Il libro Herr Pep ricostruisce la stagione 2013/2014, la prima di Pep Guardiola come allenatore del Bayern Monaco. Uno degli spunti più interessanti colti dall’autore, il giornalista Marti Perarnau, riguarda la grande modifica strategica pensata dal tecnico catalano per la sua nuova avventura: «Pep si decise a costruire una versione molto più ambiziosa del gioco di posizione. Si trattava di un’interpretazione decisamente rischiosa, che richiedeva un’elevatissima padronanza di qualità tecniche. L’idea di base era generare superiorità attraverso appoggi verticali anziché orizzontali». È la descrizione di un adattamento: in Baviera, Guardiola ha dovuto confrontarsi con un ambiente tattico nuovo, soprattutto ha dovuto rapportarsi con giocatori dalle caratteristiche fisiche e tecniche molto diverse rispetto alla sua avventura con il Barcellona. La sua flessibilità, la sua inventiva e la forza dei suoi uomini gli hanno consentito di costruire un sistema che ha prodotto ottimi risultati ed eccellenti sensazioni estetiche, che ha permesso di assecondare con successo lo sviluppo naturale dei contesti e delle idee.
Questo racconto è espandibile all’evoluzione del gioco intesa in senso assoluto, un processo basato sui principi di azione, reazione e interazione: i modelli calcistici hanno un ciclo vitale relativamente breve, fatalmente legato alle contromisure pensate per neutralizzarli e alle qualità degli atleti che li rappresentano. I più rivoluzionari e vincenti sopravvivono al tempo e lasciano eredità incancellabili, ma sono comunque destinati ad aggiornarsi in base a nuovi parametri, a nuove esigenze. È così che si innescano i cambiamenti, che esplodono le innovazioni e si affermano le nuove teorie di riferimento.
In Russia, durante il Mondiale, abbiamo assistito a una transizione di questo tipo, che ha (ri)portato al centro del discorso tattico un modello sistemico e verticale. Una novità significativa rispetto alle ultime due edizioni della kermesse iridata, che avevano premiato un’idea di calcio diversa, sempre sistemica ma più ragionata, orizzontale, orientata al possesso palla, come ha spiegato anche Jonathan Wilson sul Guardian: «Dopo le due Coppe del Mondo vinte dalla Spagna e dalla Germania, squadre che traducevano in campo le filosofie post-Cruijffiane, ora siamo in una fase di correzione, di contaminazione. È una circostanza che non ha portato il juego de posición all’irrilevanza, piuttosto ha riconosciuto l’esistenza di altri stili potenzialmente efficaci».
Il Real Madrid di Zidane, ovvero come sfruttare le qualità in campo aperto dei calciatori (all’interno di un sistema)
Nello stesso articolo, si legge: «In passato la Coppa del Mondo è stata una sorta di vetrina per le teorie tattiche più innovative. Oggi la grande sofisticatezza del calcio di club ha cambiato la percezione del torneo, i commissari tecnici lavorano per poco tempo con elementi strategicamente già formati, e non possono ricorrere al calciomercato per acquistare calciatori dalle caratteristiche precise». Anche questo è un punto importante dell’analisi: il gioco verticale è più semplice da preparare, anche per squadre di qualità tecnica inferiore, quindi si adatta perfettamente a una competizione di breve durata, a gruppi di atleti che non hanno avuto tempo e modo di lavorare insieme sulla meccanizzazione tipica del gioco di possesso. Una filosofia che, invece, rappresenta ancora un riferimento importante per il calcio di club, seppure con declinazioni diverse, sempre più fluide, tendenzialmente universali per quanto riguarda le attribuzioni dei giocatori e meno dogmatiche rispetto alle modalità di costruzione della manovra. Allo stesso modo, però, un modello di gioco diretto può essere anche sistemico e quindi iper-organizzato, non va banalizzato secondo la vecchia improvvisazione della combo difesa-e-contropiede, piuttosto secondo criteri moderni per cui la transizione positiva è legata a strutture difensive e connessioni preparate in allenamento, che tendono ad esaltare il talento individuale dei calciatori offensivi in campo aperto.
La questione vive quindi su due livelli, che si intrecciano tra loro: il primo riguarda le contingenze pratiche e il momento storico generale, di cui abbiamo appena parlato; il secondo è relativo alla qualità dei calciatori, che si esprime in base al loro valore assoluto e alla condizione del momento. Il Telegraph ha utilizzato questa chiave per raccontare le inattese eliminazioni della Germania e della Spagna, le due ultime regine: «I convocati di Löw e quelli di Lopetegui – poi gestiti da Hierro – non erano chiaramente all’altezza dei loro predecessori. Per quanto riguarda la Mannschaft, era evidente come la squadra non riuscisse a riprodurre la stessa intensità del 2014, tanto che gli avversari si sono resi conto della possibilità e hanno trovato la miglior soluzione: rimanere compatti in difesa, per poi attuare rapide ripartenze». È il processo di evoluzione calcistica che si sta concretizzando, soprattutto per successione naturale: un modello di gioco imperniato su una certa generazione di campioni è risultato facilmente contrastabile, fino a diventare battibile, quando questa generazione ha preso a sfiorire – oppure ha offerto prestazioni al di sotto di un certo standard.
Il gioco verticale della Francia è costruito intorno a Kylian Mbappé
Con questi presupposti era inevitabile l’affermazione di un’ideologia diversa, di tipo verticale. Per spiegare questo stilema calcistico, basta riavvolgere il nastro del Mondiale, fino alle semifinali: le quattro squadre arrivate alla soglia dell’ultimo atto hanno approcciato la manifestazione con una proposta di gioco basata su uno sviluppo diretto della manovra, ovviamente declinato secondo specifiche diverse. La Francia è stata definita da Jonathan Wilson, sul Guardian, una «fluent attacking unit», mentre su Undici Simone Torricini ha parlato di «una squadra a suo agio quando gli avversari gli concedono di attaccare in campo aperto». La strategia di Deschamps è elementare eppure strettamente legata alle doti dei suoi elementi più pregiati, primi tra tutti Mbappé e Griezmann: per esaltare la loro capacità di ribaltare velocemente il fronte d’attacco, il ct dei Blues ha rinunciato a un regista classico e a un esterno associativo come Dembélé, ha inserito Giroud come riferimento per la risalita rapida del campo e ha abolito il gioco articolato in fase costruzione.
Una scelta similare, anche se meno totalizzante, è stata fatta anche dal ct della Croazia Zlatko Dalić, che ha deciso di sfruttare le letture avanzate di Modrić e Rakitić per alternare il dominio del possesso palla a uno sviluppo più immediato, ideale per poter lanciare gli uomini offensivi (Rebić, Kramarić e Perisic dietro alla prima punta Mandžukić) in spazi larghi. Il Belgio e l’Inghilterra hanno invece puntato su modelli ibridi, in questo senso Martínez e Southgate si sono dimostrati molto flessibili rispetto alle caratteristiche dei calciatori a loro disposizione: il ct dei Diavoli Rossi ha costruito un sistema fluido, che ha permesso a Lukaku, De Bruyne e soprattutto Hazard di ricevere il pallone in zona avanzata e puntare immediatamente la porta avversaria, in situazione di transizione ma anche per concretizzare una manovra più ragionata, secondo il principio dell’isolamento per l’uno contro uno; l’ex allenatore dell’Under 21 inglese ha messo in campo una squadra che non rinuncia mai a far partire l’azione da dietro, ma accelera subito dopo, «alzando gli esterni bassi in avanti e permettendo alle due mezzali di aumentare il peso specifico dell’attacco, basato sulla coppia atipica Kane-Sterling» (Giorgio Coluccia, su Undici). Sono due nuove interpretazioni del gioco di posizione, progetti di derivazione disegnati seguendo una traccia verticale: la soluzione utopica pensata da Guardiola si sta materializzando sui campi del torneo più prestigioso.
Una buona azione verticale, in una partita discretamente importante
Anche i dati più specifici confermano queste tendenze, individuali e quindi collettive: Hazard ha un profilo moderno, associativo, eppure è il calciatore più efficace della Coppa del Mondo per il gioco in transizione, con sei azioni totali in ripartenza (passaggi e/o dribbling) sulla lunghezza media di 40 metri. In questa particolare classifica, stilata dal Financial Times, il fantasista del Chelsea è seguito da Rebić, Modrić, Mbappé, Pogba e Marcelo, tutti calciatori inseriti in sistemi tattici diretti – anche il Brasile eliminato dal Belgio ha praticato un calcio verticale, per esaltare al massimo le doti di Neymar. È una rivoluzione in corso, per cui la Francia finalista ha una media di Expected Goals di 2,1 nelle partite in cui ha avuto il dato del possesso a sfavore, mentre la stessa quota scende fino a 0,7 nelle partite in cui ha tenuto palla con una percentuale superiore al 50%. La statistica è trasversale, ricorre oltre la nazionale di Deschamps: al termine degli ottavi di finale, appena 16 partite su 56 sono finite con una delle due squadre in campo capace di superare il 65% del possesso palla. Di questi match, solo cinque hanno visto trionfare la squadra che ha tenuto di più la sfera.
Il Mondiale ha probabilmente accelerato una transizione tattica e culturale già avviata da un po’, in qualche modo può sancire la fine di un’epoca, come ha spiegato anche Francesco Paolo Giordano su Undici dopo l’eliminazione della Spagna: «La lentezza della manovra, il venir meno di giocatori chiave, la mancanza di alternative e la scarsa ricerca della punta in avanti hanno sancito l’eliminazione a fuoco lento delle Furie Rosse: dieci anni fa il tiqui-taca era una ventata d’aria fresca, oggi è stantio e superato». Sebbene il gioco di posizione resti un riferimento primario, l’evoluzione della tattica sta scoprendo nuove possibilità e nuove applicazioni, sta subendo l’influenza degli anni che passano, che cambiano le cose. E che hanno già svezzato i nuovi fenomeni contemporanei, calciatori in grado di garantire la pulizia e la precisione di ogni gesto tecnico anche in un contesto ipercinetico, per cui l’intensità non risiede solo nel possesso in spazi stretti ma vuole esplorare la profondità, e vuole farlo velocemente, sistematicamente. Una pretesa ambiziosa che rappresenta il futuro del gioco, già nel presente.