Allegri al Milan è un ritorno al passato, in tutti i sensi possibili

Con il nuovo allenatore e con Tare, è stato sconfessato il progetto avviato due anni fa. Non è detto che sia un male, ma quella che attende il club rossonero è una sfida difficile.

Nel 2019, quando ancora era l’allenatore della Juventus, Massimiliano Allegri incrociò Teo Teocoli, attore dalla risaputa fede rossonera, negli studi di Che tempo che fa. Accennando il suo solito sorriso sardonico, Max gli disse: «Guarda che tra un paio d’anni ci torno, al Milan». Di anni ne sono passati sei, e nel frattempo Max Allegri ha fatto tante altre cose: è tornato alla Juve, ha lanciato diverse giacche in preda alla tensione agonistica e ha vinto una Coppa Italia prima di essere esonerato, al termine della stagione 2023/24. Alla fine, però, ha mantenuto la sua parola ed è tornato davvero. Come 15 anni fa, quando firmò col Milan a pochi giorni dalla finale di Champions di Madrid tra Inter e Bayern Monaco, anche in questo caso Max dovrebbe firmare prima di una finale di Champions che vede coinvolta l’Inter.

L’ossessione dei ritorni e il tempo che non passa

Il calcio italiano è talmente ossessionato dai ritorni, dalle ricorrenze storiche e dalla scaramanzia, che tutto questo sembra il frutto di un disegno superiore. In questo disegno, ancora una volta, il destino di Allegri è sembrato intrecciato a quello di Antonio Conte. Negli ultimi giorni embrava che, dopo il solito trionfo al primo anno, il tecnico pugliese dovesse lasciare Napoli alla volta di Torino, con Allegri pronto a subentrargli, proprio come accadde alla Juventus nel 2014. E invece Conte rimarrà a Napoli, dove ha vinto al primo anno senza coppe come fece a Torino nel 2012, anno in cui portò la Juve dei Pepe e gli Estigarribia a battere il Milan di Thiago e Ibra allenato da Allegri. Se il cerchio degli eterni ritorni dovesse chiudersi, chissà che Max non possa vendicarsi di quello scudetto che ancora toglie il sonno ai milanisti – sì, quello del gol di Muntari –, vincendo al primo anno contro un Napoli che, tra un gruppo già mentalizzato e un mercato ambizioso che dovrebbe aprirsi con Kevin de Bruyne, potrebbe essere la squadra da battere l’anno prossimo.

Come l’aveva capito bene, questo paese, Tomasi di Lampedusa, quando con sintesi chirurgica lo riassumeva così: “che tutto cambi, perché nulla cambi”. Mentre nel resto del mondo il calcio evolve alla velocità della luce, il calcio italiano, come un Giano bifronte, non riesce a guardare al futuro senza rimanere ossessivamente radicato al passato. Come disse proprio Allegri in una delle sue performances più note, al club di Sky, in un’ora di interventi tra le risate sguaiate dei commensali presenti al tavolo: «Il calcio è come un vestito grigio. Il vestito grigio non passa mai di moda. Il calcio è quello lì. Poi, dopo, le mode sono il maglione a quadri, una volta bianco e rosso, una volta col quadro più grosso, un’altra col rombo o col rettangolo. Ma il vestito grigio è uguale al calcio. Il classico non passa mai di moda».

Nel 2025, come nel 2011, sarà Conte contro Allegri: cambieranno i giocatori in campo, i club rappresentati, ma in realtà nulla sarà cambiato. Non passa, il tempo, nel calcio italiano. Per il Milan, ovviamente, a prescindere dal giudizio di valore sulla scelta, si tratta di un cambio di rotta netto. Il campionato, chiusosi nel segno di una delle contestazioni più sentite e partecipate della storia rossonera, non è finito nemmeno da una settimana, e già sono stati chiusi DS (Tare) e allenatore (Allegri). La prima novità riguarda i tempi: mai, sotto la gestione Elliott/RedBird, il Milan ha agito con simile celerità. La seconda, invece, riguarda un cambio di filosofia.

Un nuovo Milan

Due anni fa, dopo l’allontanamento di Massara e Maldini, l’amministratore delegato Giorgio Furlani presentava il nuovo “gruppo di lavoro” che, in nome di decisioni collegiali supportate da un ampio gruppo di analisti (come quello fornito da Zelus, società di “sports analytics” fondata da Luke Börnn) avrebbe avallato qualsiasi decisione. Niente più DS con delega quasi totale sul campo, bensì Geoffrey Moncada, fino ad allora capo-scout, promosso a fare le veci di un DS (pur non avendo il patentinto) col supporto di tutto il team dirigenziale.

Due anni dopo – o meglio: due stagioni fallimentari dopo – questo modello pare rinnegato. Quello che fu presentato come un modo di fare calcio inedito in Italia, “data-driven”, de-centralizzato nell’apparato decisionale, pare essersi schiantato contro una realtà che ne ha rivelato l’inconsistenza. Ibra, meno di un anno fa, ne parlava così: «Noi siamo il rock ’n’ roll. Non guardiamo gli altri, siamo la nuova scuola». Affidandosi a Igli Tare, direttore sportivo con più di quindici anni di esperienza alla Lazio alle spalle, il Milan decide – almeno sulla carta – di cambiare approccio. Col suo ingresso in dirigenza, finalmente il famoso gruppo di lavoro viene integrato con una figura che, oltre a conoscere le dinamiche di palazzo del calcio italiano, ha una competenza specifica e già provata nelle mansioni che andrà a svolgere. Quanto effettivamente gli verrà concessa autonomia decisionale, ecco, quello è il vero nodo da sbrigliare. Intanto, però, anche il Milan torna ad avere una struttura dirigenziale classica.

Cosa cambia con Allegri

Ancor più repentino è il dietrofront sull’allenatore. Il 13 Giugno 2024, quando Zlatan Ibrahimović presentò in conferenza Paulo Fonseca come nuovo allenatore del Milan, fu interpellato più volte sul perché i rossoneri avessero deciso di ignorare il nome di Antonio Conte. La risposta fu chiarissima: «Conte non è quello che cercavamo. Volevamo un allenatore, non un manager». Alla fine, gli allenatori-non-manager sono stati due, visto che Paulo Fonseca è stato esonerato a fine dicembre per far posto a Sergio Conceição, ma il nome di Max Allegri rappresenta una netta inversione nei criteri con cui è stato scelto il nuovo allenatore. Con Allegri, il Milan, prende proprio quell’allenatore-manager-accentratore che un anno fa diceva di non volere. E probabilmente, se la metamorfosi ideologica fosse già avvenuta un anno fa, forse oggi Conte sarebbe l’allenatore del Milan.  Del resto, è stato lo stesso ad Furlani, un po’ imbarazzato nel pre-partita di Milan-Monza, ad ammettere che «gli errori sono stati tanti». E lo ha detto tenendo le mani dietro la schiena, come chi sa di essere in cima alla lista degli imputati

Se non altro questa volta, a differenza di tante occasioni in cui la dirigenza rossonera aveva perseverato nel commettere gli stessi errori, il Milan decide di cambiare. Sull’Allegri-bis, la reazione del tifo sembra spaccata in due: da un lato ci sono i cultori romantici del personaggio Max, che ne ricondividono sui social montaggi in cui si cimenta in uno dei suoi lanci di giacca, spezzoni di conferenza in cui esibisce il suo spiccato umorismo e sentenze su quanto il calcio sia un gioco semplice; dall’altra, ci sono i perplessi, quelli che riconoscono la caratura di Allegri e il fatto che possa rappresentare un riferimento di spessore in un Milan senza guide, ma al contempo, non dimenticano la proposta di gioco poco brillante – per usare un eufemismo – espressa nel corso dell’ultima esperienza alla Juve. L’ultima Juve di Max è stata spesso una squadra sfilacciata, con distanze abissali tra i reparti, solida difensivamente ma spesso molto imprecisa in transizione, martoriata dagli infortuni. Una squadra povera di soluzioni tattiche, piuttosto scheletrica nel gioco offensivo.

Non si dimentichi, a tal proposito, che l’anno prossimo il Milan godrà di un grande vantaggio competitivo: una sola partita a settimana. Ci sarebbe eccome, il tempo per lavorare tanto sul campo e far assorbire al gruppo un’identità di gioco che possa trovare continuità negli anni a venire. Da questo punto di vista, i dubbi su Allegri, sono più che leciti. Ciò detto, diverse indiscrezioni giornalistiche riportano che Max non si sarebbe perso una partita del Milan nell’ultimo anno, e avrebbe grande stima della rosa dei rossoneri. In questo senso, non c’è da stupirsi: il Milan pur essendo arrivato all’ottavo posto, ha indubbiamente dei picchi di talento con pochi eguali in Serie A. Specie in avanti, quando può liberare in transizione tutta la qualità di Theo (il Theo che fu, per lo meno…), Reijnders, Leão, Pulisic e compagnia. Lo ha riconosciuto, poche settimane fa, anche Claudio Ranieri, secondo il quale i rossoneri «hanno i singoli più forti del campionato». Per di più, si tratta di giocatori autosufficienti, che danno il meglio  in situazioni un po’ caotiche, quando liberi di isolarsi e sfruttare la loro qualità individuale nell’uno contro uno. Caratteristiche, queste, che un allenatore poco propenso a lavorare su principi offensivi meccanizzati e rigorosi come Allegri, sicuramente apprezzerà.

Discorso diverso, invece, riguarda la difesa. Il Milan, sul calco della stagione dello scudetto con Pioli, è costruito per difendere in avanti, sfruttando i duelli delle marcature a uomo e con tanto campo alle spalle. Difensori come Pavlovic e Tomori, in un blocco medio-basso con Allegri, lavorando di reparto e spesso relegati in area, potrebbero faticare molto. Gabbia e Thiaw, invece, potrebbero essere uomini da cui ripartire. Infine, i veri punti interrogativi: i rinnovi di Theo e Maignan, il futuro incerto di Leão e la probabile cessione di Tijjani Reijnders al City. Sarà importante capire se Allegri avrà ricevuto rassicurazioni sulla possibile permanenza di tutti i “big”, o se quantomeno farà un tentativo per convincerne alcuni a restare. La sensazione è che, specie con Theo e Leão, annegati – anche per loro evidenti colpe – nella depressione ambientale del Milan dell’ultimo anno, potrebbero ritrovare stimoli con un allenatore che di campioni ne ha allenati parecchi. E che, nella sua prima esperienza al Milan e poi alla Juve, ha dimostrato di saper vincere. Di fronte, finalmente, si ritroverebbero un allenatore con la giusta autorevolezza per prenderli di petto e imporgli di prendersi le responsabilità che giocatori del loro talento devono assumersi.

La sfida più difficile

Allegri, a Milano, ha già vinto al primo anno, ma la prossima stagione l’indice di difficoltà sarà decisamente più alto. Al Milan, nel 2010, Allegri ereditò una squadra con un talento offensivo scintillante, che in attacco vantava la qualità di Ibra, Pato, Boateng, Robinho e che poi a gennaio integrò Cassano; alla Juve, nel 2014, prese in mano una squadra che aveva vinto tre campionati di fila con Conte e che aveva la forza economica per rafforzarsi ogni anno acquistando i migliori giocatori delle dirette concorrenti. In entrambe le esperienze, Allegri si è dimostrato un finissimo gestore, capace di leggere i momenti e di guidare con maestria gruppi che strabordavano di personalità forti.

Il Milan di oggi, invece, assomiglia molto di più alla Juve del 2021. È una squadra da ricostruire, che ha un disperato bisogno di principi di gioco a cui affidarsi, specie in una fase di costruzione che da anni è di una povertà disarmante. Per via di tutto questo, ma anche perché sta prendendo in mano un Milan in piena contestazione societaria, Allegri è forse chiamato alla missione più difficile della sua carriera. Per portarla a termine, dovrà essere capace di risvegliare dal torpore depressivo una tifoseria che ha voglia di tornare a riconoscersi nei rappresentanti del suo club, fino a esplodere di irrazionale esaltazione per una giacca lanciata sul prato del campo nei minuti di recupero. Per scegliere la sua prima, di giacca, Max avrà tempo fino all’esordio in campionato, visto che la squalifica rimediata nella finale di Coppa Italia contro l’Atalanta, due anni fa, quando lanciò la sua ultima giacca juventina prima di inveire contro il quarto uomo, non gli permetterà di sedersi sulla panchina rossonera per l’esordio stagionale. Ad agosto, contro il Bari in Coppa Italia.

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