La Serie A è un luogo mistico per i grandi attaccanti

Ibrahimovic, Tévez e Icardi, poi Cristiano Ronaldo: l'albo d'oro del premio "Miglior Giocatore Assoluto" al Gran Galà del Calcio mostra come il campionato italiano perfetto per esaltare centravanti fortissimi, dominanti, in grado di trascinare le proprie squadre.

Quella del “culto della difesa” è stata la chiave narrativa più semplice, diretta e immediata attraverso cui, negli anni, abbiamo raccontato – e ci siamo fatti raccontare – la Serie A e le sue squadre di riferimento. Lo è stata soprattutto in una fase storica in cui il momento sociale, economico e culturale del nostro calcio sembrava aver imposto una sorta di ridimensionamento al fu campionato più bello del mondo. In (teorica) assenza dell’appeal e del richiamo esercitato dalla presenza dei grandi giocatori offensivi, dei campioni generazionali che dominavano le domeniche degli anni Novanta a suon di gol, insistere sulla narrazione legata all’intensità, alla fisicità, alla dimensione tattica e reattiva del gioco, è sembrata la scelta più logica per trovare il meglio del nostro campionato. Che, proprio in virtù di questo, restava il più difficile del mondo, visto che era abitato dai migliori esponenti della scuola difensiva più efficace, quindi più complicata da superare.

Negli anni, la distanza tra la Serie A e le altre grandi leghe europee, soprattutto la Premier, non si è ridotta. Questo però non significa che quello italiano sia da considerarsi come un campionato più difensivo – e, quindi, più noioso, se si volesse ragionare banalmente per assiomi – rispetto agli altri tornei europei. Tutt’altro: un recente studio dell’osservatorio CIES ha dimostrato come, a partire dalla stagione, 2009/10, ad aumentare non è stata solo la media di gol realizzati a partita, ma anche quella relativa al numero delle occasioni create dalle squadre nel corso dei 90 minuti, con dati in linea – se non superiori – con quelli dei principali campionati del Vecchio Continente. Inoltre, anche il tempo effettivo di gioco è tra i più alti in Europa.

Negli ultimi anni, infine, anche l’idea di un’Italia calcistica che non è più in grado di attrarre i grandi talenti offensivi stranieri ha finito con il rivelarsi un fastidioso luogo comune: nell’estate 2018 l’arrivo di Cristiano Ronaldo alla Juventus ha rinvigorito la tradizione degli attaccanti che, per legittimare il proprio status e/o per cementare definitivamente la propria legacy, hanno scelto di provare a imporsi nel contesto italiano. Il portoghese lo ha fatto alla sua maniera, riscrivendo primati personali e di squadra: 78 gol in 98 presenze, record per numero di partite consecutive a segno nel 2019/20 – 11, come Batistuta e Quagliarella. E poi capocannoniere nella stagione 2020/21 a quota 29, primo calciatore della storia a diventare top scorer in tre delle top cinque leghe europee. Dopo Ronaldo, è toccato a Lukaku, la pietra angolare su cui Antonio Conte ha edificato la ricostruzione di una mentalità vincente all’Inter, l’autore dei 47 reti in 72 partite che hanno trascinato l’Inter la squadra nerazzurra al secondo posto e poi allo scudetto; poi è stata la volta di Victor Osimhen, che al netto di diversi infortuni si è imposto subito come un attaccante straripante per non dire dominante, molto al di là di cifre comunque significative sotto porta (un gol o un assist ogni 115 minuti di gioco).

Perciò non è un caso che, dal 2011, in ben cinque occasioni sia stato proprio un grande attaccante straniero ad aggiudicarsi il titolo di “Miglior calciatore assoluto AIC”, il più prestigioso tra i premi che ogni anno l’Associazione Italiana Calciatori assegna – al Gran Galà del Calcio – tramite i voti di allenatori, arbitri, giornalisti, ma soprattutto dei giocatori stessi: parliamo di un riconoscimento che non riguarda tanto – o non riguarda solo – il numero di gol realizzati, ma che risulta connesso alla leadership, alla qualità dell’impatto di un singolo all’interno di un sistema, alla capacità di essere il centro tecnico ed emotivo, riconosciuto e riconoscibile, di una squadra vincente.

Se parliamo di leadership e impatto in una squadra vincente, il primo pensiero va ovviamente a Zlatan Ibrahimovic, a ciò che il fuoriclasse svedese fu in grado di fare nella stagione 2010/11, quando vinse il suo terzo premio di miglior giocatore assoluto – un record, detenuto in coabitazione con Andrea Pirlo – dopo aver trascinato il Milan di Massimiliano Allegri allo scudetto. In una squadra che, nel corso dei mesi, vide alternarsi in avanti Ronaldinho, Cassano, Pato, Robinho e Inzaghi, lo svedese divenne immediatamente l’unico insostituibile, colui che faceva funzionare tutto e che impose ad Allegri il passaggio al 4-3-1-2 con Boateng trequartista atipico a sfruttare gli spazi che lo stesso Ibra riusciva a creare per sé e per gli altri, quasi per il solo fatto di essere lì.

Ibra era lo spauracchio da agitare contro le difese avversarie anche nelle giornate meno buone, il grande leviatano in grado di cannibalizzare una competizione ben oltre il dato dei 16 gol (sui 71 di squadra) nell’anno solare 2011: quell’Ibrahimovic era il migliore perché rendeva migliori tutti quelli intorno a lui, nella riproposizione del concetto americano dell’MVP, il “most valuable player” da cui tutto passa e tutto scorre. Quello che ti fa vincere, non perché realizza 14 gol e 12 assist in 29 gare di campionato, ma perché si impone come leader tecnico e psicologico di un gruppo che è stato in grado di portare al suo stesso altissimo livello.

Il meglio di Ibra nella stagione 2010/11

Nel 2015 c’era sempre Allegri, stavolta sulla panchina della Juventus, quando toccò a Carlos Tévez porre fine al regno di Pirlo, vincitore del premio “Miglior calciatore assoluto AIC” per tre edizioni consecutive del Gran Galà del Calcio, dal 2012 al 2014. L’argentino, preceduto dalla nomea di giocatore ormai nella fase declinante della carriera, dopo una sola aveva già esaurito i quartieri di Buenos Aires cui dedicare i suoi gol: 39 in 66 gare di A, 20 in un 2014/2015 in cui non si riusciva a capire quanto labile fosse il confine tra forza e crudeltà, tale e tanta era l’impressione che fosse lui a decidere quando e in che modo vincere. Come contro il Genoa il 22 marzo, in una partita che la Juventus sblocca grazie a una manifestazione di pura brutalità calcistica, dal primo di due dribbling spezza-caviglie al destro che spacca la porta, letteralmente.

Quell’istante, l’istante del gol, di quell’attimo in cui tutto assume forma e sostanza, è lo stesso cui pure Mauro Icardi ha consacrato una vita e un’intera carriera da attaccante essenziale eppure tremendamente efficace, anche se oggi in molti sembrano aver dimenticato il suo talento, la sua capacità di cambiare in un istante le partite. Eppure l’eccezionale anno 2018 – in cui vinse il premio di “Miglior calciatore assoluto AIC” – racchiuso nella sua maglia numero 9 esibita a mo’ di Sacra Sindone sotto la Curva Nord, al culmine di un derby e di una stagione in cui era stato uno e trino, non è poi così lontano:

29 gol in una stagione

Poi è toccato a Ronaldo, vincitore del premio nel 2019 e nel 2020, alla sua maniacale e mefistofelica ricerca della perfezione, alla sua costante sfida al limite da raggiungere prima e superare poi che si è sostanziata in quei momenti di superiorità robotica che possono essere suoi e suoi soltanto, il gol di Empoli, il lampo nella notte di Jeddah, la sfida vinta contro la forza di gravità a Marassi, la fuga per la vittoria contro la Roma in Coppa Italia, il curl che sigilla il nono scudetto consecutivo nella metà stagione più difficile e straniante di tutte: «Ricordo il gol di testa alla Sampdoria, a mio parere il mio gol di testa più bello, ne sono sicurissimo. Voglio ringraziare i miei compagni perché senza di loro non sarebbe stato possibile ricevere questo premio. E poi tutti i colleghi che hanno votato per me come miglior giocatore dell’anno. Penso che la costanza, la fiducia nei propri mezzi, il lavoro, la passione, siano il segreto per continuare a godersi il calcio. Questo è l’aspetto più importante, ciò che mi dà le giuste motivazioni. E questi elementi devono coesistere tutti i giorni, altrimenti è impossibile giocare a questi livelli». I livelli dei miglior attaccanti che poi vengono premiati come i migliori giocatori in assoluto. Anche nel campionato dove si continua a celebrare il culto della difesa, nonostante tutto.