Dan Burn è davvero un esempio da seguire, per la sua storia e per come parla di salute mentale

Oggi il difensore è l'idolo del Newcastle fresco di EFL Cup. Ma è anche un uomo che non ha paura di raccontare le sue fragilità, riassunte in una massima da incorniciare in spogliatoio: «Chiedere aiuto quando si ha bisogno non è debolezza, ma un atto di forza».
di Redazione Undici 12 Maggio 2025 alle 17:46

C’è molto più di un titolo in bacheca. Anni di rincorse, sacrifici e momenti bui che di colpo scompaiono di fronte allo scintillio di un trofeo conquistato grazie al tuo gol decisivo – nel caso di Dan Burn, quello che ha regalato al Newcastle la League Cup di quest’anno, battendo il Liverpool in finale per 2-1. Lo sballo oltre l’abisso. «Pensi di essere l’unico al mondo ad affrontare una spirale negativa, ma quando ne parli e ti apri con gli altri ti rendi conto che tutti hanno i loro problemi. E che questi colpiscono chiunque», ha dichiarato il difensore 33enne. «Sono stato davvero fortunato ad aver avuto le persone giuste attorno a me». Fino alla rinascita umana e sportiva che oggi tutta la Premier League conosce.

Ma non è sempre stato così, per Burn come per tanti altri calciatori. Eppure per lui forse un po’ di più: il ragazzino di casa è stato scartato dai Magpies ai tempi delle giovanili, poi è riuscito a tornare allo United da adulto. E a risalire insieme al club. Ne ha dovute digerire di delusioni, nel frattempo. «Ho attraversato dei periodi davvero difficili», racconta Dan ad Alan Shearer, l’idolo di quand’era bambino, nel corso della Mental Health Awareness Week – l’evento che dal 12 al 18 maggio ha luogo nel Regno Unito per sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti di un tema troppo spesso relegato a tabù (nel weekend appena trascorso anche tutte le partite di campionato erano dedicate a Inside Matters, l’analoga iniziativa della Football Association). Poi ha aggiunto: «Penso che all’epoca fossi imbarazzato. Avevo 21 anni, giocavo già in Premier, al Fulham, e  mi dicevo: com’è possibile che mi senta in questo modo?».

Burn riconosce col senno di poi che «la salute mentale non fa discriminazioni: non importa chi sei, che lavoro fai o dove sei arrivato». E naturalmente, nemmeno i professionisti del pallone sono dei superuomini. Anzi: è una vita totalizzante, talvolta alienante, con tanta pressione sociale addosso. «Le cose sono migliorate nel corso della mia carriera», racconta Burn. «Quando avevo iniziato, tutto ciò che riguardava la sfera psicologica era visto con vergogna. Come se rappresentasse una debolezza. Penso che invece sia l’esatto contrario: quando hai bisogno di aiuto, richiede uno sforzo enorme avere il coraggio di chiederlo. Dunque ammettere di trovarsi in certe situazioni non è debolezza, ma un atto di forza».

E che a dirlo, oggi, sia uno dei giocatori più rappresentativi del Newcastle prossimo a tornare in Champions League può avere un peso specifico importante per le nuove generazioni. Soprattutto perché è facile immedesimarsi in Burn: uno che ce l’ha fatta senza particolare talento innato. Tanta dedizione, perseveranza e le fragilità annesse di chi si ritrova in un mondo spesso più grande di lui. Non è mai stato il difensore più forte, o il trascinatore della squadra nei momenti di difficoltà. Eppure, dalla quarta divisione in su, è riuscito a diventarlo un pezzetto di calcio alla volta. Fino a quel colpo di testa che ha fatto la storia del Newcastle. Ma dice bene Dan: prima di Wembley, c’era la tempesta. E vale sempre la pena di raccontarlo.

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