Mamba mentality

Kobe Bryant è arrivato a Milano per il Mamba Mentality Tour, organizzato da Nike, raccontando il modo in cui si forgia una leggenda.
di Francesco Paolo Giordano 22 Luglio 2016 alle 15:03

Gli è rimasta la smorfia sul viso. Quella di chi sa di spuntarla. Quella di gara 7 contro i Celtics nel 2010; quella del buzzer beater contro i Suns nel 2006; quella degli 81 punti contro i Raptors. Kobe Bryant non ha addosso la maglia gialloviola numero 24 quando compare davanti alla stampa nel quartier generale Nike di Milano. Però quella maglia compare in filigrana, nei movimenti, nei gesti e nella smorfia, appunto. È la Mamba mentality, e non è un caso che il tour organizzato da Nike abbia proprio questo nome. Bryant ha una sobria t-shirt bianca, padroneggia la situazione, si sente a suo agio e saluta i presenti nella lingua che ha imparato da piccolo: «Ciao, come state?».

Non è ancora scattato, nelle nostre teste, il pensiero che Bryant non giocherà mai più su un parquet Nba, e in un paio di occasioni esclude possibili ripensamenti. Forse perché il Bryant-pensiero è più importante, incisivo e avvolgente del Bryant-giocatore. Kobe ha giocato la sua ultima partita da professionista ad aprile, congedandosi con 60 punti messi a referto contro Utah, eppure circa due mesi dopo, nella partita più importante della stagione Nba, il suo nome è riecheggiato. «Mamba mentality», la sintesi di Kyrie Irving sul suo tiro da tre che ha indirizzato gara 7 delle Finals a favore dei Cavs. «Molti non prendono un tiro del genere», sorride Kobe quando glielo fanno notare.

Bryant maglia

Un enorme ritratto di Bryant nella città cinese di Shenyang (STR/AFP/Getty Images)

Scherza, Kobe. Si dice contento di non giocare più per rispondere a chi gli chiedeva cosa pensasse del trasferimento di Durant a Golden State, o quando indica un collega che monopolizza il microfono delle domande e dice: «Mamba mentality». Bryant, insieme a Flavio Tranquillo di Sky Sport, ne snocciola le parole chiave: passione, ossessione, competizione, resilienza, superamento delle paure. Che poi è quello che abbiamo visto per 20 anni, su e giù lungo il parquet, nel fare sempre, e costantemente, la stessa cosa. E che Kobe sintetizza in un’espressione: absolutely focused.

Utilizza lo stesso aggettivo quando ricorda la tensione del prepartita, dove non c’era spazio per nessun pensiero che non fosse legato alla gara. Elenca le avversità di due decenni di Nba, che non hanno il nome di giocatori ma di elementi anatomici: spalla, ginocchio, dita. Gli infortuni si legano alle paure, e alla consapevolezza che esistono e vanno accettate. Quando nel 2013 si ruppe il tallone d’Achille temeva di non poter più giocare. Per poi svegliarsi una notte e pensare: devo tornare.

Bryant ritiro

Kobe Bryant circondato dai fotografi al termine della sua ultima partita Nba, lo scorso 13 aprile (Sean M. Haffey/Getty Images)

Le domande, è inevitabile, vertono in gran parte sul futuro immediato, sulla vita dopo il ritiro. Kobe risponde che è molto impegnato: c’è la pallacanestro, stavolta da insegnare, e promette che l’Italia sarà una delle tappe privilegiate per farlo, e poi la scrittura. Ricorda il momento in cui ha deciso di ritirarsi: un momento, appunto, 15 minuti di frenesia e malinconia disseminate su un iPhone, diventati poi la bellissima lettera con cui ha detto addio al basket. Ma il basket, forse, non è ancora pronto a dire addio a lui.

 

Nell’immagine in evidenza, Kobe Bryant in una delle apparizioni pubbliche dopo il ritiro (Noel Celis/AFP/Getty Images)
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