Mille motivi per tifare Parma

Non è vero che il tifoso vuole vincere e basta: esiste un sentimento più nascosto che ci spinge a essere lì, a incitare la nostra squadra. A costo di chiederci cosa ci facciamo lì.

Ci son delle cose che so, sul Parma. La prima è che son così contento, di tenere per il Parma. Forse dipende dal fatto che son nato a Parma, ma forse no. Mi viene in mente quella poesia di Camillo Sbarbaro: «Padre, se anche tu non fossi il mio padre, se anche fossi a me un estraneo, per te stesso egualmente t’amerei». Ecco, io, col Parma, uguale. Se anche non fossi nato a Parma, non potrei tenere per nessun’altra squadra, mi sembra. O forse no. Però, se mi chiedo come mai tengo per il Parma, non mi vengono in mente le vittorie, le coppe europee, Sacchi, Scala, Asprilla, Cannavaro, Verón, Crespo, Enrico Chiesa, Dino Baggio, Mutu, Adriano, Stoichkov, no. Il motivo per cui tengo per il Parma l’ho scritto in un libro attribuendolo a un personaggio che si chiama Bernardo Barigazzi: «Ho cominciato a tenere per il Parma», scrive Barigazzi, «nel 1970, quando avevo sei anni e il Parma giocava in Serie D, nel girone B, e i suoi principali avversari erano il Crema, la Gallaratese, la Pergolettese e la Cremonese. Ma ho cominciato a andare allo stadio qualche anno dopo, quando il Parma era in Serie C, e i ricordi più vividi, della mia esperienza di tifoso del Parma, hanno a che fare col freddo. Ho preso tanto di quel freddo, allo stadio Tardini di Parma; c’erano le sedute ancora di legno, tribune in tubi innocenti e assi di legno, e, quando il Parma perdeva, io mi ricordo che tornando a casa mi chiedevo “Ma cosa ci vado a fare, a prendere tutto quel freddo?”».

Adesso lo so, cosa ci andavo a fare. Un po’ ci andavo perché mi piaceva moltissimo la maglietta, del Parma, bianca 66 con la croce nera, c’era solo il Parma, al mondo, con quella maglietta lì, un po’ ci andavo per vedere la gente, che tutta quella gente, i cosiddetti tifosi, a guardarli, anche loro, quando arrivavano, e quando andavano via, non avevan le facce di gente che andava, o veniva via da un posto dove si erano, dico una parola grossa, divertiti, no. Avevan le facce di gente che, prima della partita eran preoccupati, che erano tesi, come se dovevan passare un esame, che poi era un esame che non lo davan neanche loro, come se assistevano a un esame che ci tenevan tantissimo che andava bene e non potevan far niente, che hai voglia studiare, interrogavano un altro, prima della partita, e dopo, se avevano perso, erano delusi, erano di cattivo umore, che loro lo sapevano, che andava a finire così, che l’avevano detto, o che non l’avevano detto ma che se lo sentivano.

Ho fatto anche delle trasferte, continua Barigazzi, con le felpe, le giacche a vento, le corriere, i termo per il caffè, le sciarpe, le radioline con le cuffie e anche lì, io ogni tanto anche allora, quando perdevamo, a tornare indietro, dopo essermi detto che io lo sapevo, che andava a finire così, che l’avevo anche detto, o che non l’avevo detto ma me lo sentivo, io mi chiedevo che senso aveva, e mi rispondevo che il senso era vincere solo che adesso, che son passati tanti anni, io non credo di esser d’accordo, col me stesso di allora, che il senso fosse vincere. Perché, non so, per esempio, io mi ricordo l’Italia, i Mondiali, le due volte che ha vinto che io ero al mondo, nel 1982 e nel 2006, la gente sopra le macchine, con le bandiere, con le facce pitturate di blu, o di tricolore, a gridare, a suonare il clacson, a bere, non so, io non l’ho mica mai tanto capito, che gusto c’è, a vincere. Secondo me, ha scritto Barigazzi, mi sbaglierò, ma quando perdi, che poi non perdi te, perdono loro, ma a te ti dispiace, e magari perdi quattro a zero, o cinque a uno, e nell’andare a casa guardi per terra e vedi tutte le foglie, tutte le crepe che ci son sull’asfalto e ti vien da pensare a tutto quello che non va mica bene nella tua vita, a tutte le cose che ti eri ripromesso che le facevi e poi non le hai fatte, tutto il freddo che hai preso, ecco secondo me, quei momenti lì, che te ti chiedi “Ma che vita sto facendo?”, secondo me quelli sono momenti che a me piaccion di più, di quando sei in centro, imbottigliato sopra una macchina, che canti l’inno nazionale con una bandiera in mano e la faccia dipinta di blu, o di tricolore o di biancocrociato o di qualsiasi altro colore, conclude Barigazzi.

Ecco io, come mestiere, scrivo dei libri, come questo dentro il quale c’è Barigazzi, e ne traduco, dal russo, sono un appassionato di letteratura russa, e un paio di anni fa mi sono chiesto come mai mi piace tanto la letteratura russa e mi è venuto in mente il primo romanzo russo che ho letto, Delitto e castigo, di Dostoevskij, avevo quindici anni e io, la prima reazione che ho avuto, quando ho capito di cosa parlava Dostoevskij in Delitto e castigo, quando Raskol’nikov, il protagonista, si chiede «Ma io, sono come un insetto o sono come Napoleone?», ecco quella domanda, io quindicenne, me la sono rivolta anche a me: “Ma io”, mi son chiesto, “sono come un insetto o sono come Napoleone?”. E ho avuto, netta, la sensazione che quella cosa che avevo in mano, quel libro pubblicato 112 anni prima a tremila chilometri di distanza, mi avesse aperto una ferita che non avrebbe smesso tanto presto di sanguinare. Avevo ragione. Sanguina ancora. E se devo dire qual è la cosa che mi piace tanto, nella letteratura russa, è che è quella che mi fa più male. Il calcio, per quanto possa sembrare strano, uguale. Quando vado a vedere il Parma, e ci andavo spesso, quando era possibile, e ci tornerò spesso, quando sarà possibile, quando andavo a vedere il Parma io, anch’io, non andavo per divertirmi, andavo per star male. A me, le partite di calcio, mi fanno star male, mi viene un’agitazione che mi sembra, non so come dire, di essere vivo.

Dopo vincere, mi piace anche vincere, ma mi vien da citare Andre Agassi, e un libro che si intitola Open (scritto insieme a J. R. Moehringer), e il passo in cui Agassi racconta cos’ha pensato dopo che ha vinto il primo Wimbledon della sua vita (la traduzione è di Giuliana Lupi). «Ho la sensazione», ha scritto Agassi, «di essere stato messo a parte di un piccolo, ignobile segreto – vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno Slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente». E allora, se il Parma vince molte partite, bene, se il Parma perde molte partite, bene uguale. Che io, alla fine, un po’ lo so, come finirà. Finirà che io sarò così contento, di tenere per il Parma. Forse dipende dal fatto che son nato a Parma, ma forse no.

Da Undici n° 34