Le atlete che stanno cambiando il modo in cui pensiamo al benessere mentale nello sport

Lo sport femminile ha avuto un merito su tutti: quello di sollevare questioni, aprire dibattiti. Dall'equal pay alla salute mentale, le atlete di ogni disciplina vogliono cambiare paradigmi e rappresentazioni ormai desueti.

La più importante delle libertà di cui un lavoratore può disporre è quella di rifiutarsi di lavorare, un rifiuto che può essere segno di protesta (lo sciopero) o strumento di autoconservazione (la malattia). Nonostante ci ripetiamo spessissimo che lo sport è un settore lavorativo e quello dello sportivo un mestiere, ogni volta che succede qualcosa che ci dimostra questi fatti, la prendiamo male. Uno sciopero indetto da degli sportivi non è davvero uno sciopero perché il loro non è davvero un lavoro, ci diciamo, e anche se l’obiettivo è il miglioramento della loro condizione, per noi l’unica cosa che ottengono è l’interruzione del nostro divertimento, il sabotaggio del nostro svago, cose che ci sono dovute in quanto veri lavoratori, noi. Una protesta decisa da degli sportivi non è davvero una protesta perché loro non hanno nessun motivo per essere scontenti: sono ricchi e famosi, e ricchezza e fama – per chi non le possiede – immunizzano da ogni male del corpo e della mente. Soprattutto da quelli della mente. In una società che oppone ancora grandissima resistenza all’idea di trattare la mente – la cura, il benessere e il malessere della stessa – come parte del corpo, l’idea che degli sportivi, i corpi per eccellenza, possano negarsi al loro mestiere e alla nostra attenzione perché incerti della condizione della loro mente è semplicemente inaccettabile. Se si tratta di sportive, poi, di giovani atlete soprattutto, pregiudizi vecchi e nuovi si mescolano e il discorso frana nel luogo comune: le donne fragili (isteriche, insicure), le giovani pigre (viziate, inaffidabili). 

Per alcuni (soprattutto maschi), il dibattito che tante giovani atlete stanno portando avanti sull’importanza di proteggere la mente dai pericoli dell’ipercompetitività e dell’ultraesposizione è semplicemente inaccettabile. Per altri, addirittura incomprensibile. Passando il dito dentro le pieghe dei discorsi denigratori con cui questa nuova priorità viene ridicolizzata ce lo si ritrova sporco dei rimasugli di misoginia così difficili da eliminare nello sport e nella società. È come se le atlete dovessero accettare certe spiacevolezze dello sport in cambio della partecipazione allo stesso, una cortesia, una concessione, che non si perde mai occasione di ricordare, di insinuare. Fosse per noi, sostengono implicitamente alcuni (soprattutto maschi), non esisterebbe una WNBA perché tanto le donne non schiacciano. Dipendesse da noi, non ci sarebbe una WTA perché le femmine non battono forte come i maschi. Lo chiedessero a noi, la Serie A femminile non esisterebbe perché le ragazze vanno troppo piano rispetto ai ragazzi. Eppure queste cose ve le abbiamo date, dicono segretamente alcuni, e ora ci tocca ascoltarvi mentre ci spiegate tutte le ragioni per le quali a queste condizioni non volete giocare più.

Rispetto a quello sulla salute mentale, l’altro grande discorso portato avanti dallo sport femminile, quello sull’equal pay, era facile da capire. Si trattava di rivendicazioni sindacali, dispute salariali che rientrano nella normalità di qualsiasi settore lavorativo. Alex Morgan e Megan Rapinoe che guidano una class action contro la Nazionale degli Stati Uniti sono, da certi punti di vista, un segno di normalità. Vogliono giocare proprio come i maschi e guadagnare proprio come i maschi. I loro problemi esistono all’esterno, nel sistema di cui fanno parte, e le loro rivendicazioni sono collettive, appartengono alla sfera pubblica.

Ma altre atlete – Raven Saunders, Naomi Osaka, Simon Biles, Simone Manuel, Sha’Carri Richardson – hanno fatto una cosa diversa: hanno ammesso in pubblico una questione privata, un problema che è parte di loro, e ne hanno fatto una rivendicazione personale, una pretesa di rispetto che si deve davanti alla malattia anche se questa malattia è ancora difficile ufficializzarla con un certificato medico. Eppure, le cifre oramai riconosciute dovrebbero bastare: secondo Athletes for Hope, un’associazione che si occupa di favorire l’incontro tra sportivi filantropi ed enti di beneficenza, il 35 per cento degli atleti professionisti, nel corso della carriera, affronta almeno una “mental health crisis”, una percentuale che sale drasticamente nel caso in cui gli atleti, oltre che professionisti, siano anche donne e nere. Forse il problema sta nel modo in cui, in passato, ci siamo abituati a intendere questa crisi, o la ripetizione di queste crisi, come la prova del fuoco nel quale l’élite dello sport viene forgiata. Tutti abbiamo letto Open di Andre Agassi, ma l’immagine del ragazzino costretto ad affrontare «il drago» – la macchina lanciapalle costruita da suo padre Mike per far sì che il figlio colpisse quel milione di palle all’anno che ne avrebbero fatto matematicamente un campione – alla fine, nella nostra mente, viene sempre sostituita da quella di Andre Agassi, appunto. Recentemente c’è stato anche l’esempio di King Richard, biopic sul padre delle sorelle Williams e sull’ossessione grazie alla quale ha trasformato Serena e Venus nelle sorelle Williams, appunto. Una delle critiche che il film ha ricevuto è stata proprio quella di escludere dal racconto il punto di vista delle ragazze, di trascurare le conseguenze dell’ossessione paterna sulla loro salute mentale. Non è un caso che in Italia la questione sia stata risolta a partire dal titolo scelto per la distribuzione nazionale: Una famiglia vincente

Una delle ginnaste più forti e vincenti di sempre, Simone Biles ha vissuto a Tokyo, nel corso degli ultimi Giochi, giorni complicati: decidendo di ritirarsi da alcune gare dove era data tra le favorite, ha raccontato come volesse mettere la propria salute mentale al primo posto. Biles è stata anche vittima delle violenze dell’ex medico Larry Nassar: «Sono orgogliosa di me stessa e sono felice di poter essere una leader per le sopravvissute e dare coraggio a chi decide di parlare, sono felice di essere una voce» (Lionel Bonaventure / AFP)

Cosa sarebbe successo se Agassi avesse raccontato tutto in una conferenza stampa post partita invece che in un’autobiografia scritta da ex giocatore? Il giorno in cui Naomi Osaka, durante il Roland Garros, si è rifiutata di partecipare al rito delle domande è stato il giorno in cui la discussione sulla salute mentale degli sportivi professionisti è diventata dibattito pubblico. Mondiale. Ne hanno parlato non solo gli addetti ai lavori dello sport ma anche tutti gli altri: un elenco esaustivo degli articoli e dei saggi dedicati a Osaka e alle sue parole sull’ansia, sulla depressione, sulla terapia (anche farmacologica) è impossibile, basti pensare che la tennista giapponese è stata invitata a scriverne sul Time (“It’s ok not to be ok”, 9 luglio 2021).

Le reazioni furono le solite, alcune prevedibili, altre meno. Billie Jean King, vera e propria leggenda del tennis femminile, commentò la decisione di Osaka dicendo che sì, la salute mentale degli atleti è importante, e che certo, essere personaggi pubblici nell’epoca dei social media è difficile (soprattutto se donne e di colore), ma che è anche importante «mettersi a disposizione dei media» perché «siamo tutti sulla stessa barca», voi che avete la psiche a pezzi e loro che hanno bisogno di un lancio stampa. Che saranno mai un paio di domande a cui rispondere, insomma.

In un pezzo dell’1 giugno 2021 pubblicato su The Athletic, Kavitha A. Davidson fece una cernita del meglio che le fosse capitato di sentire durante le conferenze stampa post partita di tennis. Nel 2004, a Wimbledon, un reporter chiese alla diciassettenne Maria Sharapova cosa ne pensasse del suo «pin-up girl status». Nel 2016 un giornalista chiese a Eugenie Bouchard della gravidanza di un’altra giocatrice («Sapevi che ci fosse qualcuno che potesse metterla incinta?»). Nel 2018, Bill Simons di Inside Tennis, intervistando Serena Williams, disse di aver aspettato quattordici anni per farle una domanda. E la domanda era se avesse ragione Donald Trump quando diceva che nella finale di Wimbledon del 2004 lei avesse perso contro Sharapova perché intimidita dalla bellezza da supermodella di quest’ultima. Visti questi esempi, si capisce perché il presidente della Federazione Francese di Tennis, dopo il ritiro di Osaka dall’Open di Francia, convocò una conferenza stampa in cui disse la sua in francese, poi in inglese e poi se ne andò senza rispondere a nessuna domanda. Con lui non si arrabbiò nessuno. 

Quelle di Billie Jean King sono diventate le parole usate per spiegare anche la natura generazionale del dibattito sulla salute mentale. Sono soprattutto le giovani donne che portano avanti la discussione, conseguenza di trasformazioni socio-culturali (il movimento MeToo) che hanno cambiato il modo in cui queste atlete intendono ed esercitano il loro potere: di autorappresentazione, di autoconservazione. Simone Biles è diventata una portavoce di questo movimento non ufficiale, il volto di una compagna spontanea. Durante le Olimpiadi di Tokyo ha deciso di non salire in pedana e di rimanere ai bordi della stessa a tifare per le sue compagne di squadra. Temeva per la sua incolumità, per quei “vuoti” detti twisties che rendevano pericolosi gli esercizi. Ma, soprattutto, sentiva che quegli stessi esercizi ormai non la divertivano più, che in certi momenti tutto quello che le restava della sua vita dedicata alla ginnastica erano pezzi di metalli preziosi esposti in una bacheca, paure nella testa e traumi nella memoria.

La velocista americana Sha’Carri Richardson non ha potuto partecipare ai Giochi di Tokyo perché trovata positiva al Thc durante un controllo antidoping, poche settimane prima dell’inizio della manifestazione. Richardson ha raccontato di aver fatto utilizzo di cannabis per evitare gli attacchi di panico che l’avevano colpita dopo la morte della madre. In quel periodo complicato, aveva twittato: «I am human». (Patrick Smith/Getty Images)

Che Biles, una sopravvissuta ai soprusi e alle molestie di Larry Nassar, sia stata accusata anche lei di aver aderito al cosiddetto “culto della fragilità” dice tutto della qualità della discussione sulla salute mentale nello sport. «Vivere quello che ho vissuto per tutti quegli anni, indossare una maschera, sono orgogliosa di me stessa e sono felice di poter essere una leader per le sopravvissute e dare coraggio a chi decide di parlare, sono felice di essere una voce, per loro. Non essere più in grado di fare qualcosa che ho sempre fatto a causa di ciò che mi è successo è pazzesco, perché io questo sport lo amo davvero. È dura, mi dispiace. Non credo la gente capisca le difficoltà che sto affrontando». Di tutte le cose che Biles ha detto da Tokyo in poi, quest’ultima frase resta sempre la più sconvolgente.

Se è vero che la depressione è uno dei mali del secolo, se è vero che i disturbi portati dall’ansia e gli attacchi di panico e dal burnout lavorativo sono la condizione quotidiana di moltissime persone, perché è così difficile accettare che la condizione quotidiana delle atlete, degli sportivi in generale, sia la stessa?

Simone Manuel, oro alle Olimpiadi di Rio nel 100 metri stile libero, l’anno scorso ha detto di essere stata «costretta» a fermarsi perché le era stata diagnosticata la sindrome da sovrallenamento: depressione, ansia, insonnia e perdita d’appetito. Raven Saunders, pesista statunitense arrivata quinta ai Giochi brasiliani, ha confessato di aver avuto un esaurimento nervoso nel 2018: «Non facevo più niente per me stessa, lo facevo per le persone nei confronti delle quali mi sentivo in debito». Sha’Carri Richardson non ha potuto partecipare alle Olimpiadi di Tokyo perché risultata positiva al Thc durante un controllo antidoping. Disse di aver usato la marijuana per calmare gli attacchi di panico di cui aveva sofferto fin dalla morte della madre, avvenuta una settimana prima dei Trials americani che aveva stravinto e che ne avevano fatto una delle favorite per i cento metri alle Olimpiadi. «Non giudicatemi, sono soltanto un essere umano, l’unica differenza tra me e voi e che io corro un pochino più veloce», disse in un’intervista a Today, popolarissimo morning show americano.

E in effetti, la cosa che stupisce di tutto il dibattito sulla salute mentale nello sport è quanto in certi momenti appaia “banale”. Simone Biles sta migliorando (anche) grazie alla retail therapy – lo shopping terapeutico – e a un’app che si chiama Cerebral (di cui è diventata chief impact officer, perché lei è pur sempre Simone Biles). A Raven Saunders è servita una pausa, tutto qui: ora comincia a stare meglio. Il tempo si è posato anche sul lutto di Sha’Carri Richardson, e ora il dolore è meno forte e c’è meno bisogno di attenuarlo. Naomi Osaka è tornata a giocare a tennis, cosa che ora sa di voler fare perché è certa che «mi rende felice». Forse, alla fine, tutta il dibattito sulla salute mentale sta in una frase scritta proprio da Osaka in quell’editoriale per il Time: «In qualsiasi altro settore lavorativo, non sarebbe un problema prendersi un giorno di ferie ogni tanto».