Il Sarrismo si è compiuto: per la Lazio e i suoi tifosi, Maurizio Sarri è l’ultima speranza a cui aggrapparsi

La società biancoceleste ha ritrovato un allenatore molto amato e che dice di amare il club, i tifosi, l'ambiente: l'unica soluzione possibile in un momento di difficoltà e di caos.
di Marco Gaetani
31 Luglio 2025

Nella primavera del 2002, con gli avvoltoi che avevano già iniziato a volteggiare attorno alla sua testa, Sergio Cragnotti capì che sarebbe potuto uscire da una situazione complessa soltanto cedendo a quel che gli sembrava un atto di profonda debolezza. Per sopravvivere a una contestazione che si era fatta feroce nel corso della stagione, con l’arrivo in panchina di Alberto Zaccheroni che aveva gettato l’ambiente in una sorta di pessimismo cosmico culminato con l’addio alla zona-Champions nella tremebonda trasferta di Bologna e il piazzamento nell’allora Coppa UEFA agguantato soltanto con il clamoroso ribaltone del 5 maggio, il presidente della Lazio aveva assecondato l’umore della piazza, rifugiandosi sotto l’ombrello del nome che la curva Nord aveva acclamato per mesi: quello di Roberto Mancini. Un allenatore senza un profondo vissuto da tecnico, in quel momento, ma che era stato più di ogni altro il simbolo dell’entrata della Lazio nella sua epoca vincente: l’uomo, in soldoni, che aveva cambiato la mentalità di un gruppo. Nel biennio a seguire, che avrebbe visto l’uscita di scena di Cragnotti con la Lazio sostanzialmente in mano a una banca, Mancini sarebbe diventato non solo brillante allenatore, ma anche uomo-copertina, punto di riferimento, persino componente del Consiglio di amministrazione del club. Un ruolo così totalizzante che finì per renderlo inviso a parte dei giocatori, nel frattempo costretti a spalmare o tagliare lo stipendio per garantire la sopravvivenza del club, con la messa in pratica del cosiddetto “piano Baraldi” che portò a convertire parte degli stipendi in azioni del club.

Da lì in avanti, nel corso dei 21 anni dell’era Lotito, nessun allenatore ha assunto una rilevanza del genere, nemmeno Simone Inzaghi – assoluta creatura lotitiana capace di portare il club a illudersi, prima della pandemia da Covid 19, di potersi arrampicare fino alla lotta scudetto. Oggi, in quello che – tolto il primo tribolatissimo anno – pare essere il momento peggiore dell’intera presidenza Lotito, le speranze dei tifosi sembrano tutte rivolte sulle spalle di un solo uomo: Maurizio Sarri. Ricostruire tutto ciò che è accaduto in casa Lazio negli ultimi due mesi è affare complesso, esercizio forse addirittura sterile. I tre parametri non rispettati, il blocco del mercato ufficializzato solo dopo la firma del nuovo tecnico, al punto di arrivare a scrivere, nel comunicato con cui venivano di fatto confermate le voci dell’impossibilità di agire in questa finestra trasferimenti, la seguente frase: «Nel corso della conversazione, il Presidente, per la prima volta, ha illustrato in modo dettagliato la complessità tecnica della normativa e le sue implicazioni», dove la vera notizia è da rintracciare nell’inciso «per la prima volta», che pare aggiunto su ispirazione del tecnico per mettere i puntini sulle i. «Ho pensato che il presidente mi aveva fregato, ma ormai la decisione di tornare era presa. Lasciare per la difficoltà mi sembrava brutto nei confronti di tutti, è stata un’arrabbiatura di un’ora ma poi ho pensato subito al futuro. Ho fatto una scelta, avevo altre richieste da Serie A, Arabia e club sudamericani, ma ho scelto la Lazio per il legame che sento con la società e con l’ambiente», ha poi detto Sarri nel giorno della presentazione.

Con il suo ritorno alla Lazio, e con la decisione di rimanere nonostante una situazione oggettivamente complessa, Sarri affronta una delle più grandi sfide della sua carriera in una posizione di assoluta forza. Ha dalla sua l’amore della gente, che ha sempre detto apertamente di ricambiare, e soprattutto uno scenario personale da win/win: qualora la Lazio dovesse centrare l’obiettivo di qualificarsi a una coppa europea, tutti riconoscerebbero i meriti all’allenatore, chiamato a operare senza rinforzi. Qualora invece l’obiettivo non venisse centrato, l’opinione pubblica indicherebbe come responsabile la società.

Ma il ruolo di Sarri sta andando oltre quello dell’allenatore. Al punto che una delle domande nella conferenza stampa di presentazione ha provato a sollecitarlo proprio sul tema. Gli hanno chiesto se si sentisse addosso il ruolo di garante e ha risposto in maniera secca: «Io mi sento uno che ha l’obbligo di dare tutto per il rispetto di questa gente. Il garante dei risultati non posso esserlo, mi devo sentire garante non solo di portare la mia professionalità ma di mettere cuore e anima per trascinare un gruppo».

In un bizzarro paradosso, è come se il Sarrismo – termine che a cavallo tra il 2017 e il 2018 aveva sfondato i social network fino a prendersi un pezzo di Treccani: «La concezione del gioco del calcio propugnata dall’allenatore Maurizio Sarri, fondata sulla velocità e la propensione offensiva; anche, il modo diretto e poco diplomatico di parlare e di comportarsi che sarebbe tipico di Sarri» – avesse trasceso il suo significato originario per compiersi davvero alla Lazio, trovando una piazza nella quale diventare un punto di riferimento totalizzante, in un modo che potrebbe essere definito finanche ingeneroso: è davvero giusto riporre sulle spalle di un allenatore un peso del genere? Una tifoseria deve davvero aggrapparsi solamente al tecnico per sperare in una stagione di alto livello? Nel dubbio, ai tifosi non resta che sperare in lui e nella sua capacità di preparare una gara a settimana.

Sarri ritrova una Lazio diversa rispetto a quella che aveva lasciato. Mancano i pilastri tecnici ed emotivi: hanno salutato Luis Alberto, Felipe Anderson e Ciro Immobile, dopo l’addio anticipato di Sergej Milinkovic-Savic nell’estate del 2023 e quello di Lucas Leiva un anno prima – per meri motivi anagrafici. Per stessa ammissione del tecnico, «questa squadra dal punto di vista tecnico ha qualcosa in meno, ma possiamo tirare fuori una forza maggiore. Quella aveva un’esperienza superiore: lì abbiamo raccolto, qui c’è da seminare»: concetto giusto, se non fosse che l’età media della rosa della Lazio è elevatissima e per ovviare al problema del mercato sono arrivati i rinnovi di Pedro (classe 1987) e Vecino (1991). Ha quindi elogiato l’aggressività della Lazio di Baroni: «Mi colpiva l’energia che sprigionava in campo», lasciando intendere che potrebbe essere questo il filo conduttore con il recentissimo passato.

A questo punto viene da chiedersi che versione di Sarri vedremo: nei due anni e mezzo alla Lazio, la veste migliore è stata quella di una squadra molto accorta dal punto di vista difensivo, capace di avvicinare i numeri del Napoli scudettato di Spalletti in termini di gol subiti (30 contro 28) dopo averne presi 58 nella prima stagione. Il tecnicoabbassato l’intensità del pressing, protetto maggiormente la porta, per poi affidarsi a un sistema di trasmissione palla più diretto rispetto ai suoi gusti, esaltando il gioco lungo di Luis Alberto e Milinkovic-Savic e rinunciando all’idea di un pensatore puro in cabina di regia, – così vennero esaltate le doti di Cataldi, un centrale di centrocampo abile soprattutto nel farsi parete con i compagni sullo stretto. Un Sarri meno bello e più pragmatico che però, nel terzo anno biancoceleste, aveva visto andare tutto in malora: un campionato a tratti da incubo, il passaggio agli ottavi di Champions costruito grazie a due comete di Halley (un gol di Pedro di testa al 95’ a Glasgow per la vittoria sul Celtic e il pareggio addirittura di Provedel in casa con l’Atletico Madrid) e poi la doppia sfida col Bayern Monaco, quella sì, all’altezza della nomea, prima di un addio che ora entrambe le parti hanno declinato in salsa puramente personale.

L’assenza del mercato porta con sé una fisiologica diminuzione della curiosità. Cosa c’è da scoprire, da scovare, in questa Lazio? Qual è la strada per cercare di fuggire a una malinconia che pare inesorabile? Un ulteriore step di Isaksen e Mario Gila? Il duello per una maglia tra Castellanos e Dia, dopo un anno di coabitazione nel calcio di Baroni? Soprattutto, verrebbe da fare un nome: quello di Reda Belahyane. Difficile immaginarlo nel cuore del centrocampo a tre, molto intrigante è invece pensarlo come mezzala di possesso, a sostegno della regia di Rovella, con Guendouzi a chiudere il terzetto. Del resto, essendo arrivato nel tormentato mercato di gennaio 2025, rischia di essere la cosa più vicina a un rinforzo che Sarri vedrà da qui al prossimo anno. Privata persino del volo dell’aquila Olympia per la grottesca vicenda-Bernabé, la gente laziale non può fare altro che aggrapparsi a un uomo solo al comando, nella speranza che basti. Largo al factotum.

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