Nel calcio, esattamente come succede nella vita, una delle cose più difficili da fare è lasciarsi bene. Vale a dire lasciarsi al momento giusto, senza rancori e senza rimpianti, accettando di essere giunti alla fine di un percorso condiviso. Nel caso del Milan e di Stefano Pioli, il momento giusto e la fine del percorso condiviso sembrano essere arrivati, sembrano essere qui e ora. Per tanti commentatori più o meno professionisti, in realtà, l’addio del tecnico del Milan avverrà in ritardo: i primi segnali di insofferenza dell’ambiente rossonero, quantomeno di una parte dell’ambiente rossonero, risalgono infatti alla metà della scorsa stagione, quando Pioli e i suoi calciatori si impantanarono in una crisi che pareva irreversibile. La situazione venne risolta in modo creativo, investendo prima sulla tenuta difensiva e poi sul recupero di una condizione atletica dignitosa, e così il Milan ha conquistato una semifinale di Champions a dir poco inattesa, e così Pioli ha guadagnato un bonus di credito da spendere quest’anno. Ecco, ora quel credito è definitivamente esaurito.
A pensarci bene, e ad approfondire i numeri, i risultati di quest’anno sono un problema relativo: il Milan 23/24, infatti, ha praticamente la stessa media punti dell’anno dello scudetto (2,09 contro i 2,15 della stagione 21/22) e in fondo ha vissuto una buona campagna europea, soprattutto se pensiamo che PSG e Borussia Dortmund sono in semifinale di Champions e hanno eliminato i rossoneri solo per differenza reti. Il punto, ed è qui che Pioli ha dilapidato il suo bonus, è che la squadra rossonera non è riuscita a fare un reale salto di qualità, soprattutto se guardiamo agli scontri diretti contro squadre di alto livello, e non ha compiuto dei progressi significativi a livello di prestazioni. Certo, il buonissimo rendimento offerto da Pulisic e da Loftus-Cheek è un merito da attribuire all’allenatore, ma la valorizzazione di due-giocatori-due non può bastare a far proseguire una relazione che per il resto è ormai usurata, ormai logora. Anche perché, se escludiamo Pulisic e Loftus-Cheek, il resto della rosa del Milan sembra vivere una fase di stagnazione.
Per capire i problemi del Milan bisogna partire proprio da qui. Dal concetto di stagnazione. L’impressione è che la squadra di Pioli fatichi da tempo a muoversi in avanti, ad andare oltre determinati concetti e oltre determinati standard: ha approcciato e approccia le partite sempre allo stesso modo, quindi risulta facilmente leggibile per chi la affronta, ed è pure farraginosa quando deve assorbire le variazioni tattiche pensate dall’allenatore. Nel derby che ha permesso all’Inter di conquistare matematicamente lo scudetto 23/24, tanto per fare un esempio recente, il Milan si è presentato in campo con una sorta di 3-5-2 spurio, e lo stesso Pioli ha ammesso che «il nuovo assetto serviva a non concedere la parità numerica agli attaccanti dell’Inter, a togliergli profondità». Tutto questo non è avvenuto: il Milan ha subito il primo gol su calcio d’angolo e poi il secondo in apertura di ripresa, ma soprattutto non ha mai dato l’impressione di poter ribaltare il risultato, di poter controllare davvero la partita dal punto di vista tattico. E le cose non sono cambiate neanche con il passaggio/ritorno alla difesa a quattro.
Questa sensazione di scarso controllo tattico e di poca autorevolezza, che naturalmente si acuisce nelle partite più complicate, contro gli avversari più forti, accompagna il Milan da molto tempo. Da troppo tempo. L’esatto contrario rispetto a ciò che si percepiva nei giorni che portarono allo scudetto, due anni fa, cioè quando Pioli riusciva a mettere in campo una squadra dal gioco freschissimo – un gioco fatto di pressing e di riaggressione alta, di ribaltamenti velocissimi e di ripartenze pregne di qualità, di manovre efficacissime e solo apparentemente semplici – ma anche estremamente solida nonostante un’età media bassissima, la più bassa in assoluto tra quelle che hanno vinto la Serie A dal 1995 in poi. Al punto che quel Milan arrivò a subire soltanto due gol, entrambi ininfluenti sul risultato finale, nelle ultime dieci gare di campionato.
Da quella dolcissima primavera sono cambiate moltissime cose, per il Milan. A cominciare, inevitabilmente, dai giocatori in rosa. Per politica societaria, quindi per una condizione che è un misto tra necessità e scelta strategica, Pioli ha dovuto accettare degli stravolgimenti piuttosto impattanti: gli addii di Kessié, Tonali e Brahim Díaz, gli arrivi di De Ketelaere, Thiaw, Adli e poi di Loftus-Cheek, Pulisic, Reijnders, Musah, Chukwueze, Okafor. Ecco, questa transizione non è stata gestita bene, dal tecnico rossonero: l’idea di fondo è sempre stata quella di ricreare la magia del Milan campione d’Italia, di riproporre gli stessi principi tattici, le stesse dinamiche, ovviamente anche lo stesso spirito. Solo che la materia prima, vale a dire i giocatori, è diventata diversa. Sì, in alcuni periodi delle ultime due stagioni – si pensi alle undici vittorie in 14 partite a cavallo tra febbraio e aprile 2024, oppure ai grandi successi contro il Napoli della primavera 2023 – la squadra rossonera ha offerto delle prestazioni molto positive, ma poi è sempre arrivata una partita giocata male e un risultato negativo che hanno fatto crollare tutto. Il fatto che questa partita sia coincisa spesso con il derby, come dire, ha contribuito a far vacillare la posizione di Pioli.
Pochi minuti dopo aver vinto lo scudetto, Stefano Pioli disse che «i miei giocatori sono dei fenomeni. Abbiamo vinto lo scudetto perché siamo stati più continui dell’Inter, perché siamo una squadra forte». Era tutto vero, ed era una condizione materializzatasi alla fine di un percorso che il Milan-società – nelle persone di Maldini, Massara e Moncada – aveva cucito addosso al suo allenatore, nel senso che tra il 2020 e il 2022 la rosa rossonera era stata pensata, allestita e poi integrata in modo che Pioli potesse fare il calcio che ha sempre predicato, che ha sempre fatto praticare. A partire da quel momento in poi il Milan-società è stato gestito in maniera meno indovinata: sono state fatte delle operazioni sbagliate – De Ketelaere su tutte – e poi è stata avviata una rivoluzione per cui Pioli, molto semplicemente, non era l’allenatore adatto. Il dominio esercitato prima dal Napoli e poi dall’Inter ha reso ancor più evidenti le difficoltà dei rossoneri, poi anche gli infortuni continui è come se avessero accentuato la mancanza di coerenza del progetto tattico di Pioli, ed è così che si è esaurito un ciclo. Al suo posto, quindi, forse serviva un allenatore in grado di proporre qualcosa di diverso. Che non vuol dire migliore: vuol dire più adatto alla fisionomia assunta dalla rosa.
Alla fine resta la certezza per cui Pioli sia stato un allenatore perfetto, per il Milan. A dirlo è uno scudetto conquistato con merito, costruito con pazienza e intelligenza, valorizzando il talento attraverso scelte tattiche chiare, chirurgiche, persino radicali in alcuni aspetti. Poi però – si può dire con altrettanta sicurezza – il tempo di quella radicalità è finito, il Milan si è allontanato da Pioli e Pioli si è inevitabilmente allontanato dal Milan, non certo a livello emotivo quanto a livello tattico, persino filosofico. A volte cercare di salvare un rapporto può essere la cosa migliore da fare, in fondo è sempre bene provare a ripartire, concedersi un’occasione in più per rincollare i pezzi. Ma ci sono dei casi in cui bisogna arrendersi all’evidenza, all’impossibilità oggettiva di proseguire insieme. È il caso del Milan e di Pioli, che infatti si stanno lasciando bene. Perché è il momento giusto per farlo, sia per il Milan che per Pioli.