Se gli nomini Trapattoni, ti risponde a bruciapelo: «Numero uno». È Carlo Ancelotti, l’allenatore sul cui impero non tramonta mai il sole. Come Carlo V. Come i cinque principali campionati europei che ha sul petto come medaglie. Unico al mondo. Ha trionfato in Italia, Inghilterra, Francia, Germania e sabato scorso in Spagna. In qualsiasi altro Paese sarebbe osannato da tempo, anche sfruttato mediaticamente per provare a nascondere la decadenza del movimento calcistico nazionale. In Italia invece (e non solo a Napoli) era stato dato per finito. In questi giorni i media si sono affannati a sbianchettare la narrazione del declino che gli era stata frettolosamente appiccicata. Un comportamento simile a quelle persone che vanno in cantina a recuperare il vecchio arnese che nel frattempo è tornato di tendenza.
Bollito o pensionato per i meno rispettosi; superato per chi ancora ha il gusto delle buone maniere. Il succo è lo stesso. In Italia Ancelotti era considerato démodé. Termine non casuale considerato il personaggio che ha una genetica allergia alle mode. Che sia la nouvelle cuisine o l’esasperazione della costruzione da dietro. Ebbene sì, l’allenatore che ha vinto tutto quel che c’era da vincere non ha un suo calcio. Allena con lo stesso approccio di un amministratore delegato quando arriva in un’azienda, che è pagato per allestire l’organizzazione del lavoro più efficace per i dipendenti che ha a disposizione. Lui fa lo stesso. Modella le sue idee sui calciatori che ha. Non il contrario. Figlio di contadini, non può mai pensare che la teoria sia superiore alla pratica.
È un figlio dell’Italia profonda. La puzza della strada, per dirla alla Robert De Niro, non l’ha mai dimenticata. E gli piace, eccome se gli piace. Gli apre i polmoni. Nel resto del mondo Ancelotti è considerato il tipico prodotto di lusso made in Italy: altissima qualità, invidiata ovunque, che garantisce il risultato quasi senza rischio. È un italiano da esportazione. Non a caso, tranne la fugace esperienza di Napoli, ha lasciato il nostro calcio nel 2009 e da tredici anni è conteso dai principali club europei, vere e proprie multinazionali del pallone in cui lui si trova a proprio agio come i grandi manager.
Milan, Chelsea, Psg, Bayern e Real Madrid. Ancelotti ha una dote rara per i nostri tempi: non professa il culto della propria personalità. Ha cominciato a giocare verso la fine degli anni Settanta eppure non ritiene di essere depositario della verità. Sa di pallone e sa come si sta al mondo. Ha la statura diplomatica di un ambasciatore. È la persona ideale per lavorare con miliardari egotici che hanno nei club di calcio uno dei loro giocattoli preferiti. Allo stesso tempo è capace di condurre le squadre al successo e far credere ai presidenti che sia stato merito loro. Sempre una parola in meno piuttosto che una di più. Sui principi del suo lavoro, però, non deroga. Ha lavorato con i più grandi club e con loro ha pure rotto. Quasi sempre perché non si è piegato a diktat presidenziali.
Dal punto di vista puramente calcistico, Ancelotti non è inquadrabile. Allergico alle mode, bada al raccolto. Volendo sintetizzare e giocare sul filo della provocazione, è un rinnegato. È nato e cresciuto nella culla dell’avanguardia, tra Nils Liedholm (il suo maestro) e Arrigo Sacchi che lo volle fortemente prima al Milan come calciatore e poi in Nazionale come assistente. Un italiano che praticamente non ha mai giocato a uomo. E infatti da allenatore nacque dogmatico. A Parma disse no a Roberto Baggio perché non sapeva dove piazzarlo. Ed ebbe problemi con Gianfranco Zola. Finché alla Juventus si ritrovò spalle al muro: doveva trovare spazio a Zidane senza sacrificare Inzaghi e Del Piero. E non aveva vie di fuga. Qui emerge il profilo dell’italiano che fa fortuna all’estero. Le crisi vissute come opportunità per abbattere i propri schemi e ampliare gli orizzonti. Ancelotti abbandonò l’armatura ideologica, cominciò a vincere e non si fermò più. Oggi dichiara (e lo pensa) che Simeone si è difeso benissimo contro il City di Guardiola, che per lui i portieri devono saper innanzitutto parare con le mani, che si sente a suo agio tutti dentro l’area di rigore a difendersi. È come il colonnello Kurtz di Apocalypse Now: ha scavalcato la staccionata. Sta dall’altra parte, senza aver smarrito le conoscenze della prima vita.
Per lui non fa differenza se un gol è preceduto da venti passaggi o da cinque. E a dirla tutta gli dà più soddisfazione segnare in tre tocchi. Quasi blasfemia per l’ideologia calcistica imperante. In Italia uno come Karim Benzema sarebbe considerato un eversore – oltre che un incompetente – per le dichiarazioni rilasciate a L’Équipe: «Non so come la gente veda il calcio, avere il possesso palla non significa che stai dominando». Per fortuna di Ancelotti, Benzema non fa l’opinionista ma il centravanti del Real Madrid. Un giorno, nel corso della sua prima esperienza alla Casa Blanca, Sacchi andò a trovare Ancelotti e gli manifestò il proprio garbato disappunto per la blanda fase difensiva di Cristiano Ronaldo. Carlo abbozzò, non se la sentì di replicare all’uomo cui tanto deve e cui tanto è affezionato. Ma in cuor suo fece lo stesso pensiero di Mazzone quando trovò dei cani sul campo di allenamento a Brescia e infuriato gridò: «Di chi sono questi cani? Non voglio cani all’allenamento». “Mister, sono di Baggio”. «E allora che aspettate, date loro dei biscottini». A Ronaldo non disse mai nulla. Il portoghese magari copriva poco, in compenso quell’anno segnò 48 gol in Liga. Ci avrebbero pensato altri a difendere per lui.
In fin dei conti Carlo Ancelotti è un teorico del calcio che ha finito col convincersi che gli imprevisti della vita incidono più degli schemi. Che a decidere i destini sono gli uomini, e che le frecce disegnate su una lavagna da sole non possono bastare. Del resto ha dovuto prendere atto che la miglior finale di Champions che abbia mai disputato come allenatore, è finita agli avversari dopo aver vinto il primo tempo 3-0. Quel che nella narrazione dominante è considerato un tradimento, in realtà è un arricchimento. Prepara meticolosamente le partite e poi lavora per semplificarle ai suoi calciatori. Gli sono rimasti pochi dogmi. Uno è che al giocatore bisogna dare poche informazioni: più chiare sono, meglio è. Altrimenti va in confusione. L’altro è che il calciatore dev’essere lasciato libero di esprimersi. All’allenatore spettano le linee guida, dopodiché gli assoli e gli acuti vengono stabiliti in autonomia. È un principio cardine del credo ancelottiano: il calciatore ha scelto questo lavoro perché gli piace giocare a pallone. Sembra una ovvietà. Non lo è. Se perde il gusto di giocare, si spegne.
Un aneddoto del grande Milan chiarisce la differenza di stile tra lui e Sacchi Per l’Arrigo il divertimento era una variabile non fondamentale. Lui ricercava la perfezione. Dopo qualche mese che era al Milan, i calciatori – stufi di sostenere solo allenamenti estenuanti e anche noiosi – chiesero al tecnico di poter disputare a fine seduta la classica partitella. Volevano divertirsi. Sacchi diede il suo assenso. Ma quando arrivava il momento delle casacche, spariva. Andava via. La considerava una perdita di tempo. In un incontro pubblico a tre con Guardiola, il profeta di Fusignano lo rimproverò più o meno bonariamente di non essere tormentato dal demone della perfezione. Di non esserne ossessionato. È così, non c’è concetto più lontano dal suo modo di essere. Sa sin troppo bene che l’uomo è un legno storto. Proprio pensando a Guardiola e al libro Herr Pep sulla sua esperienza al Bayern ci viene in mente che se si trovasse a cena con Kasparov, Ancelotti non penserebbe mai di tormentarlo sul perché avesse deciso di non sfidare più il campione del mondo Carlsen. Tutt’al più lo guiderebbe alla scoperta dei segreti del tortellino. E magari Kasparov, a fine serata, sentendosi a casa, gli avrebbe rivelato il proprio tormento.
Nessuno riuscirà a convincerlo che si vince e si gioca in un solo modo. Che le idee e i principi vengono prima delle persone. Non a caso l’anticomunista Berlusconi è orgoglioso di lui. Ha una naturale predisposizione alla gestione delle risorse umane, soprattutto di gruppi di calciatori zeppi di primedonne. È incuriosito dal genere umano, dai difetti, dalle stranezze, dalle storie di vita. Uno dei suoi principi cardine è che siamo innanzitutto persone. Poi, di lavoro puoi essere calciatore o allenatore. E lui cerca innanzitutto il rapporto con la persona. Se vi trovaste a chiacchierare con lui, potreste imbattervi nella frase «a giocar bene sono bravi tutti, il difficile è vincere». Vincere mettendo insieme calciatori che magari non potrebbero mai giocare insieme. Il difficile è riuscire a inserire Kaká in un contesto che sembra intoccabile. È convincere Di María a fare quasi l’interno di centrocampo pur di alzare la decima Champions del Real Madrid. È mettere insieme le tessere di un puzzle che sembra impossibile da realizzare.
È stato talmente in anticipo rispetto ai tempi che quando il calcio mainstream è diventato costruzione dal basso e possesso palla, lui ha professato la verticalità e a Stamford Bridge ha gridato a Courtois di rinviare lungo su Benzema. «Abbiamo il centravanti più forte del mondo, diamo la palla a lui». Se lo può permettere. È uno dei tecnici più amati dai calciatori. A patto che siano professionisti. Il professionismo per lui è una pre-condizione. Insegna calcio, non comportamento all’asilo di infanzia. È un allenatore che dà per assodato che si lavori tutti nella stessa direzione che è quella di migliorarsi per provare vincere. Da anni parla di concetti che potremmo definire da Super Lega individuale. È convinto che in futuro il calciatore andrà al campo di allenamento solo per le nozioni tattiche. Come avviene nell’Nba. Considera la preparazione atletica collettiva un residuo del Novecento. Con quello che guadagnano, gli atleti cureranno il proprio fisico come credono. La visione padronale è un lascito del calcio da Borgorosso. Le flessioni, la fatica per rendere di più. Concetti che resistono soltanto in Italia che non a caso salterà il Mondiale per la seconda volta di fila.
Ancelotti non appartiene ad alcuna scuola di pensiero. Né vuole fondarne una. Gioca col personaggio del nonno. In realtà, ovviamente, è un divoratore di novità, molto attento ai cambiamenti tattici e non solo. Ha uno staff di giovanissimi, di nerd: il figlio Davide, Francesco Mauri, il genero Mino Fulco, Simone Montanaro. Assistere alle loro riunioni è uno spasso, continue frecciate che riflettono le differenze generazionali. Si diverte a dichiarare che contano solo due statistiche (gol fatti e gol subiti) ma è noto nel settore della tecnologia calcistica come uno degli allenatori più sensibili alle ultime opportunità offerte dalla tecnologia. Quando si è trovato nel pantano, con una squadra considerata vecchia e una prospettiva di crisi a medio termine, Florentino Pérez non ha avuto dubbi e ha richiamato lui. Qualcuno gli contesta che sono bravi tutti a vincere con quelle squadre, come se fosse semplice guidare una monoposto di Formula Uno. Senza dimenticare la sera in cui condusse il Napoli a battere in Champions il Liverpool campione d’Europa, con la difesa a tre e mezzo, Maksimovic a destra e Mário Rui contro Salah. Qualcuno sussurra che San Gennaro cominciò a ingelosirsi e se la legò al dito.