Miracoloso Madrid

Per molte volte il Real era sul punto di perdere, ma alla fine ha vinto. Grazie ad azioni bellissime e fortunate, alla forza e all'esperienza dei suoi campioni.

La parata con cui Thibaut Courtois ha sigillato – anzi: ha legittimato – la quattordicesima Champions League della storia del Real Madrid è stata il gesto tecnico più importante della finale di Parigi. Sì, quella giocata è stata più importante anche del gol di Vinícius che la finale l’ha decisa, nella misura in cui ha evidenziato l’appartenenza del portiere belga a una categoria diversa e ulteriore e superiore: quella dei giocatori vincenti, che si stagliano sugli altri. Del resto si tratta di una parata non isolata, che fa il paio con quella di piede su Grealish nella semifinale di ritorno al Bernabéu contro il Manchester City, soprattutto se ne facciamo una questione di reattività, coordinazione, capacità di opporsi in maniera funzionale ed efficace a una conclusione ad altissima percentuale: Salah era riuscito a mettersi nelle condizioni migliori possibili per calciare – pur se con il piede teoricamente più debole – grazie a un favoloso primo controllo, eppure Courtois riesce a restare in piedi fino all’ultimo momento utile, chiudendo alla perfezione il primo palo e quasi obbligando l’egiziano a calciare in modo che la sua respinta con il braccio destro risulti più semplice di quanto in realtà non sia, tanto più su un tiro da distanza ravvicinata da parte di un avversario lanciato in velocità.

Il giorno dopo The Athletic ha descritto la parata di Courtois come la dimostrazione della differenza che passa tra una decisione corretta e i tempi di approccio alla stessa, quindi della differenza che passa tra Courtois e qualsiasi altro portiere del mondo in questo momento: «Proprio mentre Salah tira indietro il suo piede destro per tirare, Courtois alza leggermente le mani ed è già pronto a intervenire. È nei momenti cruciali, con la partita in palio, che si vede davvero di che cosa è fatto un portiere e, con il risultato della finale di Champions in bilico, Courtois ha curato tutto nei minimi dettagli per permettere alla sua migliore qualità – i riflessi – di brillare». La parata su Salah e le altre parate di Courtois, insomma, appartengono allo stesso gruppo dei gol di Benzema, degli assist d’esterno di Modric, dei tackle di Casemiro, delle geometrie di Kroos o delle accelerazioni elettrificate di Vinícius. Solo che il Real Madrid – questo Real Madrid, ma anche diverse edizioni del passato – ha una caratteristica unica: riesce a tirare fuori certe mosse sublimi nei momenti decisivi delle partite decisive. Quando sembrava avesse già perso o anche quando meritava di perdere. 

Si può dire, si deve dire. Perché è successo diverse volte, in questa Champions League, che il Real Madrid abbia dovuto riprendere delle partite che sembravano essergli sfuggite di mano: dopo la “ronaldata” di Mbappé al Parco dei Principi, nel momento dello 0-3 di Werner al Bernabéu a un quarto d’ora dalla fine, o quando il lampo di Mahrez ha portato avanti il Manchester City nel return match di Madrid, sublimando una superiorità del City che era stata a tratti persino imbarazzante, se teniamo conto del livello complessivo e del contesto. Ogni volta, però, il Madrid è riuscito a riemergere, ad andare oltre sé stesso e i suoi limiti, a far valere la forza e il peso di una grandezza senza tempo, attraverso congiunzioni spazio-temporali irripetibili che poi però si sono ripetute con regolarità, portando con sé quella sensazione di ineluttabilità che ha caratterizzato l’errore di Donnarumma sul primo dei tre gol in 17’ di Benzema, il “solito” miracolo di Courtois su Havertz ad evitare lo 0-4, il salvataggio sulla linea, oltre la fisica e la logica, di Mendy su Grealish con la palla che poi sbatte sull’unica parte del piede destro di Foden che permette alla stessa di non entrare, il palo interno che sputa fuori il tiro di Mané deviato quel tanto che basta da un portiere contro cui, a un certo punto, non era possibile segnare.

E questi erano solo i miracoli che “riguardavano” gli avversari, perché poi ci sono quelli compiuti dai giocatori di Ancelotti: per ogni parata senza senso di Courtois c’è un Modric che taglia d’esterno il campo e l’intera linea difensiva avversaria come fosse la cosa più naturale del mondo, per dare a Rodrygo il pallone che pareggia la doppia sfida col Chelsea e schiude le porte dei supplementari, tra l’altro con un tiro al volo dolcissimo e pure letale; per ogni salvataggio sulla linea di Mendy c’è ancora Rodrygo che piazza un uno-due degno di Muhammad Ali a Kinshasa contro il Manchester City, una volta sfruttando un assist golosissimo di Benzema e un’altra volta di testa, un istante dopo che Asensio e Laporte hanno mancato la deviazione per questione di millimetri; per ogni Mbappé che sembra pronto a prendersi il trono di miglior giocatore del mondo e per ogni Messi che sbaglia un rigore (sì, nel match di Parigi è successo anche questo, ma chi lo ricordava?) c’è un Benzema uno e trino che segna una tripletta da sogno contro il Psg e poi segna ancora due gol all’Etihad Stadium, prima con una girata che potrebbe fare da copertina di un’ideale Manuale dell’attaccante in area di rigore, e poi con un cucchiaio irriverente, anche un po’ pensato. Nel return match contro la squadra di Guardiola non gioca benissimo, anzi sembra giocare a nascondersi, ma al minuto 90′ mette Rodrygo davanti alla porta spalancata, poi all’inizio dei supplementari si conquista e segna un calcio di rigore.

Scelta azzeccata per il titolo di questo video: Real Madrid Greatest Champions League Comebacks 2022

No juegues con El Rey recitava uno striscione esposto al Bernabeu prima della gara contro il Chelsea: ecco, in quell’avvertimento a non giocare con il re, c’era (e c’è) tutto ciò che significa avere a che fare con un avversario così consapevole. Se anche i tifosi scrivono certe cose, è praticamente inevitabile che l’unica chiave utilizzata per raccontare l’ultimo trionfo madridista sia quella legata per lo più concetti immateriali o non dimostrabili: i miracoli, appunto, e poi una non meglio precisata mistica, l’imponderabile che si materializza sotto forma di sliding doors prese sempre dalla parte giusta nel momento giusto, il destino che quasi sembra non poter far altro che sorridere sempre alla stessa squadra in una sorta di maledizione di Bela Guttmann alla rovescia, persino il culo di Ancelotti evocato anche solo per assonanza con il ben più famoso e risalente culo di Sacchi, il tutto nel trionfo di un calcio situazionista che si oppone all’utopia del controllo totale portata avanti, in modi e tempi diversi, da Klopp e Guardiola. Un calcio, perciò, in cui pare basti avere un portiere forte che para, un attaccante altrettanto forte che segna e un allenatore che riesce a mettere tutto assieme per avere successo, nell’eterno ritorno del primato dei giocatori sul gioco, della tecnica individuale sulla tattica collettiva, dell’imprevisto sul piano partita esposto alla lavagna la mattina della partita: «Il Real non era la squadra più forte della Champions, eppure ha battuto tutti. Non sempre vince la squadra migliore» ha detto Lionel Messi in un’intervista a Tyc Sports, quasi a voler sottolineare come la bellezza intrinseca risieda appunto in quella componente astratta che permette alle grandi squadre di vincere anche quando ci sarebbero tutte le condizioni per perdere.

Naturalmente non è tutto qui, non può essere tutto qui. La fortuna – «Non ho mai visto qualcuno vincere senza averne», ha detto Carlo Ancelotti – e l’irrazionale sono parte integrante del calcio, in fondo sono il motivo per cui seguiamo fino alla fine partite apparentemente già decise perché non si sa mai, ma non possono essere considerate come le uniche variabili che contano davvero, altrimenti non avrebbe senso continuare a investire risorse e professionalità nello scouting, nel player development, nella match analysis, negli onerosi contratti pluriennali dei grandi allenatori, in tutto ciò che rende gli attuali club di riferimento un modello per programmazione e metodologie di lavoro.

Eppure più ci riguardiamo indietro e più il percorso disegnato dal Real Madrid sembra essere uscito da un libro fantasy, e allora bisogna andare oltre la forza enorme di una squadra già leggendaria, la vittoria come normalità per i vari Modric, Benzema, Kroos e anche Ancelotti, bisogna pescare nella storia che racconta di una circolarità eterna di vittorie, di una specie di limbo di astrazione e indeterminatezza dove sono ancora vive e vivide le rovesciate di Bale e Cristiano Ronaldo, gli errori di Karius, i colpi di testa salvifici di Sergio Ramos nel recupero, il tiro deviato di Casemiro a Cardiff, la volée di Zidane a Glasgow, i sette gol di Di Stéfano e Puskas all’Eintracht Francoforte, Mijatović che segna in fuorigioco anzi no contro la Juventus, il taconazo di Redondo a Old Trafford, Raúl che fugge solitario verso Cañizares per segnare il gol del 3-0 al Valencia di Cúper, nello stesso stadio e nella stessa porta in cui, più di vent’anni dopo, Vinícius segnerà quello dell’1-0 al Liverpool di Klopp. È la storia che si ripete, è il mito dell’eterno ritorno, è la spiegazione a qualcosa che non riusciamo a spiegarci pur essendocelo già spiegato tante altre volte, è il Real Madrid che vince con i miracoli dei suoi giocatori. Come al solito, come sempre. Oggi come allora, basta e avanza.