Cosa rimane di questa Serie A

Undici firme parlano della stagione appena conclusa: dalla crisi degli attaccanti italiani ai grandi addii, passando per vittorie inattese e delusioni.

Senza offendere

È stata la stagione della fine dell’attaccante italiano. Nei primi dieci della classifica marcatori gli italiani sono tre: Pavoletti (14 gol), Maccarone (13), Belotti (12) più Eder (13). E parlando sempre dei primi dieci attaccanti per gol, gli stranieri ne hanno segnati nel complesso 116 mentre gli italiani 52. La crisi si riflette nella difficoltà di Conte di avere una coppia certa di punte per Euro2016. Nella storia recente del nostro calcio non c’era mai stato un periodo così negativo. Abbiamo sempre avuto un ricambio generazionale degli attaccanti che permetteva di non perdere la media gol. Quest’anno no. La prova se volete sta anche questa in due numeri semplici: è stato l’ultimo anno di Di Natale e Toni, il primo lascia con 209 gol in Serie A, il secondo con 157. Nelle loro due stagioni prima di quest’ultima (hanno entrambi 38 anni e quest’anno le loro squadre o sono retrocesse o si sono salvate all’ultima giornata) hanno sempre segnato più di quanto abbiano fatto i migliori attaccanti italiani di questo campionato. (Giuseppe De Bellis)

GENOA, ITALY - MARCH 13: Ciro Immobile of Torino FC celebrates after scoring his second goal with team mate Andrea Belotti during the Serie A match between Genoa CFC and Torino FC at Stadio Luigi Ferraris on March 13, 2016 in Genoa, Italy. (Photo by Valerio Pennicino/Getty Images)
Ciro Immobile e Andrea Belotti festeggiano dopo una rete (Valerio Pennicino/Getty Images)

Roma: anno zero (forse)

Se ci fermassimo alla frase “la Terra gira sul proprio asse” avremmo del nostro pianeta un’immagine un po’ apatica rispetto al resto dell’universo, vagamente onanistica. Questo perché talvolta guardare le cose troppo da vicino non permette di fare i conti con ciò che gli anglofoni chiamano the bigger picture. Tanto più che la frase in questione è incompleta. A fare un consuntivo della stagione appena trascorsa della Roma ci si trova di fronte alle usuali considerazioni amletiche, sospesi tra bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno, a fare la conta di ciò che è mancato per puntare più in alto. L’annata appena conclusa, in particolare, ha in sè tutti gli ingredienti ‘storici’ che hanno contribuito a fare della Roma, negli anni, una squadra vorrei ma non posso: ci sono i numeri schizofrenici, si vedano l’incredibile ammontare di gol segnati e il bassissimo numero di sconfitte contrapposti all’elevato numero di pareggi, come a testimoniare una certa tendenza a finire in un limbo dove la vittoria, in un modo o nell’altro, sfugge. Poi c’è il discorso Europa, dove capita che si inciampi al cospetto delle grandissime ma che comunque si trovi la forza per rialzarsi. In più c’è la tendenza al dramma privato che diventa pubblico: un allenatore che prima era sugli scudi fa un capitombolo verso il basso e viene sostituito, una figura carismatica viene messa in discussione e riconquista gli allori a colpi di gesti leggendari. Tuttavia, davanti all’eterno ritorno di alcuni loop narrativi non sempre favorevoli, qualcosa sembra esser cambiato: il ritorno di Spalletti ha restituito sicurezza e risultati e soprattutto ha aiutato a concentrare l’attenzione verso il campo. L’impressione, a fine stagione, è che tutto ciò che era nato male e poteva finire peggio è finito tutto sommato bene. In altri anni probabilmente sarebbe finito in pasto ai demoni dell’esistenzialismo sportivo. Magari tutto ciò che si è ripetuto quest’anno è stato un veloce ripasso, giusto per prendere le misure a un moto di rivoluzione che sia pronto a completare la frase iniziale e riportare il pianeta Roma sulla strada che la porterà a circumnavigare il Sole. Chi è d’accordo nel vedere il bicchiere mezzo pieno, sa che magari non è soltanto un anno come gli altri, magari è l’anno zero. (Simone Vacatello)

ROME, ITALY - MAY 08: Radja Nainggolan (C) with his teammates of AS Roma celebrates after scoring the opening goal during the Serie A match between AS Roma and AC Chievo Verona at Stadio Olimpico on May 8, 2016 in Rome, Italy. (Photo by Paolo Bruno/Getty Images)

Le ambizioni delle tosco-emiliane

Un grazie alle tosco-emiliane per il buon calcio dispensato. Con le ascese di Sassuolo e Bologna fanno il paio le conferme di Empoli e Fiorentina, ma cosa è lecito aspettarsi in chiave futura? In Emilia, tra mozzarelle e mattonelle, è valso il “dimmi cosa vendi e ti dirò che progetto hai”. Bologna, in attesa di capire chi rimarrà tra Diawara, Masina e Donsah, sogna un’era-Sabatini. Nella speranza che il prestito del Giak si rinnovi, che la FIGC non contatti Donadoni e che Destro infili più gol che gialli. A Sassuolo, presa l’Europa con una rosa di “normali”, bisognerà integrare con gente di livello. Certo è che se Berardi raggiungerà Zaza, a poco serviranno i Politano e i Falcinelli: tra il Toro di Ventura e la Doria di Di Carlo il passo è breve. In Toscana hanno messo pressione ai nuovi allenatori tramite le eredità dei predecessori. Giampaolo, fatto il suo, si è già congedato. Con buona pace del Mac, è dura immaginare l’Empoli – a tratti la miglior manovra della A – senza Saponara, Paredes e Tonelli: cosa rimarrà di Sarri due anni dopo? In casa Della Valle, il sempre bello Sousa non ha fatto dimenticare Montella: ci sono quinti posti che, a volte, sanno di regresso. E se si tornasse, davvero, a Gomez-Rossi? (Alessandro Fabi)

Bologna's forward from Italy Emanuele Giaccherini(L)fights for the ball with Fiorentina's midfielder from Chile Matias Ariel Fernandez during the Serie A football match Bologna vs Fiorentina at "Renato Dall'Ara" Stadium in Bologna on Febrauary 6, 2016. / AFP / GIUSEPPE CACACE (Photo credit should read GIUSEPPE CACACE/AFP/Getty Images)
Emanuele Giaccherini si scontra con Mati Fernandez durante the un Bologna-Fiorentina di quest’anno (Giuseppe Cacace/Afp/Getty Images)

Perdere l’amore

L’estate è una stagione fastidiosa per un tifoso che pretende anche legittimamente di leggere stampa calcistica di qualità: i giornali di carta si riempiono di fastidiosi titoli urlati e affari millantati, le televisioni di scoop finti. Il calciomercato serve, però, a un obiettivo: quello di valutare con quanto entusiasmo seguire la stagione della propria squadra. Negli ultimi due anni avrò guardato sì e no 20 partite del Milan su 70. Questa stagione ero partito con una speranza ritrovata: il Milan aveva comprato uno dei migliori attaccanti del mondo, uno dei difensori italiani più promettenti, e un allenatore con un perché. Le cose sono andate in modo diverso. Guardare il Milan in tv in inverno, se le cose vanno male, è un’esperienza desolante: anche da uno schermo così piccolo si diffonde in casa il grigio novembrino milanese, il senso di freddo dei pochi spettatori sui seggiolini sporchi, la consapevolezza, a partire dal minuto 60, che se questo è il calcio che devo sopportare potevo anche guardare un film, leggere un libro, pulire casa, parlare con il gatto. Io, poi, empatizzo con i calciatori che mi sembrano più empatici: Carlos Bacca, che ha gli occhi tristi e forse avrebbe fatto meglio a scegliere una città più calda, una squadra più solida; Alessio Romagnoli, forse rimpiange di non essere rimasto a Genova, che almeno c’è il mare, o nella Roma che farà la Champions League; Alex, dopo anni di vittorie tra Chelsea e Psg, avrebbe potuto fare un’onorevole panchina in un Tottenham o un Lione o tornare in Brasile, anziché stare qui. Poi il dramma: la nomina di Cristian Brocchi, il tradimento a un allenatore discreto e onesto. La sua nota biografica, su Twitter, recita: «SE LA STRADA E’ LUNGA… INIZIA A CAMMINARE !!! NON PERDERE TEMPO!!!». Mi chiedo: ma sono cose da Milan, queste? Sono cose da squadra con “un progetto”? Non avevamo appurato che la cura del branding fosse un criterio fondamentale per questo “progetto”? Dicono che a Milano siamo viziati, poco passionali, molto razionali e utilitaristi. Bene: e io per quale motivo dovrei continuare a provare sentimenti verso una squadra che mi fa stare male? (Davide Coppo)

VERONA, ITALY - APRIL 25: Carlos Bacca of SC Milan in action during the Serie A match between Hellas Verona FC and AC Milan at Stadio Marc'Antonio Bentegodi on April 24, 2016 in Verona, Italy. (Photo by Pier Marco Tacca/Getty Images)
Carlos Bacca in azione durante la gara esterna contro il Verona dello scorso Aprile (Pier Marco Tacca/Getty Images)

Stagioni così

«Sono stagioni così, è inutile, non c’è niente da fare». Ha appena pareggiato Blanchard, e nella consueta chiamata post partita col mio amico assumo toni fatalisti. Ci sono anni in cui va tutto bene e vinci pure l’ultima di campionato – inutile – con gol del grande ex in casa dei rivali, all’ultimo secondo, quasi a sfregio. E altri in cui, dopo una rivoluzione estiva, prendi sempre gol al primo tiro in porta. Oppure stai per pareggiare al 90’ e il portiere avversario vola sotto l’incrocio per tenersi i 3 punti. Lui reagisce infastidito: «Non esistono le “stagioni così”, non andrà tutto l’anno in questo modo: oggi c’è una squadra che vince costantemente 1-0 col portiere che pare Yascin, mentre noi raccogliamo troppo poco. Girerà». «Girerà, ma per vincere è già tardi. Stiamo pagando tutto ora: il gol di Osvaldo, Pirlo all’ultimo secondo nel derby, Giaccherini col Catania, ancora Pirlo a Genova». Palo di Khedira a Milano, sconfitta a Sassuolo con punizione maradonesca di Sansone. Siamo lì, lontanissimi, io sempre più insopportabilmente fatalista e il mio amico – pur se non ottimista – insiste nel rimprovero: «Ma quale stagione così! Che fai, ti metti a credere al destino, alla sfortuna, agli dei del calcio e a queste scemenze?». Solo quattro giorni dopo, al 93’ di un derby giocato male, al telefono urliamo felici cose senza senso. E ora chissà. Perché, nonostante Blanchard, non esistono le stagioni così, in cui è inutile, in cui non c’è niente da fare. (Massimo Zampini)

FLORENCE, ITALY - APRIL 24: Players of Juventus FC celebrates the victory after the Serie A match between ACF Fiorentina and Juventus FC at Stadio Artemio Franchi on April 24, 2016 in Florence, Italy. (Photo by Gabriele Maltinti/Getty Images)

Riportare tutto a casa

A sentire Lotito nemmeno dovevano esserci, in Serie A. Invece Carpi e Frosinone ci sono state dignitosamente. Per un anno solo, ma c’è un chiaro paradosso nel calcio che celebra le favole degli altri e non vuole quelle (in proporzioni ridotte) proprie. Se due abitudinarie del pallone di massima serie come Udinese e Palermo (e anche un po’ la Samp) hanno tremato fino all’ultimo è perché Carpi e Frosinone hanno battagliato: il Carpi un po’ simulando la classica squadra di Serie A che a un certo punto in preda al panico ha liquidato l’allenatore dei miracoli (Sannino al posto di Castori, per poi tornare indietro), il Frosinone giocando anche bene, ma non in modo così pratico da potercela fare (però Stellone ha dimostrato di essere un allenatore emergente). Nessuna delle due ha mai pensato di poter andare oltre la propria dimensione da provinciale, ma non c’è mai stato l’atteggiamento da ospiti in casa altrui. Solo tanta cortesia trasformata in un pallone senza rabbia, il pretesto per aver qualcosa da raccontare. Il Carpi potrà dire di non aver perso nemmeno una volta a San Siro (pari sia con l’Inter che con il Milan), quella che chiamano la Scala di un calcio che sembrava nemmeno volerlo far entrare. Il Frosinone potrà dire di aver fermato la Juventus, alla quinta giornata, a dispetto dei fatturati. Ma, soprattutto, il Frosinone potrà dire di essere la squadra uscita dal campo con un’ovazione del suo pubblico, proprio nel giorno in cui il ritorno in B è diventato ufficiale. Con il permesso di Lotito, è una cosa nuova e bella da raccontare di questa Serie A. A presto. (Fulvio Paglialunga)

Il Frosinone retrocede tra gli applausi dei propri tifosi

Una questione privata

L’obiettivo dichiarato era il terzo posto – e non è stato raggiunto. Figurarsi il desiderio inconfessabile di vincere il campionato, accarezzato tuttavia sino alla diciottesima giornata di campionato, quando le legittime favorite sono risalite a prendersi il primato in classifica. Roberto Mancini è tornato ad allenare l’Inter per una questione privata: riscattare la sua prima stagione in nerazzurro. Allora, riuscì a riportare la squadra alla vittoria di due scudetti (sul campo), prima di essere esonerato per José Mourinho, l’uomo che con le sue vittorie abbaglianti ha finito per celare le sue. Mancini è tornato ad allenare l’Inter per affrontare questo corpo a corpo con il non riconoscimento, scacciare il fantasma di José, rendere giustizia a un passato che è passato troppo in fretta nella memoria nazionale, ma non nella sua. Quest’anno, è finito al quarto posto. Ha creato una squadra molto fisica, ricostruendo la difesa e rafforzando il centrocampo, ma non fino al punto di farlo splendere di gioco. In attacco, Mauro Icardi è cresciuto in personalità, non in gol (16 contro i 22 delle scorsa stagione). La squadra non è ancora all’altezza delle ambizioni di Mancini né di quelle dell’Inter. Per entrambi, vincere il campionato è solo il programma minimo – che lo confessino o no. La differenza è che l’Inter ha tempo. A Mancini, invece, è rimasto solo un anno: il prossimo. (Nicola Mirenzi)

Inter's coach Roberto Mancini looks on prior to the italian Serie A football match between Frosinone and Inter on April 9, 2016 at the Matusa Stadium in Frosinone. / AFP / FILIPPO MONTEFORTE (Photo credit should read FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)
Lo sguardo di Roberto Mancini prima di una gara contro il Frosinone (Filippo Monteforte/Afp/Getty Images)

I brevi addii

Anche la leadership ha bisogno di rinnovarsi. Con l’addio al calcio di alcuni dei protagonisti del calcio italiano, l’ultimo campionato segna il passaggio del testimone della fascia di leader. L’Atalanta, per esempio, ha salutato Giampaolo Bellini dopo diciotto anni di onorato servizio. Così Manuel Pasqual, undici stagioni di lotta alla Fiorentina. Via Totò Di Natale, undici lunghi anni a Udinese, e via Luca Toni, tre con addosso la maglia del Verona, ma spesso uomo imprescindibile, trascinatore e bomber. Cambiano i leader, i capo guida, quelli dal grande carisma. Andrà via da Bologna Archimede Morleo, capitano dimenticato, che del gruppo rossoblù lo è stato per anni tra retrocessioni, promozioni e annate mediocri, e sempre più ai margini sono finiti l’ex capitano Angelo Palombo (tredici anni alla Samp), i leader Massimo Maccarone (quindici stagioni a Empoli), Miro Klose (quattro anni alla Lazio), Sergio Pellissier (quindici al Chievo) e perché no il silenzioso Christian Abbiati (quindici al Milan) che un addio così non se lo immaginava. Non è diverso per Francesco Totti, ventitré anni alla Roma, nonostante le illuminanti apparizioni. Ultimo baluardo, comunque, di una generazione di capitani coraggiosi. (Giorgio Burreddu)

Il saluto di capitan Bellini ai suoi tifosi

Cambiare tutto

Il bello del calcio è che tu puoi fare di tutto per raggiungere un obiettivo eppure questo ti può sfuggire. Maurizio Zamparini, per esempio, ha cercato in ogni modo di scendere in Serie B, ma alla fine il Palermo si è salvato nonostante la peggiore delle controprestazioni dell’anno. È colpa dei nove cambi in panchina, ma non solo. Il crollo dei rosanero affonda le sue radici in una serie di campagne acquisti-cessioni che sono andate a indebolire sempre di più la squadra. L’ultimo grande colpo di Zamparini è stato Paulo Dybala, arrivato nell’estate del 2012 e rivenduto tre anni più tardi per 40 milioni alla Juventus. Poi una serie di scommesse che non hanno pagato in entrata (da Lafferty a Quaison) e scelte sbagliate in uscita (Belotti, forse, era meglio tenerlo, piuttosto che cederlo per 7,5 milioni a una potenziale concorrente come il Torino). Quest’anno Hiljemark, Trajkoski e Djurdjevic hanno messo insieme nove gol in tre, e per restare in A è servita tutta l’esperienza di Alberto Gilardino. L’anno prossimo, probabilmente, partirà anche Franco Vázquez, forse pure Lazaar. Se si impegna, stavolta, Zamparini ce la fa, a retrocedere. (Gabriele Lippi)

PALERMO, ITALY - MAY 15: Franco Vazquez of Palermo celebrates after scoring the opening goal during the Serie A match between US Citta di Palermo and Hellas Verona FC at Stadio Renzo Barbera on May 15, 2016 in Palermo, Italy. (Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images)

Droni e Moka

Il caffè, la tuta, i droni, la banca, la sigaretta. Maurizio Sarri era imprigionato in un brainstorming da ombrellone, in un Ruzzle (ma ve lo ricordate Ruzzle?) di luoghi comuni e oggettistica extracalcistica. Ancora: la gavetta (come quell’altro, come si chiamava? Ah sì, Mazzarri) e la scommessa. Anzi, le scommesse: vuole Hysaj e Rugani, vuole fare del Napoli l’Empoli, e chissà cos’altro. Inizia il campionato: vince una sola partita nelle prime cinque, perde alla prima, pareggia a Empoli e Carpi. È subito fuori dal campionato che conta, e allora ancora, caffètutadronibanca ma stavolta peggio, non ammiccando, solo con semplice avversione. Poi è successo che abbiamo dato per scontato Sarri. L’abbiamo dato per scontato quando si è smesso, finalmente, di accostarlo a questo o a quel concetto, e quando si è iniziato a vedere in lui un allenatore preparato, abile a leggere gare e avversari, illuminante quando c’è da sgrezzare o perfezionare un giocatore. L’abbiamo dato per scontato, non l’abbiamo fatto neppure con l’Higuaín degli inediti 36 gol in campionato, non con il miglior Insigne che si ricordi, non con il sorprendente Koulibaly, non con gli ex carneadi Allan e Hysaj, non con il ritrovato Jorginho, tutta roba a cui ha contribuito in modo determinante. Ha lasciato partite bellissime da riguardare quando ci annoieremo ad agosto, come le vittorie contro Juventus e Fiorentina o il 4-0 in casa del Milan, e soprattutto, numeri alla mano, il miglior Napoli di sempre, per record di punti (82), vittorie (25) e reti stagionali (106). Non sono stagioni che si improvvisano. E forse nemmeno da dare per scontato. (Francesco Paolo Giordano)

NAPLES, ITALY - APRIL 19: Head coach of Napoli Maurizio Sarri looks on during the Serie A match between SSC Napoli and Bologna FC at Stadio San Paolo on April 19, 2016 in Naples, Italy. (Photo by Maurizio Lagana/Getty Images)
Maurizio Sarri prima di un match del suo Napoli (Maurizio Lagana/Getty Images)

Una babele rossoblù

Da anni ormai, il Genoa ha declinato il proprio imprinting societario alla costruzione di Babele scomponibile a piacimento. Il problema sorge quando i mattoni che vengono sottratti e ri-aggiunti ogni anno non calzano alla perfezione nel progetto dell’architetto che l’ha realizzato. Questa babilonia ligure ha trovato le propria stabilità grazie ai disegni tattici di Gian Piero Gasperini: nonostante il tecnico piemontese si trovi a dover ricomporre ogni volta una serie di enigmi ed equazioni sempre differenti, solo grazie alla sua dedizione possiamo ancora guardare alla Genoa rossoblù come alla silhouette attraente di una ragazza ancora affascinante. Dopo aver chiuso sesto lo scorso anno, fuori dalla Uefa per la mancanza della licenza, Gasp ha visto sgretolarsi pezzo dopo pezzo il suo impianto vitale. Via Antonelli, Perotti, Niang, Sturaro, Kucka, Matri, Iago Falque; dentro Ansaldi, Suso (a gennaio), Gabriel Silva, Pandev, Cerci, Dzemaili. Gasperini è sempre riuscito a ridisegnare la forma esatta prima che il disordine e il rumore di fondo prendessero il sopravvento sul resto. Consegna due giocatori (Izzo e Pavoletti) nei pre-convocati per l’Europeo e pazienza se i punti in meno rispetto all’anno scorso sono 13. Senza Gasp, probabilmente, la torre sarebbe già crollata. (Oscar Cini)

Il derby della Lanterna vinto dal Genoa per 3-0