Fierissimo delle sue origini greche, Angelos Postecoglou conosce bene il valore delle profezie: se per i suoi antenati segnavano il futuro, per lui hanno innanzitutto valorizzato il passato. Nella conferenza stampa prima della finale di Europa League, l’allenatore del Tottenham era arrivato a dover dire frasi del tipo «non sono un pagliaccio», tanto l’aria intorno a lui si era fatta pesante, irrespirabile. Anche perché a settembre scorso, dopo una brutta sconfitta in un North London Derby, aveva rilasciato una dichiarazione piuttosto impegnativa. Una profezia come quelle di cui sopra: «Guardate che io, al mio secondo anno in un club, vinco sempre un trofeo. Lo dice il mio curriculum».
Postecoglou, omone australiano dalla voce profonda, aveva bisogno di alzare un trofeo. Doveva farlo per la sua credibilità, dopo certe uscite. Ma doveva farlo anche per dare un suggello alla sua carriera da Football Manager, cominciata dall’altra parte del mondo e che l’ha portato – passo dopo passo, livello dopo livello – al top del calcio mondiale. Alla fine ha avuto ragione lui: il Tottenham ha vinto l’Europa League dopo aver battuto in finale il Manchester United.
Ecco, appunto: il Tottenham. Postecoglou ha portato una coppa nella bacheca degli Spurs 6296 giorni dopo l’ultima vittoria, quella in Coppa di Lega. Ripetiamo: 6296 giorni, una cifra da scrivere due volte per fissarla nella memoria. È riuscito in quello che in cui avevano avevano fallito allenatori come Conte o Mourinho, considerati la quintessenza del successo calcistico. Come ci è riuscito? Con la perseveranza, la dote tipica di un uomo che si sente in missione. Certo, per provare a vincere l’Europa League Postecoglou e il suo Tottenham hanno lasciato perdere quasi subito la Premier League, non a caso il campionato che sta per finire è indiscutibilmente il peggiore della storia recente del club: 21 sconfitte sono troppe per chiunque, specialmente per una delle Big Six d’Inghilterra.
Anche questa, però, è stata una profezia indovinata, per quanto rischiosa. Non era facile, infatti, decidere di puntare tutto sull’Europa. Prima di tutto perché il format a girone unico nascondeva delle trappole – pur superate agevolmente con il quarto posto finale. I pareggi contro Rangers e Roma e la sconfitta di Istanbul contro il Galatasaray, infatti, sono stati più frutto di giocate situazionali e di errori individuali che dei grossi limiti difensivi visti in Premier League. Poi sono arrivati gli ottavi contro l’AZ Alkmaar, il momento in cui è cambiata la stagione europea degli Spurs: dopo l’1-0 subito in Olanda, nell’ambiente c’era già aria di rassegnazione, una sensazione del tipo “Sì, ok, ci crediamo. Però poi la nostra storia dice che quando dobbiamo rimontare qualcosa va male”.
E invece quest’anno no. Un successo per 3-1 netto, convincente e autoritario ha dato entusiasmo a tutti i giocatori della rosa. Rosa che, piano piano, ha cominciato a perdere pezzi: nel Tottenham 2024/25 si sono infortunati tutti, da Vicario a Udogie, da Richarlison a Maddison, poi Son e Kulusevski. E abbiamo citato solo gli infortuni i nomi più importanti. La maggior parte dei giocatori sono stati recuperati nelle ultime settimane, in tempo per il finale di stagione. Ma una cosa è averli in forma, una cosa è averli e basta – non a caso, viene da dire, il capitano e uomo-simbolo Son Heung-min è entrato solo nell’ultimo segmento della finale di Bilbao.
Postecoglou sapeva di avere un conto con il destino. Ma se lo doveva giocare bene, arrivando prima di tutto in fondo a una competizione. In una ventina di giorni a febbraio ha buttato via le due coppe interne, non gli restava quindi che l’Europa. Per conservarla, ha optato per un cambio di filosofia tattica: dalla linea difensiva alta e la riaggressione feroce stile Barcellona, che avevano funzionato a singhiozzo, è passato a disegnare una squadra più compatta, un blocco basso che non è stato più cambiato dai quarti di finale – contro l’Eintracht – in poi. Scalate giuste, preventive corrette, esterni che si alzavano a prendere il riferimento e poco spazio per l’imbucata. In finale, lo United ha fatto una fatica enorme a trovare passaggi nella zona centrale, dovendo passare per forza dalle corsie laterali. Dove, specie nel secondo tempo, Udogie e Pedro Porro hanno dominato.
La sintesi della finale
Non è un caso, quindi, che il gol decisivo di Johnson sia nato da una riconquista di Sarr, che si è poi riproposto in avanti fino a confezionare il cross girato in porta, con la complicità di Shaw, dall’attaccante gallese. Insomma: Postecoglou ha stretto a sé, metaforicamente e non, il trofeo dell’Europa League. Averlo conquistato è una vittoria innanzitutto sua, perché l’ha fatto snaturandosi. La vittoria di Bilbao è stata come una rigenerazione catartica, una pratica molto greca che serviva da pass per i riti più sacri. Nel caso specifico, il tecnico australiano è come se avesse risposto alle critiche subite, agli attacchi che ha dovuto fronteggiare. L’ha fatto rischiato tutto, e alla fine ha vinto. Così resterà nella storia del club londinese, accanto ad altri manager che fino a qualche ora fa erano considerati irraggiungibili. In questo senso, gli inglesi hanno un bellissimo concetto di memoria legato al cuore: quando si ricorda qualcosa o qualcuno a memoria, lo si deve fare “by heart”. Cioè attraverso quel muscolo che pompa di continuo. Postecoglou forse si era dimenticato di quella profezia di settembre, o forse no. Magari ce l’aveva ben presente, nella testa, ma soprattutto nel cuore. E ora può sbandierarla orgoglioso, visto che si è preso la rivincita più dolce che poteva.