L’estate in cui la Premier ha divorato il calciomercato

Prezzi assurdi, accumulo di giocatori, stipendi altissimi anche nelle neopromosse: il campionato inglese ha sballato tutto il mercato europeo.

Negli ultimi giorni, a distanza di poche ore l’una dall’altra, sono state ufficializzate due operazioni di calciomercato: il trasferimento definitivo di Antony dall’Ajax al Manchester United per 100 milioni di euro e il prestito secco di Harry Winks dal Tottenham alla Sampdoria. Sono due affari che sembrano provenire – e in effetti provengono – da due galassie lontanissime tra loro, ma in realtà nascono e si concretizzano sullo stesso pianeta. Anzi, nella stessa nazione, nello stesso micro-contesto: una Premier League dominante dal punto di vista economico e quindi popolata da società bulimiche di giocatori, da club e manager che spendono cifre enormi senza pensare troppo alla propria progettualità, alle conseguenze di questi loro investimenti fuori scala, che finiscono per dominare e drogare il mercato nello stesso identico momento.

La dimostrazione che siamo di fronte a un sistema interconnesso viene fornita, come succede sempre, dai numeri e dai confronti col passato: nella sessione di calciomercato che sta per concludersi, i venti club del massimo campionato inglese hanno investito la cifra aggregata più alta di sempre, ovvero 2.02 miliardi di euro secondo Transfermarkt; a confutare ogni idea sul fatto che questa cifra così elevata sia frutto degli investimenti delle Big Six, ecco un altro dato significativo: Liverpool, West Ham, Brighton, Brentford, Newcastle e Nottingham Forest, società con budget e obiettivi molto diversi, hanno aggiornato il proprio record di spesa per un singolo calciatore. In merito a questa nuova impennata degli esborsi per i trasferimenti, un evento difficile da prevedere prima e durante la crisi congiunturale legata alla pandemia, le parole più significative sono state pronunciate da Chris Wood, vicedirettore dello Sports Business Group di Deloitte: «È evidente che i modelli di business dei club della Premier League siano in fase di rimbalzo vero l’alto dopo gli anni del Covid. Tutto questo è incoraggiante, ma è necessario avere un approccio equilibrato: i club devono bilanciare il loro desiderio di essere competitivi sul campo con la necessità di proteggere la redditività finanziaria e operativa a lungo termine».

È inutile ripassare la genesi e la crescita inarrestabile della Premier, come e quando si sia determinata questa incredibile distanza economica tra il campionato inglese e tutto il resto delle leghe calcistiche, di una superiorità che Miguel Delaney, su The Independent, ha definito «molto più ampia e destinata a durare rispetto a quella che la Serie A italiana esercitava negli anni Ottanta e Novanta». È più interessante capire come si esprime, a cosa porta, perché le operazioni come Winks alla Sampdoria in fondo sono una diretta conseguenza di quelle che riguardano i vari Antony, Darwin Núñez, Haaland, Koulibaly. Harry Winks è un signor centrocampista, ha soltanto 26 anni, è stato una colonna del Tottenham finalista in Champions League e ha giocato dieci partite in una Nazionale fortissima come quella inglese. Eppure è stato scartato – almeno momentaneamente, considerando che è stato ceduto in prestito – dagli Spurs esattamente come Lo Celso, passato di nuovo al Villarreal. E come Ndombélé, l’acquisto più caro nella storia del club – 60 milioni di euro pagati tre anni fa – che ora gioca nel Napoli, sempre in prestito. Al di là delle legittime valutazioni tecnico-tattiche fatte da Antonio Conte sui calciatori della rosa, sulla loro adattabilità al suo sistema di gioco, è evidente che gli Spurs possono permettersi questo approccio al mercato perché hanno comprato o avevano in rosa altri elementi di livello pari o superiore: Höjbjerg e Bentancur erano già in organico, poi è arrivato anche Bissouma dal Brighton in cambio di 35 milioni di euro.

È qui, in questo punto, che si manifesta il problema di squilibrio economico-finanziario segnalato da Chris Wood di Deloitte: il Tottenham ha dei ricavi – televisivi, commerciali, relativi al matchday e quindi complessivi – che gli permettono di assorbire senza problemi i soldi persi con Lo Celso e Ndombélé, sia quelli investiti per il cartellino che quelli messi a bilancio per i loro ingaggi. E quindi non si fa problemi ad acquistare giocatori senza proteggere la redditività finanziaria e operativa a lungo termine, se vogliamo utilizzare gli stessi termini tecnici. Lo stesso discorso vale anche per tutte le altre squadre di Premier League, ovviamente a vari livelli: secondo i dati rilevati da The Athletic, il Manchester City ha un monte ingaggi di 430 milioni di euro; l’Arsenal è a quota 283 milioni, l’Aston Villa spende 90 milioni, il Bournemouth neopromosso supera i 32 milioni. Sono cifre fuori scala per tutti gli altri club europei che non appartengono all’élite, ma sono in qualche modo proporzionate a quelle relative agli introiti: secondo la Deloitte Football Money League 2022, tra le venti società europee con il fatturato più alto ce ne sono addirittura dieci iscritte alla Premier League.

Il passaggio di Jack Grealish dall’Aston Villa al Manchester City, completato un anno fa, è l’affare più oneroso nella storia della Premier League: è costato 117,5 milioni di euro (Michael Regan/Getty Images)

In questa condizione di superiorità schiacciante, come detto, il mercato si increspa, si deforma: le valutazioni dei calciatori assumono un’importanza relativa, Antony viene pagato 100 milioni anche se Transfermarkt sostiene – cioè calcola attraverso un algoritmo – che il costo reale del suo cartellino sarebbe più basso del 65%; pure i ruoli e le funzioni in campo diventano secondari, e allora il Manchester United acquista Antony anche se in rosa ci sono già Sancho, Elanga, Diallo, Martial, Rashford e Cristiano Ronaldo, e allora il West Ham acquista Lucas Paquetá anche se in organico ha già Bowen, Cornet, Benrahma, Lanzini, Fornals. E così via, fino ad arrivare a situazioni al limite dell’assurdo come quella del Nottingham Forest, una neopromossa che non giocava in Premier dal secolo scorso eppure ha potuto investire 157 milioni di euro per un totale di 23 operazioni in entrata. Tra cui quella relativa al prestito Renan Lodi, terzino sinistro di 24 anni di proprietà dell’Atlético Madrid con 15 presenze nella Nazionale brasiliana: un profilo che avrebbe fatto comodo a tantissime squadre italiane, francesi o tedesche qualificate alla Champions o all’Europa League, e che invece ha accettato di lottare per la salvezza in Premier League. Difficile pensare che non siano arrivate altre offerte per lui. Facile, invece, pensare che sia stato proprio Renan Lodi ad accettare la proposta più vantaggiosa.

Il resto del calciomercato europeo, pur inevitabilmente soggiogato e quindi sottomesso da questa distanza ormai incolmabile con la Premier, ha iniziato a sviluppare gli anticorpi. A sfruttare la situazione a proprio vantaggio. In due modi diversi. Il primo, più elementare e quindi immediato, è il rigonfiamento dei prezzi. Abbiamo già citato diverse volte i 100 milioni spesi dal Manchester United per Antony, ma ci sono stati altri affari conclusi con le stesse sproporzioni tra valutazione reale, domanda e offerta: l’Aston Villa ha investito 40 milioni per Diego Carlos del Siviglia; il Brentford ha superato i 30 milioni per l’accoppiata di Serie A Hickey-Damsgaard; l’Everton ha speso 35 milioni per Onana del Lille, il West Han 35 per Aguerd del Rennes. Non siamo noi a dire che si tratta di cifre esagerate: secondo un articolo di The Athletic, per cui è stato sentito un direttore sportivo di Premier League che ha preferito rimanere anonimo, «spesso i club inglesi comprano dei calciatori spendendo molto di più del loro valore reale, e lo fanno senza rendersene conto».

L’altra conseguenza – più a lungo termine – è quella relativa al mercato degli scarti, che si trasferiscono ad altre squadre in prestito e/o/poi a titolo definitivo, per di più a prezzi vantaggiosi: Winks è solo l’ultimo esempio, abbiamo già detto di Ndombélé e Lo Celso, ma ci sono anche i casi di Pepé dall’Arsenal al Nizza, di Torreira dall’Arsenal al Galatasaray, di Reguillón dal Tottenham all’Atlético Madrid, di Tomori dal Chelsea al Milan, di Abraham dal Chelsea alla Roma, di Lukaku dal Chelsea all’Inter, di Anguissa dal Fulham al Napoli, di Alex Telles dal Manchester United al Siviglia, e ancora tanti altri che non possiamo citare per questioni di spazio. Insomma, la Premier League interpreta alla perfezione l’idea per cui il calcio ai massimi livelli sia un vero e proprio tritacarne di talento. Anzi, finisce per esasperare questa sensazione: è per questo che i giovani cresciuti nelle Academy locali stanno vincendo la storica reticenza dei britannici a trasferirsi all’estero e stanno iniziando a migrare fuori dal Regno Unito, soprattutto in Germania; è per questo che le Big Six, al di là di questo riciclo degli esuberi in prestito, stanno iniziando a scambiarsi i giocatori solo tra di loro. Il calcio inglese sta fagocitando il resto del mondo e anche un pezzo di sé, ha ricominciato a farlo in maniera ancora più vorace dopo che la bolla sembrava sul punto di scoppiare, causa pandemia, e invece è rimasta integra. Ora bisognerà solo capire fino a quando e fino a dove potrà portarci questo oligopolio di fatto, che ha già superato la minaccia della Super Lega e sembra difficile anche solo da scalfire, figuriamoci da rovesciare.