«Calcio posizionale o calcio relazionale? Faccio fatica a definire una cosa e l’altra, penso che il nostro gioco sia un misto di questi due aspetti». Queste parole di Thiago Motta, pronunciate lo scorso 27 febbraio nel corso dell’evento organizzato dall’Associazione Allenatori all’Università di Bologna, hanno alimentato un dibattito che, in Italia, non si vedeva probabilmente dai tempi in cui Arrigo Sacchi istituzionalizzò la linea alta nella difesa a zona, superando di fatto il dogmatismo radicale e l’ortodossia della marcatura a uomo e della zona mista. Ma se all’epoca l’argomento era incardinato sull’idea dello scontro filosofico tra due scuole di pensiero, due scuole opposte e quindi destinate a non poter trovare un punto di incontro, oggi la situazione è decisamente più fluida.
Certo, tra i due modelli ci sono delle differenze. E, non a caso, la necessità di dover ricondurre tutto a una categorizzazione di fondo aveva trovato una sponda ideale nella finale del Mondiale per Club tra Manchester City e Fluminense del 23 dicembre scorso: quella partita venne presentata e vissuta come il confronto tra due allenatori considerati come i principali esponenti dei due mondi, Pep Guardiola per il calcio posizionale e Fernando Diniz per il calcio relazionale. «Loro giocano secondo il tipico stile brasiliano degli anni Settanta, Ottanta e Novanta: passaggi brevi, combinazioni impegnative e di alto livello tecnico. Si tratta di un modo di giocare con cui non ci siamo mai confrontati prima e dovremo essere bravi a imporre il prima possibile il nostro gioco e il nostro possesso palla», aveva detto Pep alla vigilia di una partita che il City avrebbe poi vinto 4-0, limitando al massimo i rischi connessi alla qualità del Flu.
In virtù di tutto questo, le parole di Thiago Motta risultano ancora più importanti: suggeriscono infatti l’esistenza di una terza via in cui questi due modelli si intersecano e si completano a vicenda, fino a trovare un punto di congiunzione nel camaleontismo dell’allenatore, nella sua capacità di privilegiare un approccio piuttosto che un altro in relazione a ciò che l’avversario propone a sua volta. «Abbiamo giocato contro la Lazio, che è una squadra che tende a difendersi a zona, e quindi abbiamo dovuto avere un’organizzazione sui ruoli anche per le caratteristiche dei giocatori che abbiamo oggi a disposizione; a Bergamo, invece, troveremo una squadra fortissima che non ti permette di giocare, e a quel punto sarà fondamentale la relazione tra i giocatori del Bologna. Che dovranno guardarsi e capirsi, perché alla fine il calcio è sempre un gioco collettivo». Anche queste parole sono state pronunciate da Motta, e raccontano l’anima mutevole della sua squadra: contro la Lazio di Sarri il Bologna aveva costruito la vittoria in rimonta attraverso i principi del gioco di posizione, vale a dire riaggressione alta, occupazione dello spazio alle spalle di prima e seconda linea di pressione, creazione della densità in zona palla per poi ricercare l’inserimento dal lato debole; contro l’Atalanta, invece, l’idea del tecnico del Bologna era quella di disorganizzare un sistema di uno contro uno a tutto campo attraverso la connessione tecnica tra i giocatori, creando lo spazio prima ancora di occuparlo. È andata esattamente in questo modo.
E allora si può dire: le gare contro Lazio e Atalanta – quindi contro due dirette concorrenti per un posto in Europa, entrambe vinte per 2-1 in trasferta, in rimonta, e a distanza di due settimane l’una dall’altra – spiegano come e perché il Bologna sia oggi una squadra che può giocarsela con tutti. Perché può giocarsela in qualunque modo, senza alterare le proprie probabilità di successo: «La Champions League è ampiamente alla portata di questo Bologna. Noi siamo stati bravi a disinnescarlo, ma saranno poche le squadre che ci riusciranno. A questo punto della stagione la loro classifica è reale, non casuale», ha dichiarato Gasperini. Non a caso.
All’Olimpico, dopo un primo tempo in cui la Lazio si è fatta preferire nell’interpretazione della fase di non possesso e della prima pressione sui portatori di palla, il Bologna ha gradualmente ripreso campo sfruttando le combinazioni del triangolo formato da terzino, esterno e mezzala di riferimento, mentre Zirkzee era chiamato a tirar fuori a turno uno tra Patric e Gila per favorire l’inserimento senza palla della seconda mezzala, utilizzata come una sorta di trequartista d’assalto: se il gol del pareggio è stato il risultato del clamoroso cortocircuito tra Provedel e Luis Alberto – comunque indotto dal pressing feroce portato fin dentro fin l’area di rigore da Zirkzee, Orsolini, El Azzouzi e Fabbian – quello del 2-1 può essere considerato il manifesto del calcio posizionale di Thiago Motta nell’attacco della difesa a zona, con Kristiansen che ha avviato e rifinito un’azione sviluppatasi sull’asse Saelemaekers/Ferguson e impreziosita dal contro-movimento di Zirkzee, che ha creato i presupposti della conclusione di controbalzo all’altezza del dischetto senza che nessuno dei quattro difendenti della Lazio lo abbia anche solo visto arrivare.
Poi ci vuole anche qualità, non è solo una questione tattica
Al Gewiss Stadium il Bologna ha patito tantissimo la sistematica ricerca dell’ampiezza da parte dell’Atalanta nei primi trenta minuti, con Ruggeri e Zappacosta che avevano a disposizione tanti metri di campo alle spalle di Posch e Kristiansen, costretti a fronteggiare i tagli palla al piede di Lookman e De Ketelaere. All’inizio del secondo tempo il tecnico rossoblù ha rivoluzionato l’intera catena di destra – inserendo Saelemaekers, Lucumí e Urbanski per Orsolini, Posch e Fabbian – e ha spostato Ferguson sul lato del suo piede forte: proprio da lì è arrivato il gol del 2-1, dopo che Saelemaekers (riportato a sinistra) e Zirkzee avevano mandato fuori giri tutta la rotazione difensiva della Dea, ribaltando il fronte del gioco da sinistra a destra e isolando Ndoye contro Ruggeri in una situazione di uno contro uno all’interno dell’area di rigore.
«Nel primo tempo abbiamo sofferto, nel secondo abbiamo cambiato passo. Avevamo bisogno di un giocatore di qualità tecnica anche nella zona centrale del campo, di fare uscire un po’ l’Atalanta dalla sua comfort zone», ha detto Thiago Motta nella conferenza stampa post partita. Il riferimento, nemmeno tanto velato, è proprio ad Alexis Saelemaekers che «quando entra con questo atteggiamento riesce sempre a dare qualcosa in più rispetto agli altri che possono giocare da quella parte». Tre minuti prima della rete di Ferguson l’ex Milan era stato fondamentale nell’azione del rigore che ha ricordato tantissimo quella della rete del 2-0 di Freuler contro il Verona: come quella volta anche in questo caso a risultare decisiva è stata la capacità di Zirkzee di creare lo spazio con un singolo tocco, quasi come se i giocatori del Bologna fossero in grado di passare attraverso gli avversari grazie alle interazioni e alle relazioni che intercorrono tra il portatore di palla e tutti quelli che gravitano all’interno della sua zona di influenza. Quando si parla di Zirzkee, poi, a valere è quel sottile ma decisivo condizionamento psicologico per cui chi lo affronta è portato a credere che non esista uno spazio in cui non possa far passare il pallone, il compagno di squadra, molto spesso entrambi e nello stesso momento. Che, poi, è esattamente quello che è accaduto con Saelemakers al minuto 56.
Dopo il rigore, c’è anche il tempo per vedere il gol decisivo di Ferguson
L’ibridazione tra i due modelli che Motta sta portando avanti da un anno e mezzo, e anche con un certo successo, definisce il Bologna come una squadra moderna, aggressiva, che ha in Riccardo Calafiori il suo animale totemico e che tende naturalmente verso un calcio di tipo posizionale che però si sviluppa attraverso le connessioni tra elementi tecnicamente compatibili. Queste connessioni sono multiformi, eterogenee, slegate tra loro e dipendenti dalle letture nelle singole situazioni: l’associazione tra i giocatori in campo non è mai fissa o predeterminata, piuttosto è affidata alla qualità di lettura dei singoli, liberi di scegliere come, quanto e quando connettersi e soprattutto in che modo farlo.
Per esempio, nella partita del 14 febbraio contro la Fiorentina di Italiano, cioè contro una squadra che in questa stagione ha dimostrato parecchie difficoltà a mantenere distanze corte per tutto l’arco dei 90’, il Bologna ha privilegiato un gioco lungo che nella prima costruzione si sviluppava attraverso il dialogo tra Ravaglia (preferito per la terza volta a Skorupski in questo campionato) e i due centrali, sfruttando tanto l’ampiezza attraverso le combinazioni tra quarti e quinti di centrocampo quanto la profondità lungo la direttrice Ferguson-Orsolini. Il risultato è stata una partita che, secondo Thiago Motta, è stata «vinta da Bologna, facendo il nostro gioco e cercando di essere sempre noi stessi. Oggi in uscita da dietro siamo stati fantastici, iniziando da Ravaglia. Alcune azioni potevano essere finite meglio, ma nel complesso abbiamo fatto una grande partita. Giocare così bene così ti fa vincere e rafforza le idee e la consapevolezza della forza di questo gruppo».
Un anno fa, più o meno di questi tempi, ci siamo resi conto che il Bologna e Thiago Motta stessero facendo sul serio dopo un inizio in cui le difficoltà erano in gran parte connesse alla percezione di Thiago Motta, al peso delle etichette e degli stereotipi che l’allenatore italo-brasiliano si portava attaccati addosso. Oggi quelle etichette si sono trasformate in qualcos’altro, in qualcosa di diverso: Thiago Motta è già considerato un tecnico pronto per una big, i risultati del Bologna in questo senso sono inequivocabili, ma forse è anche uno dei primi allenatori del contesto italiano potenzialmente in grado di rasserenare un confronto/contrasto di tattica calcistica, senza esasperarlo. Come? Preparando un cocktail – pure gustoso, per altro – tra calcio posizionale e calcio relazionale, e portando questa terza via a lottare per l’accesso in Champions League. Una doppia impresa davvero enorme, perché si tratta di una squadra outsider come il Bologna e perché siamo in un Paese ontologicamente portato a dividersi, a schierarsi da una parte o dall’altra.