo, cercando di mantenere l’idea della densità a centrocampo e di un possesso palla più lento e tecnico con un movimento creativo e il toco y me voy che oggi sta spopolando in Sudamerica. In generale il calcio aposizionale, relazionale, impostato sulle funzioni più che sui ruoli sembra sempre più presente, una tendenza a cui presto guarderanno sempre più allenatori, quindi sempre più squadre. Prima o poi qualcuno di questi avrà una chance al Liverpool, al Real Madrid, al Bayern Monaco. O almeno la meriterebbe, e la meriterebbe chi guarda il calcio oltre i muri del tifo. Anche solo per vedere l’effetto che fa.