Quella strana idea per cui i corpi degli atleti devono essere tutti uguali

Le polemiche sull'identità di genere di Imane Khelif hanno riaperto un dibattito a cui neanche la scienza offre una spiegazione univoca.

Il ritiro della pugile italiana Angela Carini è stato preceduto e seguito da una quantità scriteriata di commenti, polemiche, insulti sessisti verso la sua avversaria. Forse l’incontro è durato troppo poco, solo 46 secondi, perché pare non ci siano state critiche durante. L’Italia ha parlato di cose che non meritavano discussione, come l’identità di genere della sfidante di Carini, Imane Khelif, algerina, cisgender ma accusata di essere transgender senza prove. Chi contesta la decisione del Cio di far gareggiare Khelif riprende soprattutto le parole di Carini, che dopo l’incontro ha detto: «Mi sono fermata perché ho sentito un forte dolore al naso. Il secondo colpo l’ho sentito fortissimo e ho capito che o mi fermavo da sola o mi sarei potuta fare male per davvero. Ho capito che forse era meglio essere intelligente e matura». Come a indicare un’avversaria troppo forte.

La decisione di Carini è certamente legittima, è un ottimo esempio di consapevolezza e conoscenza dei propri limiti. Ma chi usa quest’argomentazione per contestare la liceità della partecipazione di Khelif è costretto a un’acrobazia logica e intellettuale senza senso. Intanto perché queste critiche seguono una polemica costruita sul nulla, cioè sulla notizia falsa — falsa. — della transessualità della pugile algerina, che invece è intersessuale, come la mezzofondista sudafricana Caster Semenya, cioè presenta caratteristiche biologiche sia maschili sia femminili. Un po’ come altre polemiche inventate e cavalcate negli ultimi giorni, sulla presunta Ultima Cena queer che non lo era, o il fantomatico vitello dorato blasfemo che in realtà è il toro di bronzo del Trocadéro. E poi, per sostenere una tesi del genere bisogna ignorare, o far finta di non sapere, che i corpi degli atleti, soprattutto a un livello così alto, sono sempre fuori dall’ordinario, pezzi unici. E sono quegli stessi corpi — insieme a molti altri fattori come la dedizione, la tecnica e così via — a determinare l’eccezionalità di chi è in cima alla piramide sportiva.

Michael Phelps aveva una grande capacità di recupero dovuta alla minore produzione di acido lattico rispetto alla media, e questo gli consentiva di effettuare più gare in brevi periodi. Sappiamo anche che Fausto Coppi era bradicardico, aveva meno di 40 battiti al minuto in condizione di riposo, un enorme vantaggio nelle salite e in altre situazioni di massimo sforzo. Queste condizioni che creano differenze tra gli atleti dello stesso genere sono già accettate e metabolizzate dalla comunità sportiva, fanno parte del gioco.

Lo sport esalta il corpo umano, le sue abilità, le sue diversità. Anche chi non ha un vantaggio fisico clinicamente riconosciuto può avere una netta superiorità fisica rispetto alla concorrenza. Una superiorità genetica o naturale, si potrebbe dire usando dei termini inevitabilmente un po’ scivolosi. Serena Williams è considerata la tennista più forte di sempre perché alle doti tecniche univa un corpo che le ha dato accesso livelli di potenza e resistenza mai visti prima. LeBron James, Usain Bolt e Cristiano Ronaldo hanno costruito le loro carriere da numeri uno partendo da corpi che avevano forza, elasticità, esplosività e velocità — tutte insieme — irraggiungibili per gli altri. Sono speciali, sicuramente non comuni. Ma non per questo iniqui o illegali. Lo stesso vale per Léon Marchand, Katie Ledecky, Simone Biles che abbiamo visto dominare a Parigi nelle loro discipline. Anche il corpo di Victor Wembanyama è un’opera inedita: 225 centimetri, apertura alare da pterodattilo (quasi due metri e mezzo), gambe lunghissime e un’elasticità fuori dal comune che gli permette di muoversi per il campo come se fosse più basso di 20 o 30 centimetri. È un enfant prodige, certo, ma è anche un freak, il cocco di Madre Natura. Qualcuno ha pensato di escluderlo dai tornei?

Può darsi che Carini ieri sia salita sul ring, come si dice, già sconfitta. Non perché Khelif non dovesse partecipare. Ma perché ricevere alla vigilia di un match i messaggi compassionevoli di chi ti dice spacciata contro un’avversaria che in realtà, seguendo appunto una balla colossale, sarebbe stato un avversario, potrebbe destabilizzare chiunque. Lei dice di no; resta il fatto che i due colpi dell’avversaria Carini li ha sentiti, e ha scelto di fermarsi. Nulla di troppo strano, in realtà: fin qui è un incontro di boxe come un altro.

La forza dei pugni di Khelif è una delle certezze della sua boxe, quella che la rende una delle candidate per l’oro. Ma è un fattore legittimo, che Khelif non si è procurata in maniera subdola o illegale. Dopotutto, ha combattuto diversi incontri e solo Carini si è ritirata contro di lei. L’algerina di certo non è imbattibile e ha già partecipato e perso alle Olimpiadi del 2021. Se avesse avuto un vantaggio tale da renderla insuperabile, forse oggi il suo record sarebbe diverso. E qui si potrebbe aprire un’altra polemica, perché, come scrive Angelo Carotenuto nei suoi articoli su Lo Slalom e su Domani, l’inclusione è accettata solo a patto che l’atleta giudicata “diversa” resti ai margini, se vince diventa un problema. Ma la questione è anche meno sottile di così.

Va ricordato che Khelif è stata ammessa alle Olimpiadi perché rientra nei parametri che danno accesso alle competizioni femminili, come confermato anche dal Cio dopo le polemiche per la sua inclusione. E quindi ha diritto a partecipare. Protestare con lo stesso comitato olimpico poco senso, dal momento che la presenza di Khelif non è stata imposta da nessuno. È sicuramente una questione complessa che non ha ancora trovato una linea comune nel mondo dello sport, diviso in una miriade di federazioni e organizzazioni autonome sul fronte regolamentare.

Negli anni si è trovato un elemento comune per decidere se un’atleta trans può competere come donna o no: il testosterone, che segna la differenza principale tra uomini e donne a livello ormonale. Ma ogni decisione sul tema atterra almeno su due terreni, quello medico-scientifico e quello politico-istituzionale. Sul piano scientifico sappiamo che il testosterone è un parametro piuttosto fallace nel valutare le atlete, nel senso che da solo non permette di individuare una correlazione tra i suoi livelli e i risultati sportivi. Perché ancora non siamo in grado di determinare la memoria muscolare e gli effetti di questo ormone sul lungo periodo. Lo stesso portavoce del Cio Mark Adams ha detto al Guardian: «Tutti vorremmo una risposta unica: sì, no, sì, no, ma è più complesso di così».

L’ultimo studio rilevante in merito, ad esempio, arriva dall’Università di Brighton ed è stato pubblicato sul British Journal of Sports Medicine la scorsa primavera. Il documento spiega che le atlete transgender mostrano una maggiore forza nella presa rispetto alle cisgender, ma una funzione polmonare inferiore, con una quantità di ossigeno utilizzata durante l’esercizio inferiore; le atlete trans hanno anche punteggi peggiori di donne e uomini cisgender in diversi test di salto e sulla potenza della parte inferiore del corpo. Questo aiuta a spiegare perché ci sono pochissime atlete transgender d’élite e le loro scarse partecipazioni a gare internazionali sono state spesso dei buchi nell’acqua, come la sollevatrice di pesi neozelandese Laurel Hubbard, che ai Giochi di Tokyo venne eliminata al primo esercizio con tre nulli.

Le cure ormonali abbassano enormemente le performance e in molti casi chi ha fatto la transizione dopo la pubertà, e quindi ha una struttura fisica tipica maschile, non è necessariamente avvantaggiato. Come dimostra anche il caso della nuotatrice trans Lia Thomas. A livello collegiale è passata dalle competizioni maschili a quelle femminili senza grandi risultati sportivi: alle finali Ncaa di due anni fa vinse una gara e ne perse due, e quella che vinse la chiuse con un tempo di 10 secondi più lento del primato americano detenuto da Katie Ledecky. Difficile pensare che potesse portare in vasca prestazioni da torneo maschile. E seppure ci fosse un vantaggio di qualche tipo, bisognerebbe riconoscere la liceità della partecipazione di un’atleta alle competizioni nel momento in cui questa rientra negli standard richiesti da chi organizza. Altrimenti che alternativa hanno?

Spostare l’asticella del testosterone per creare competizioni più giuste, qualunque cosa si intenda, è una scelta arbitraria e in quanto tale è politica almeno in senso lato: se non rispecchia degli interessi, asseconda dei pregiudizi. Nel 2011 la World Athletics aveva individuato una regola aurea: i livelli di testosterone dovevano essere contenuti entro i 10 nanomoli per litro di sangue in modo continuativo per almeno 12 mesi prima della gara. Questa soglia poi è stata abbassata, forse perché permetteva a troppe atlete transgender di gareggiare tra le donne. Quindi è stata dimezzata, nel 2018 e poi dimezzata ancora, fino a 2,5 nanomoli per litro di sangue, lo scorso anno. La conseguenza di questa strumentalizzazione dei parametri è che sempre più donne non transgender non saranno in grado di rispettare lo standard e dovrebbero rimanere fuori dalle competizioni. In teoria. Solo che queste regole sembrano valere solo per una certa categoria di persone, sono una clava nelle mani delle istituzioni storicamente conservatrici, governate da chi non ha una visione inclusiva dello sport, ma brandisce i regolamenti con l’obiettivo lasciare fuori qualcuno. È la storia di Caster Semenya, quella che alcuni vorrebbero per Imane Khelif. È la storia di Lia Thomas, che a Parigi non c’è perché non ha potuto partecipare alle qualificazioni: non rientrava nei nuovi criteri della World Aquatics, pensati per bandire le nuotatrici trans con segni della pubertà maschile oltre i 12 anni.