È il 13 marzo 2024. Pantaleo Corvino ha l’espressione stanca di chi nelle ultime 48 ore ha dormito poco o nulla perché ha dovuto sostenere sulle sue spalle tutto il peso di Lecce e del Lecce — e quindi del mondo, nella sua ottica di salentino purosangue divenuto Atlante. Il tumultuoso finale di Lecce-Verona, caratterizzato dalla testata di Roberto D’Aversa a Thomas Henry, lo ha costretto a prendere una decisione che non avrebbe mai preso, una decisione che lo ha fatto soffrire emotivamente e fisicamente: esonerare il tecnico con cui aveva già lavorato quando erano entrambi alla Fiorentina («Conosco Roberto D’Aversa da 25 anni, non è una persona violenta è una persona perbene» urla ai giornalisti mentre il suo volto tocca tutte le scale di rosso possibili come ne Il secondo tragico Fantozzi) e assumere un nuovo allenatore. E non un allenatore qualsiasi, ma un allenatore da guerra di trincea, qualcuno che abbia abbastanza fegato da accettare la sfida di traghettare il Lecce verso una salvezza che sembrava una formalità dopo i 21 punti nelle prime 19 giornate e che, poi, è stata messa a repentaglio dalle sette sconfitte rimediate nelle ultime nove partite di campionato. «E lui l’accetta, la sfida, perché crede nella squadra, crede nel suo lavoro e crede in un territorio dove c’è un milione di persone e in cui la passione è talmente grande che noi stessi non ne siamo all’altezza», dice Corvino.
Lui è Luca Gotti da Adria, 56 anni, allenatore da quando ne aveva 31 nelle giovanili del Montebelluna, una laurea in Scienze motorie più un’altra in Pedagogia, un passato da docente universitario che potrebbe spiegare solo in parte la sua passione per i maglioni a collo alto sfoggiati sotto la giacca anche a primavera inoltrata e un’imperturbabilità alla Liam Neeson che gli permette di aspettare pazientemente il suo turno mentre il responsabile dell’area tecnica finisce di trasformare quella conferenza stampa di presentazione in uno sfogo a ruota libera senza possibilità contraddittorio. «Luca, scusami, ma te l’avevo detto che sarebbe uscito fuori qualcosa da figlio di questo territorio. A Bologna non mi avevi mai sentito parlare così, eh? A Lecce lo faccio per cercare di far capire certe cose a chi ha interesse a capirle», chiosa Corvino dopo oltre un quarto d’ora di one man show in cui ha parlato di tutto, passando dal monte ingaggi di 8,5 milioni di euro che non consentirebbe di fare la Serie A alla necessità di puntare su tecnici che siano in grado di «gestire, far crescere, allenare».
Quando Gotti finalmente riesce a prendere la parola la sua prossemica e il suo linguaggio del corpo cambiano radicalmente, come se la bottiglietta d’acqua dalla quale ha appena bevuto contenesse una pozione in grado di far uscire fuori il doppelgänger che subentra a campionato in corso, un essere mitologico a metà tra il Mr. Wolf che risolve problemi (e raggiunge salvezze) e il Batman che accorre in aiuto del commissario Pantaleo Corvino ogni volta che vede brillare nel cielo il suo Gotti-segnale in quello che, sul web, è ormai diventato il meme: «Per me il 2023 è stato un anno difficile dal punto di vista fisico: ho avuto due operazioni particolarmente invasive che mi hanno impedito di iniziare la stagione sportiva e di accogliere le offerte che mi sono state fatte. In ogni caso ero ancora sotto contratto (con lo Spezia, ndr) e potevo verosimilmente aspettare la fine di questa stagione e valutare nuovi orizzonti, ma la telefonata di Pantaleo che mi propone questa cosa bellissima la accolgo perché questa è una squadra giovane, fresca, che ha delle componenti che mi piacciono e che a un allenatore come me possono dare soddisfazioni. E poi ci sono altre componenti, che non sono secondarie per come io intendo la vita e il lavoro, come le persone che lavorano in società e le aspettative nei confronti delle persone di questo territorio. Adesso c’è l’avventura sportiva da affrontare con la forza e la consapevolezza di chi sa che il mare non sarà sempre tranquillo».
Nelle successive sette partite il Lecce conquista 12 punti, vincendo i tre scontri diretti contro Salernitana, Empoli e Sassuolo, e si salva con tre giornate d’anticipo: il 13 maggio, quando i giallorossi scendono in campo per la gara contro l’Udinese, il Via del Mare si è già trasformato in una gigantesca discoteca a cielo aperto in cui gli echi dei gol di Lucca e Samardzic sono destinati a perdersi nelle sporadiche folate di scirocco che preannunciano un’estate incombente e caldissima. In panchina Luca Gotti indossa la solita giacca grigio scuro che farebbe sudare chiunque tranne lui e a fine partita si aggira nel ventre dello stadio come lo Jep Gambardella che vuole far fallire una festa alla quale nemmeno voleva partecipare. «Sono contento per questa salvezza non scontata ma sono anche decisamente amareggiato per il risultato della partita. Oggi siamo mancati nelle due aree di rigore, abbiamo avuto poca lucidità e attenzione e in più abbiamo subito due reti tutt’altro che intelligenti», dice in conferenza stampa, quasi a voler sottolineare come sia riuscito a invertire il corso di una stagione malmostosa e che si stava avviando verso un epilogo tragico.
Nel 2020, quando era a Udine e tutto ciò che desiderava era tornare a fare il vice (di Sarri, di Donadoni, di Tudor, di chiunque) nonostante i primi tre mesi da tecnico raccontassero una storia diversa e in positivo, in un’intervista alla Gazzetta dello Sport parlò di come gli allenatori fossero figli dell’eclettismo per via della necessità di dover «mettere insieme le cose migliori viste fare ad altri»; e anche stavolta il suo compito principale è stato quello di riportare tranquillità in un ambiente isterico, razionalizzando le risorse e normalizzando la convivenza con la pressione di dover fare risultati nel più breve tempo possibile. In questo senso il Gotti psicologo, anzi il Gotti pedagogista («La cultura non va mai esibita ma dà una maggiore apertura mentale») è stato quasi più importante del Gotti allenatore di campo che rimodula una fase di non possesso fin troppo irruenta e ambiziosa e che attinge a tutte le risorse disponibili in un gruppo di quasi 40 giocatori per raggiungere l’obiettivo salvezza: i cinque clean sheets in dieci partite, la trasformazione di Alexis Blin in un convincente cosplayer di Morten Hjulmand, la parziale rinascita di Krstovic, Dorgu che diventa l’uomo ovunque della catena di sinistra, sono tutte conseguenze del grandissimo (e fin troppo sottovalutato) lavoro di chi, quando era solo un secondo, ha imparato a «ascoltare tanto, a parlare il meno possibile, a intervenire sui singoli». Diventando, alla fine, quello che non credeva di poter essere, cioè un primo di ottimo livello.
Eppure oggi digitare “Luca Gotti” nella query di Google significa essenzialmente spalancare le porte di un metaverso memetico dal potenziale pressoché infinito in cui ormai non si riesce più a distinguere il confine tra verità e finzione, tra reale e percepito: c’è Luca Gotti che canta Le radici ca tieni dei Sud Sound System alla festa di squadra di fine anno, Luca Gotti che salva Corvino da un incendio nel bel mezzo delle trattative per il rinnovo di contratto, Luca Gotti che ha perennemente stampata in volto quell’espressione da uomo che non deve chiedere mai cui basta aggiungere il claim “lascia che ti spieghi” per trasformarla in un fenomeno di pop culture contemporanea, un vero e proprio stato dell’anima adatto (e adattabile) tanto ai meme su Baschirotto e Stryger Larsen quanto a quelli sulle sfighe fantacalcistiche o sulle piccole avversità quotidiane. E siccome viviamo nell’epoca in cui proprio i meme sono considerati dei contenuti aggregativi che facilitano l’identificazione del singolo all’interno di una comunità e viceversa, la notizia dell’ex Liverpool José Enrique che scrive alla pagina “Luca Gotti Reacts” per proporre due giocatori della sua agenzia immaginando che sia il vero Gotti ci appare del tutto normale, e non l’ennesima distorsione comunicativa derivante dal rapporto sempre più stretto tra calcio, social media e realtà virtuale; così come ci sembra del tutto plausibile pensare che la durezza espressiva di Gotti non sia altro che la rappresentazione plastica della solidità difensiva che tutte le squadra della bassa Serie A vogliono raggiungere per salvarsi, o che il dialogo tra Gotti e Corvino dopo essere scampati all’incendio si sia davvero svolto come nella scena finale di Batman Begins per cui Corvino non ha mai detto grazie — e non dovrà mai farlo — al suo allenatore, almeno fino alla prossima salvezza.
È questo il futuro a cui ci sta preparando Luca Gotti? Un futuro di über-meme in cui i nostri allenatori preferiti saranno semplicemente quelli più memetici e memabili e che ci farà bollare come “roba da zoomer” i proto-meme sull’overthinking di Guardiola, sul corto muso di Allegri e sul sopracciglio alzato di Ancelotti? Forse, o forse no. Di certo oggi Gotti non sarebbe Gotti senza questa sua proiezione da sticker da chat di WhatsApp usato per essere essere inquietanti o assertivi, ironici o terribilmente seri, o più semplicemente per farsi riconoscere da altri gottisti in un mondo di tecnici che tendono a prendere (e prendersi) tutto troppo sul serio. E a lui, pare, va bene così.