Il fantasma di Victor Osimhen si è dissolto nell’aria dello stadio Diego Armando Maradona già prima dell’inizio di Napoli-Parma, spazzato via dal boato dei tifosi che hanno accolto i nuovi acquisti degli azzurri annunciati dallo speaker – 150 milioni di euro di soli cartellini, a fronte degli appena 12 incassati dalle cessioni di Ostigard, Lindstrom, Natan e Cajuste. Da qualche parte, in tribuna, Aurelio De Laurentiis avrebbe potuto persino permettersi di sussurrare che «qui non si bada a spese», alla maniera del John Hammond di Jurassic Park, per celebrare il primo vero calciomercato di rottura della sua gestione ventennale. Un calciomercato in cui, per la prima volta, il Napoli si è discostato dal sacro vincolo della sostenibilità per soddisfare le richieste di Antonio Conte. E per andare incontro a delle esigenze di campo che, dopo lo 0-3 di Verona alla prima giornata, dovevano essere soddisfatte in qualunque modo e a qualunque prezzo.
Il nome più atteso e più urlato, manco a dirlo, è stato quello di Romelu Lukaku, il centravanti con la valigia arrivato a Napoli per ricostruire la sua carriera e quella del suo allenatore preferito. Il fatto che poi proprio Big Rom abbia segnato il gol da cui è partita la rimonta è stato solo il primo rigo di quella che sarà la sceneggiatura alla base del primo Napoli di Conte. A quel punto Osimhen si era già trasformato in qualcosa d’altro, in una riflessione vuota da scambiarsi all’intervallo con il vicino di posto immaginando che le sue qualità nell’attacco della profondità sarebbero state l’ideale per allungare la difesa del Parma e creare quello spazio tra le linee che Politano e Kvaratskhelia avrebbero potuto sfruttare a piacimento.
Alla fine della partita, comunque, Antonio Conte è tornato a parlare del mercato, di Osimhen e della possibilità di un suo reintegro: «No. La rosa è questa, abbiamo fatto delle scelte. Ora dobbiamo lavorare per integrare i nuovi arrivati che hanno riempito delle caselle. Sono contento di quanto fatto dal club: ci fosse stata la cessione di Osimhen avremmo completato ulteriormente il mercato, ma va bene anche così. Mi dispiace per lui, per il club che non ha monetizzato, e per me, ma la società ha mostrato una grande coerenza». Queste parole hanno fatto seguito alle dichiarazioni pre gara del direttore sportivo Giovanni Manna, che a Dazn aveva parlato di una situazione che «è estremamente chiara dalla fine dell’anno scorso e da inizio ritiro. Victor aveva espresso la volontà di non restare a Napoli: il mercato è stato complicato, pensavamo di aver chiuso una trattativa ma poi non è andata a buon fine. Noi manteniamo la nostra linea coerente, Osimhen ha fatto altre scelte». Il tutto, vale la pena ricordarlo, ad appena sei giorni di distanza dal post su X in cui il procuratore di Osimhem, Roberto Calenda, chiedeva «rispetto ed equilibrio» per un atleta che non doveva essere considerato «un pacco da spedire lontano per fare spazio a nuovi profeti».
Eppure è così, con poche frasi lapidarie a margine di una partite di fine agosto, che si distrugge il ricordo e la legacy di Osimhen. Ovvero del centravanti e calciatore-simbolo del terzo scudetto del Napoli, ma che oggi è un uomo lontanissimo nel tempo e nello spazio. Il fatto che un giocatore come Osimhen – che neanche un anno fa era considerato uno degli attaccanti più decisivi d’Europa – possa passare i prossimi sei mesi, o anche di più, da esubero, da indesiderato, nella società che gli garantirà dieci milioni annui fino al 2026, è la dimostrazione di quanto e come il calciomercato possa influenzare le dinamiche di un club di alto livello. C’entrano, ovviamente, le tempistiche sempre più dilatate per cui, tra sessione invernale ed estiva, più di un terzo di una normale stagione calcistica si svolge in parallelo alle trattative – e anche Conte, così come Gasperini, ha parlato di «assurdità» in riferimento al campionato che inizia a mercato ancora aperto. Ma c’entra, soprattutto, la percezione per cui la realtà alternativa costruita dai media nei mesi in cui non si gioca, o in cui si gioca poco, abbia finito con il divorare la realtà del campo e del calcio giocato. Al punto da non riuscire più a stabilire un confine, a capire dove finisca l’una e dove inizi l’altra.
Se fino a qualche tempo fa vedevamo nel calciomercato niente di più di un divertente fenomeno di costume in grado di influenzare narrazioni e linguaggi della nostra quotidianità, oggi ci troviamo invece a dover fare i conti una bolla pantagruelica dalla quale i giocatori non possono e – per certi versi – non vogliono, uscire. Anche a costo di condizionare una carriera giunta al suo apice tecnico, fisico e psicologico, visto che non tutti hanno la capacità e il player empowerment di Kylian Mbappé – che ha programmato con attenzione, e con grande anticipo, il passaggio al Real Madrid come se stesse giocando una partita a scacchi.
«Ho già deciso quale sarà il prossimo passo da fare a fine stagione: ho il mio piano e so cosa voglio fare. Ora tutto ciò che conta è finire bene la stagione con il Napoli, poi prenderò la decisione che ho già preso» disse Victor Osimhen a fine gennaio, alimentando una visione di lungimiranza e progettualità che le ultime dodici ore di calciomercato hanno smontato in maniera tragicomica. Da un lato il Chelsea e la Premier League, la destinazione naturale per ogni fuoriclasse di questa era; dall’altra l’Al-Ahli e la Saudi Pro League, che restano un eldorado al netto del ridimensionamento imposto dal fondo Pif; in mezzo Aurelio De Laurentiis, combattuto tra la necessità di monetizzare il più possibile con un calciatore fuori dal nuovo progetto tecnico e il rammarico di non poter più a farlo alle condizioni che sperava nel dicembre del 2023, quando aveva apposto anche la sua firma al prolungamento di contratto con maxi-clausola da 130 milioni di euro.
Alla fine, tra il giocatore che aveva trovato un accordo con l’Al-Ahli e la società che aveva accettato l’offerta dei Blues, ha prevalso la linea dura di De Laurentiis. Che, nell’epoca in cui sono calciatori e i procuratori a far nascere e a far morire le trattative, ha voluto ribaltare lo status quo con una decisione che ci ha riportato indietro di trent’anni, all’epoca dei Moratti, dei Sensi, dei Cragnotti, dei Cecchi Gori, di tutti quei presidenti mecenati che, come ha rilevato Massimiliano Gallo su Il Napolista, erano disposti a far prevalere le questioni di principio sui delicati equilibri su cui si regge il rischio d’impresa. E quindi Osimhen, attaccante da 76 gol in 133 partite nelle ultime quattro stagioni, resterà fermo a guardare Lukaku, più vecchio di lui di quasi sei anni, mentre si prende la leadership tecnica e psicologica di quella che una volta – che poi era l’altro ieri – era la sua squadra. E andrà in questo modo perché il suo presidente ha deciso di non scendere a compromessi: «Bisogna fare tanto di cappello al club e al presidente che ha dimostrato coerenza anche a fronte di una perdita economica importante», ha sottolineato Conte in conferenza stampa.
Questa vicenda racconta qual è la logica di fondo della nostra era calcistica: l’impressione, oggi, è che ai giocatori non interessi più misurarsi nelle migliori squadre del mondo e competere per i trofei più prestigiosi, piuttosto strappare il miglior contratto possibile alle condizioni più vantaggiose. Come se lo status dipendesse solo e soltanto dal salario percepito, e non da ciò che mette il calciatore nelle condizioni di poter chiedere quel salario. Fino al cortocircuito definitivo, raggiunto nel caso di Osimhen e per altri giocatori prima di lui: il centravanti del Napoli è come se avesse sacrificato se stesso sull’altare del calciomercato. E non c’è niente di così strano, a pensarci bene: si tratta solo di una nuova normalità che aderisce perfettamente all’idea di un calcio in cui sono i giocatori – e quindi anche i loro procuratori – a decidere per loro e per gli altri. A volte, però, questa normalità si scontra con i bug di sistema rappresentati dai De Laurentiis di turno. E dalle loro scelte contro-culturali e anti-economiche.
Siamo di fronte a un vero e proprio cambio di paradigma: il calciomercato è diventato un grande Leviatano al quale chiunque, dalle società ai calciatori, è tenuto a pagare un tributo. Un tributo la cui pesantezza – in termini economici, ma anche d’immagine – costituisce il discrimine per individuare vittima e carnefice, incudine e martello. Chi vince e chi perde. In fondo è qui, in questo punto esatto, che nascono i dibattiti più appassionanti, ma anche più inutili: si discute sempre sulla divisione di colpe e responsabilità, ma anche il dibattito su chi ci guadagni e su chi ci rimette alla fine di una trattativa. In questo senso, in questo caso, si può dire che Osimhen sia finito col diventare prigioniero del Napoli e del suo contratto allo stesso modo in cui il Napoli e De Laurentiis si sono ritrovati legati a doppio filo a un giocatore che non vogliono più schierare, nonostante per lui abbiano ipotecato il futuro a lungo termine. Nessuno vince, anzi tutti ci perdono tantissimo. O meglio: a vincere è solo il calciomercato, che tutto crea e tutto distrugge. La sensazione è che non sarà l’ultima volta, anzi.