Fin dalla gara d’esordio di Euro 2024, cioè fin da quando la Spagna ha iniziato a giocare il miglior calcio dell’intero torneo continentale, la stampa spagnola ha insistito su un concetto piuttosto significativo. Questo: grazie a Lamine Yamal e a Nico Williams, a Fabián Ruiz e a Dani Olmo, a Dani Carvajal e a tutti gli altri calciatori chiamati dal commissario tecnico Luis de la Fuente, era finalmente avvenuta la morte del Tiqui Taca. Ne hanno scritto praticamente tutti, noi qui vi segnaliamo solo un articolo tra i tanti pubblicati da El País sull’argomento. Eppure poche ore fa, mentre Álvaro Morata alzava la Coppa Henri Delaunay al cielo di Berlino, in tanti hanno vissuto quel momento come se fosse la vittoria di una filosofia calcistica, il trionfo di un’identità immarcescibile, l’ennesima affermazione di un movimento che da vent’anni produce atleti d’élite a ciclo continuo, senza pause di riflessione e/o di aggiornamento. Se è così, però, evidentemente c’è qualcosa che non quadra. E allora viene da chiedersi: dove sta la verità? Se la Spagna di oggi è una nuova Spagna, e a dirlo sono proprio gli spagnoli, perché allora il trionfo a Euro 2024 viene considerato un trionfo di sistema, se non addirittura filosofico-identitario?
La verità, come succede sempre, è che la logica binaria non si adatta bene a raccontare ciò che succede nel calcio. Nel senso: è lampante ed è inevitabile che il lussureggiante e funzionale modello calcistico spagnolo, quello che di fatto ha dato vita alla generazione pigliatutto di Xavi-Iniesta-Xabi Alonso-David Silva-Fàbregas-Busquets, abbia giocato un ruolo determinante nella formazione di Rodri, Fabián Ruiz, Dani Olmo, Carvajal, Cucurella, senza parlare di assenti importanti come Gavi, Pedri, Asensio, Pau Torres. Allo stesso modo, però, vale la pena ricordare come la Spagna abbia giocato una sola semifinale tra Europei e Mondiali tra il 2012 e il 2022. E che, sempre tra il 2012 e il 2022, la Roja è stata battuta per due volte dall’Italia (ehm), dal Marocco, dalla Russia, dal Cile. Poi sono arrivati due talenti freak come Lamine Yamal e Nico Williams, e allora la Nazionale spagnola è diventata di nuovo bella e vincente.
Alla luce di queste evidenze storiche, si potrebbe pensare/dire che persino un movimento calcistico come quello spagnolo, caratterizzato da una profondissima identità e da un collaudato meccanismo di valorizzazione del talento, sia condannato a produrre successi in modo intermittente, ad aspettare che arrivino dei giocatori in grado di portare la Nazionale maggiore al successo. È esattamente così, e la cosa da comprendere è proprio questa: molto semplicemente, ci sono dei momenti in cui i risultati colti a livello senior non rispecchiano e non restituiscono quanto seminato a livello giovanile (tra il 2012 e il 2024 la Spagna ha giocato quattro finali agli Europei Under 21, tre finali agli Europei Under 19 e due finali a quelli Under 17). Ma questo non vuol dire che il modello sia da rifondare, da riscrivere: lavorare bene sui vivai, sia a livello di club che di Nazionali minori, crea le condizioni migliori affinché la manifestazione di nuovi talenti e di talenti nuovi – cioè di giocatori giovani e fortissimi e dal profilo differente come Lamine Yamal e Nico Williams – possa essere sfruttata nel modo giusto.
Insomma, il circolo (e ricircolo) virtuoso del calcio spagnolo ha determinato la nascita e lo sviluppo di un nuovo sistema culturale: quello per cui i giovani possono – e allora devono – essere mandati in campo quando sono davvero giovani, quando sono ancora dei teenager. È una condizione che accomuna i club e la Nazionale, e che ha trovato ulteriore sfogo nella scelta di un ct di estrazione federale come De la Fuente: al di là dell’età media, un dato spesso fuorviante, soltanto quattro dei 15 calciatori utilizzati nella finale contro l’Inghilterra avevano coppa europea nel loro palmarés – Dani Carvajal, Aymeric Laporte, Rodri e Álvaro Morata. Gli altri undici non avevano mai giocato una finale internazionale di primo livello, che fosse con la Nazionale e/o in Champions League. Il senso di queste scelte va ricercato proprio in una frase pronunciata da Luis de la Fuente qualche giorno fa: «La squadra viene prima di tutto». E nella testa del ct c’era l’idea di costruire una squadra che non fosse l’ennesima copia-carbone della Spagna del passato, ma che riuscisse comunque a imporre il proprio gioco. Un gioco basato su concetti diversi, nuovi, proprio come nuovi e diversi i suoi elementi più scintillanti.
In virtù di tutto questo, si può dire che il Campionato europeo 2024 sia stato vinto da una grande Spagna, prima che dalla sua filosofia storica. Anche la finale contro l’Inghilterra, a riguardarla bene, ha raccontato la stessa identica cosa: i giocatori di De la Fuente hanno approcciato la partita con grande rispetto nei confronti dei loro avversari, proprio come avvenuto contro la Francia, cioè hanno deciso di non forzare subito con le verticalizzazioni, si sono messi a gestire il flusso di gioco attraverso il possesso (addirittura 70% all’intervallo) e così hanno contenuto, più che aggredito, gli inglesi; la ripresa è iniziata in modo esattamente opposto, la Spagna ha sfoderato le sue nuove armi – i passaggi diretti verso le punte, gli inserimenti di Dani Olmo per portare via i centrali avversari e liberare spazio – e con quelle ha costruito il vantaggio e ha sfiorato il raddoppio; a quel punto Southgate ha (finalmente) cambiato la marcia della sua squadra, e Cole Palmer ha trovato il pareggio. Quando il piano inclinato della serata sembrava tutto dalla parte degli inglesi, la Spagna ha vinto la partita con un’altra azione un po’ estranea al suo portfolio classico: verticalizzazione sulla prima punta, per quanto si trattasse di una prima punta atipica come Oyarzabal, apertura di prima sul laterale difensivo, cross basso a centro area e tocco in anticipo a pochi metri dalla linea di porta. Ancora di Oyarzabal.
Il gol decisivo della Spagna, che non sembra segnato dalla Spagna
In questa azione c’è quello che intendevano dire a El País quando hanno scritto della «liberazione dal Tiqui Taca». In questi quattro tocchi c’è una nuova era del calcio spagnolo, c’è la conferma che la Roja può giocare – anzi: può addirittura vincere – passando attraverso una fase offensiva più diretta, più vicina alle caratteristiche di Lamine Yamal e Nico Williams. Il fatto che queste stesse manovre abbiano deciso anche le partite contro Croazia, Italia, Germania e Francia, e tutte le volte sono state abbaglianti, è la certificazione per cui questa superiorità sia stata costruita ex novo, negli ultimi mesi. Altro che le ragnatele illuminate della Spagna 2008, altro che i rondò sfiancanti della Roja di Del Bosque tra il 2010 e il 2012.
Dal suo passato, insomma, la Spagna del 2024 ha ereditato poche cose. Le cose giuste: una strepitosa sensibilità nel rapporto con la palla e un’evidente tendenza alla coralità. Per il resto, si tratta di una Nazionale che non avevamo mai visto prima, che gioca in modo codificato ma non ridondante, che sa governare le partite in tanti modi diversi, che sa accenderle in un secondo, in un amen, grazie a delle fiammate improvvise ed esplosive. E che accetta di prendersi dei rischi pur di esprimersi in questo modo.
Per dirla brutalmente: la Spagna 2024 è stata ed è l’esatto contrario dell’Inghilterra e della Francia e del Portogallo, le altre favorite di Euro 2024 che si sono fatte divorare dalla paura, dalla riconoscenza, dall’idea ultraconservativa e ultraconservatrice per cui bastano il talento e la solidità difensiva per vincere le partite e le competizioni per Nazionali. Certo, a volte è andata così. Ma non va sempre così. E sta proprio qui, in questo punto, la cosa che rende unica la Spagna, che ha reso meritatissimo il suo trionfo agli Europei: anche in Inghilterra, Francia e Portogallo hanno dei movimenti calcistici funzionali e delle filosofie di gioco profondamente identitarie. Ma da quelle parti hanno prodotto soltanto dei grandi campioni, non sono ancora riusciti a costruire delle grandi Nazionali. Delle squadre all’altezza della Spagna 2024.