Un volto simbolo della classe arbitrale nel tennis è stato il 58enne brasiliano Carlos Bernardes, uno degli arbitri più longevi nella storia dell’ATP. Per 40 anni e oltre 8mila partite, dall’alto di quella sedia prestigiosa incastonata tra le panchine dei giocatori, ha avuto la visuale migliore. È stato il terzo protagonista in campo di numerose finali storiche, imparando ad essere molto di più: «Un po’ psicologo e un po’ baby sitter». Bernardes è stato un arbitro di successo per aver saputo gestire situazioni difficili con estrema professionalità. Ha sempre cercato di non dare la colpa ai giocatori ma li penalizzava quando questi oltrepassavano la sua riga, il limite. A tratti però, alcuni dei giocatori più noti non hanno voluto saperne: Rafa Nadal, Fabio Fognini, Nick Kyrgios.
Con il viso buono che lo contraddistingue, mi racconta che inizialmente non era certo di voler fare l’arbitro. Ma quando si è trovato davanti a un bivio, è stata un po’ una scommessa con la vita. Oggi riconosce di averla vinta, soprattutto grazie alle persone che ha conosciuto e che iniziano già a mancargli. E anche grazie ai ricordi indimenticabili, come la finale del 2006, quando Bernardes divenne il primo sudamericano ad arbitrare una finale negli Stati Uniti. Non una qualunque: quella tra Andy Roddick e Roger Federer. Quello che sicuramente non gli mancherà è l’avvento della tecnologia. Per oltre trent’anni, infatti, è sato uno dei protagonisti del suo amato sport, ma negli ultimi tempi, la monotonia, così come la fertilità del suo ruolo, l’hanno convinto che era tempo di lasciare andare.
Ⓤ: Carlos, quando ha capito che avrebbe voluto fare l’arbitro nel mondo del tennis?
All’inizio devo dire la verità non ero così sicuro. Dovevo scegliere se continuare ad insegnare o se fare l’arbitro. Nel periodo tra il 1990 e il 1995 lavoravo anche come maestro di tennis in Brasile. E in quegli anni, 23 settimane di tornei erano solamente in Brasile. I tornei che ci sono adesso ad Acapulco, Buenos Aires e Santiago prima erano tutti in Brasile. Erano quattro grandi tornei che venivano chiamati Grand Prix. Poi mi pare ci fossero anche 15 Challengers e tornei Futures. Quelle settimane erano davvero intense perché lavoravo come giudice e allo stesso momento insegnavo. Finché un giorno il mio capo mi ha detto: «Guarda, stai viaggiando tanto e dovresti fare una scelta, o fai il giudice o fai il maestro di tennis». Allora lì mi sono detto, va bene, smetto di fare il maestro e ho preso l’altra strada, che nel tempo mi ha portato ad essere giudice di sedia.
Ⓤ: È stato un lungo viaggio, 40 anni in campo e più di 8000 partite arbitrate. Cosa crede che le mancherà di più?
Eh, sì, un lunghissimo viaggio. Mi mancheranno le persone che ero abituato a vedere sempre. Immagina che tutti gli arbitri che stanno lavorando oggi al top sono arbitri che ho dovuto valutare io fin dai loro inizi. È stata praticamente una convivenza di dieci o con alcuni addirittura vent’anni. Con Mohammed Layani direi che ho lavorato quasi trent’anni, pensa quanto tempo. Il contatto con queste persone e con la gente in generale è la cosa che mi mancherà di più.
Ⓤ: E come mai ha scelto di ritirarsi?
Dopo quarant’anni di lavoro sempre in viaggio, ero un po’ stanco. E poi il tennis è cambiato davvero tanto. Sentivo come se il mio ruolo non fosse più così necessario. Ormai ci sono queste macchine tecnologiche che fanno tutto, chiamano loro la palla se è fuori e tu non devi neanche seguire così bene la partita. Oggi è diversa la presenza dell’arbitro in campo, lui non è lì per informare i giocatori, ma il pubblico. La comunicazione con i giocatori non esiste quasi più e la stessa cosa vale anche nel calcio. Ormai l’arbitro deve riportare quello che decide la tecnologia al pubblico o alla televisione. È una forma di arbitraggio diversa, monotona. La verità è che stiamo andando in quella direzione e non solo in termini di sport. La gente non scrive più le lettere ma se le fa scrivere in due secondi da una macchina.
Ⓤ: A Torino ha arbitrato la finale delle Nitto ATP Finals tra Jannik Sinner e Taylor Fritz. Si aspettava il ringraziamento di Sinner al microfono? Come l’ha fatta sentire?
L’ho trovato un bellissimo gesto e molto emozionante. È stato un torneo molto bello in generale perché ho ricevuto un sacco di complimenti dai giocatori, dal pubblico e dai direttori dei tornei. Ho lavorato per l’ATP gran parte della mia vita e finire così, al Masters, è stata una cosa davvero emozionante. Complimenti a Sinner, con questo tipo di atteggiamento molto rispettoso, mi ha reso felice.
Ⓤ: A proposito dell’Australian Open che si sta giocando in questi giorni, mi è venuta in mente quella partita di cinque anni fa, quando diede un penalty point a Fabio Fognini nel quinto set e lui le disse: “Non mi sento al sicuro quando ci sei tu Carlos”. Come si era sentito?
In quelle situazioni è importante ricordarsi che non è niente di personale. Ci sono dei giocatori che si esprimono di più e bisogna saperci convivere senza farsi toccare in prima persona. Anzi il tema è proprio questo: le scene così purtroppo non si vedranno più. Perché con la tecnologia non ci sarà niente da discutere. Per me le giornate come quelle erano semplicemente dei giorni più complicati in ufficio, ma sapevo gestirli.
Ⓤ: Ultimamente si parla un sacco di Nick Kyrgios che è diventato quasi più un influencer che un giocatore di tennis. Nel 2022, quando eravate a Miami nel match tra Kyrgios e Sinner, c’era stato quell’incidente del walkie talkie che di colpo era suonato e Kyrgios se l’era presa con lei. Come ha gestito quella situazione?
In quei momenti i giocatori non pensano. Lui sapeva benissimo che il walkie talkie lo devo tenere sempre acceso e che non era colpa mia se è suonato. Ma ci sono casi in cui giocatori come Kyrgios parlano, parlano, parlano e non c’è modo di farli smettere. Quindi l’ho lasciato fare, facendo attenzione che non oltrepassasse il limite. Se un giocatore va oltre il limite, l’unica cosa che puoi fare è penalizzarlo. Il rispetto deve restare al primo posto.
Ⓤ: Qual è l’aspetto più difficile nell’essere un arbitro?
Cercare di lavorare in modo che la partita funzioni il meglio possibile e vada sempre avanti, senza troppe interruzioni. La partita deve rimanere diciamo “fluida”. Sai, un arbitro deve essere tante cose diverse: convincente, onesto, deciso, chiaro, umile…
Ⓤ: Umile?
Sì perché se credi di poter vedere tutto e di avere sempre ragione al 100%, allora è sicuro che hai sbagliato professione. L’arbitro deve accettare che in certe situazioni l’ultima parola non spetta a lui. Ogni tanto i giocatori hanno bisogno di parlare e l’arbitro deve rimanere in silenzio ad ascoltare, senza aggiungere niente, sarebbe inutile. Loro in quei momenti non vogliono una risposta, gli arbitri devono saperli ascoltare. Ormai stiamo andando in una direzione dove i giocatori non avranno neanche più da parlare perché, con la tecnologia, sapranno che l’errore potrà solamente essere il loro. Ad alcuni credo che mancherà la componente di sfogo sull’arbitro ma dovranno convivere solo con i propri errori.
Ⓤ: Insomma oltre ad essere arbitro lei è stato anche uno psicologo o a volte quasi un “papà” in campo?
Sicuramente noi arbitri siamo un po’ degli psicologi che devono saper ascoltare gli sfoghi dei giocatori. Forse più che dei papà, direi che siamo delle baby sitter (ride).
Ⓤ: Come ha gestito i problemi che ha avuto in passato con Rafa Nadal? Era qualcosa che l’ha fatta innervosire o no?
Questa cosa è stata ingigantita molto da internet. La gente mette dei video ormai dove fa sembrare tutto diverso da com’è nella realtà. Le nostre erano delle normali discussioni che ci possono essere tra arbitri e giocatori. Per un periodo lui ha chiesto che io non arbitrassi le sue partite e quindi hanno fatto modo che non succedesse, sia per non mettere pressione su di lui, sia per non metterla su di me. Poco tempo dopo sono tornato ad arbitrare normalmente le sue partite. Anche in seguito all’attacco di cuore che avevo avuto a Melbourne, lui mi ha mandato un messaggio vocale per sapere se mi ero ripreso. Quando ho arbitrato la finale di Barcellona qualche mese dopo, lui mi ha menzionato nei ringraziamenti. Sai, ho arbitrato la sua prima partita da professionista quando lui aveva 16 anni, ora ne ha 38. Immagina da quanto tempo lo conosco, è normale avere avuto anche delle discussioni dopo più di vent’anni.
Ⓤ: Qual è stato il suo torneo del Grande Slam preferito e perché?
Tutti e quattro hanno qualcosa di speciale. Lo US Open è dove ho fatto la mia prima finale nel 2006 con Roger Federer e Andy Roddick. È stato speciale, credo fosse la prima volta che un brasiliano, un sudamericano, dirigeva una finale così importante negli Stati Uniti. In campo c’erano un americano e Federer. Fu davvero incredibile. L’Australia invece è lo slam più rilassato di tutti: l’atmosfera è bellissima, la gente è allegra e ti senti al sicuro. Anche se cammini alle 3 o 4 del mattino da solo. Poi c’è Parigi, lo charme di quella terra rossa che per me è anche un po’ sudamericana. A Wimbledon si respira la tradizione ed è stato il primo torneo che ho visto in televisione. Immagina cos’ha significato per me, che a 14 anni guardavo il torneo in televisione, essere arrivato ad arbitrare la finale proprio lì. Una cosa fantastica. Si, forse direi che Wimbledon è il mio preferito per questo motivo qui.
Ⓤ: Qual è stato il giocatore che l’ha impressionata di più per il suo talento?
Fabrice Santoro, un francese. Per me era sbalorditivo quando giocava con quelle due mani e faceva qualsiasi cosa volesse con la pallina. Mi piaceva tantissimo guardare le sue partite perché non usava la forza ma l’intelligenza. Faceva delle cose che nessun’altro era in grado di fare.
Ⓤ: E il giocatore che la divertiva di più?
Un ex tennista brasiliano che si chiama Fernando Meligeni. Era impressionante come giocava, correva come un dannato da una parte all’altra e s’inventava di tutto per attirare il pubblico. Era un bello show da vedere, davvero divertente. Mi pare che abbia raggiunto la semifinale al Roland Garros nel 1999.