Kevin De Bruyne, l’addio di un fuoriclasse che non abbiamo celebrato abbastanza

Stritolato dall'era di Messi e Ronaldo, senza l'appariscenza dell'attaccante o l'appeal mediatico di Guardiola, forse il calcio non ha mai trattato KDB da protagonista. Eppure, ora che lascerà Manchester, ci accorgiamo che lo è sempre stato.

“Cara Manchester”. Punto e cuoricino azzurro. Inizia così un congedo via social sobrio, in pieno stile KDB che guarda corrucciato verso l’orizzonte: outfit spicciolo, sfondo pulito, foto in bianco e nero. Tranne per un dettaglio. Quella sciarpa al collo: tinta unita, vivido color City. «Se state leggendo questo», scrive il capitano, «probabilmente avete già capito dove andrà a parare. Quindi vado dritto al punto: questi saranno i miei ultimi mesi da giocatore del Manchester City». Dopo 413 partite, 19 trofei, 106 gol e 174 assist (and still counting).

Eppure i numeri, per quanto straordinari, non sono abbastanza per raccontare il giocatore simbolo – forse insieme al Kun Agüero, solo che il belga è arrivato al tetto d’Europa – del decennio più florido nella storia dei Citizen. Che prima di De Bruyne erano soltanto l’altra Manchester: quella periferica, un po’ sfigata, surclassata dal bagliore dello United a cui un paio d’anni addietro, una volta tanto, aveva vissuto la pazzesca goduria di scippare la Premier League sul traguardo. Era sembrata un’irripetibile congiuntura astrale, l’appuntamento col destino sotto forma di Kun su estirada di Balotelli. Con De Bruyne, arrivato nel 2015 dal Wolfsburg – 24enne, promettente, non ancora affermato – i successi del City sono diventati la regola. Il verbo. Fino a spaccare l’intricato equilibrio competitivo del campionato inglese: con Guardiola il City ne ha vinti sei degli ultimi sette.

In questa nuova dimensione calcistica, King Kev – come lo chiamano i tifosi – c’è sempre stato. Anticipando Guardiola – in carica dal 2016 – e sdoganando pure la Champions nella notte di Istanbul, due primavere fa. «Il calcio mi ha portato da voi e in questa città», continua De Bruyne. «Inseguendo il mio sogno, senza poter immaginare che questo periodo avrebbe cambiato la mia vita. Questa città. Questo club. Questo popolo. Mi avete dato tutto, non ho avuto altra scelta che darvi tutto a mia volta. E indovinate un po’: insieme abbiamo vinto tutto». È così. Anche se il contributo del belga ha avuto forse il peso specifico maggiore. «Oggi è un triste giorno per tutti», interviene Pep dopo l’annuncio del suo numero 17. «Senza di lui questo ciclo non sarebbe stato così splendente: se ne va una parte di noi, com’era stato con l’addio di Vincent, Sergio o David – Kompany, Agüero, Silva, ndr. E Kevin è uno dei migliori centrocampisti di sempre».

Detto dall’allenatore catalano, fautore di possesso palla ad libitum e tikitakesche innovazioni – senza contare i geni del pallone passati per i suoi schemi: Messi, Xavi, Iniesta – ha l’effetto di una solenne investitura. Non sono mica parole di circostanza, dettate dall’emozione o quant’altro. Parlano semmai i fatti: in questo decennio il suo City ha segnato oltre mille gol e in quasi uno su tre c’è lo zampino di De Bruyne. Il miglior assistman della storia societaria e il secondo di sempre in Premier League dietro a Ryan Giggs (ma con meno della metà di partite all’attivo).

 

Visualizza questo post su Instagram

 

Un post condiviso da Kevin De Bruyne (@kevindebruyne)

Parliamo insomma di uno dei più grandi fuoriclasse della sua generazione. «Completo», diceva in altre occasioni Guardiola, che pure, volente o nolente, l’ha mediaticamente oscurato. «Sa sempre quello che deve fare e lo fa sempre a una velocità superiore rispetto agli altri». In qualsiasi posizione dal centrocampo in su, con la visione di gioco dei pochissimi eletti. Eppure perché, se pensiamo ai campioni nati a cavallo del 1990, il nome di Kevin De Bruyne non è mai tra i primi nomi che ci vengono in mente?

In parte è per via di un’altra congiuntura: quella di Messi e Ronaldo, che tutto il resto hanno eclissato. Ma senza scomodare i due mostri sacri, c’è chi ha avuto ben altri riconoscimenti. A partire da Luka Modric, la cui parabola – più della posizione in campo – è in parte paragonabile a quella del capitano dei Citizen: stella nel club, faro tecnico della sua Nazionale. Ma con un Pallone d’Oro all’attivo, da simbolo eterno di una Croazia che pure non è riuscita a vincere più del Belgio di De Bruyne. Diverse erano però le aspettative, con il talento di Kevin mimetizzato anche fra i Diavoli Rossi, a loro volta enfatizzati dalla miglior generazione mai vista a Bruxelles e dintorni. Eppure, qualunque cosa sia successa e succederà, Modric in patria sarà per sempre un idolo e a Madrid la leggenda capace di scalzare CR7.

Sarà forse l’aplomb fiammingo – pochi fronzoli, molto self control – ma invece dell’impatto sul calcio di De Bruyne ci si tende spesso a dimenticare. Pure fra i belgi, che ancora rinfacciano alla Nazionale le tante occasioni mancate (anche se nel pieno del prime, estate 2018, l’unico momento in cui la Francia rischiò di non vincere il Mondiale fu contro Kevin e soci in semifinale, più che all’ultimo atto contro la Croazia). Al centrocampista la narrativa dell’obbligo di vittoria non è mai piaciuta – «Inghilterra e Germania non hanno forse anche loro una generazione d’oro?», rispondeva stizzito alla stampa, dopo l’eliminazione allo scorso Europeo. Ma ha imparato a conviverci, sempre dritto per la sua strada.

Fino all’ultima curva di uno straordinario percorso: 34enne, segnato dagli infortuni, non rinnoverà col City e a giugno sarà un uomo libero. Si dice per un futuro in Arabia o negli Stati Uniti: poco importa, a quel punto. «Da calciatori, sappiamo tutti che questo giorno prima o poi sarebbe arrivato», il saluto al calcio che conta. «Tutte le storie hanno una fine. Ma questo è stato senza dubbio il capitolo migliore». Non saranno soltanto i suoi assist, che presto mancheranno al pallone, su questo non c’è dubbio.

Leggi anche