È arrivato il momento di mettere in discussione Ciro Immobile?

E se il miglior marcatore della storia della Lazio non fosse più il centravanti giusto per la Lazio?

Lecce-Lazio dello scorso 20 agosto è una stata una di quelle partite che di solito metto su per tenermi compagnia mentre sono impegnato a fare altro in giro per casa, o mentre sto lavorando davanti al computer. Più che guardare la partita, la ascolto. E quindi la immagino secondo una versione riveduta, corretta e personale a partire della telecronaca, cullando l’illusione che la mia attenzione possa focalizzarsi su due o più cose contemporaneamente. Quando Ciro Immobile ha segnato la rete del provvisorio 0-1 – un tocco sotto misura in scivolata su assist d’esterno di Luis Alberto, togliendo il tempo di intervento al portiere che era uscito a chiudergli lo specchio della porta – il flusso distratto dei miei pensieri è stato interrotto dalla voce di Riccardo Gentile che ricordava come quello fosse il 197esimo gol di Immobile con la maglia della Lazio. Istintivamente il primo pensiero è stato quello che il telecronista di Sky Sport avesse riportato un dato errato; in fondo Immobile aveva appena iniziato la sua ottava stagione da centravanti della Lazio e, a certi numeri, un attaccante di Serie A arriva dopo almeno dieci anni ad altissimo livello per qualità e continuità delle prestazioni – Antonio Di Natale, per esempio, ha impiegato dodici stagioni per segnare 227 gol con l’Udinese (191 in Serie A) tra il 2004 e il 2016. Per di più Immobile era reduce da due annate segnate da problemi sempre più frequenti al bicipite femorale e alla caviglia, da microinfortuni lo avevano costretto a saltare oltre 30 partite complessive dopo che, tra il 2016 e il 2022, soltanto in 19 occasioni non era potuto scendere in campo per un infortunio. Quindi sì, doveva per forza esserci un errore.  

E invece, dopo un rapido controllo, mi sono reso conto che non c’era nessun errore, che Riccardo Gentile aveva ragione e che Ciro Immobile aveva davvero segnato 197 gol con la Lazio. Significava che, da quando era arrivato a Roma nell’estate del 2016, aveva segnato in media almeno 28 gol a stagione. Ancora più spaventoso il dato riferito alla carriera in Serie A: dopo la rete (su rigore) contro il Monza, Immobile si è consolidato all’ottavo posto della classifica dei migliori marcatori all time della storia della Serie A con 197 gol in 328 partite. Di questi, soltanto 32 sono stati segnati con un maglia diversa, spalmati nell’arco di due stagioni e mezzo con Genoa (5) e Torino (27). 

Statistiche alla mano, quindi, non esistono dei motivi validi per non considerare Immobile uno degli attaccanti più forti della storia della Lazio, tra i più prolifici di sempre nella storia del calcio italiano, uno di quelli per cui i gol si contano e si pesano avendo segnato tanto, sempre, comunque e contro chiunque, che si trattasse di vincere un trofeo o di conquistare un piazzamento che valesse l’Europa; e magari, se fosse calcisticamente vissuto nell’epoca in cui i centravanti dovevano solo segnare, con tutta probabilità parleremmo e scriveremmo di Immobile allo stesso modo in cui, ancora oggi, parliamo e scriviamo dei Vieri, dei Crespo, dei Batistuta, dei Filippo Inzaghi. Eppure se a cadenza regolare ci troviamo quasi ogni anno a interrogarci sul suo posto nel mondo e nella storia, come se si trattasse dell’imbucato dell’ultimo minuto ad un party esclusivo cui non era stato invitato, è proprio per via del paradosso che deriva da questo equivoco col tempo: Immobile è un centravanti di ieri che deve fare la differenza nel calcio di oggi. Un ambiente in cui un giocatore che si limita a fare gol e che esaurisce i suoi compiti nell’ultimo terzo di campo non esiste più – eccezion fatta per Erling Braut Haaland, che però segna più o meno 50 gol a stagione e gioca in una squadra unica al mondo.

In quest’inizio di stagione, tra Lazio e Nazionale, Immobile ha segnato tre gol in sette partite. E se consideriamo l’incredibile occasione sprecata contro l’Atlético Madrid e i tre legni colpiti nelle cinque gare di campionato (429 minuti disputati sui 450 disponibili), possiamo dire che a livello numerico e di presenza in area di rigore le sue prestazioni sia comunque in linea alle attese. Tuttavia il dibattito che lo riguarda è più vivo che mai. E, per la prima volta, sta riguardando anche il suo status di inamovibile, anzi di indiscutibile per eccellenza, all’interno dell’ambiente Lazio: dopo l’1-1 con il Monza, Valon Behrami ha detto che «un Immobile può essere importante pure se parte dalla panchina, anche solo per una questione prettamente fisica. Si gioca ogni tre giorni, l’età cambia, il recupero e più lento e inizia a diventar dura». Qualche giorno prima, Paolo Di Canio si era spinto addirittura oltre, dichiarando che «da due anni la Lazio doveva pescare sul mercato qualcosa di alternativo a Immobile. Si invecchia tutti, non è detto che non possa giocare, ma prima faceva 36-37 partite a stagione senza problemi, oggi no. Non punto il dito contro di lui, ma la Lazio lo scorso anno è arrivata seconda perché Immobile è stato fuori e al suo posto ha giocato un calciatore funzionale al gioco di Sarri».  

In realtà i numeri dicono che, nell’annata 2022/23, Ciro Immobile è stato fuori per un totale di 70 giorni ed è stato comunque il miglior marcatore della Lazio – 14 reti in 38 gare. E anche tatticamente sarebbe più giusto parlare di un correttivo di sistema visto che, in assenza del suo bomber e capitano, il tecnico toscano ha ristrutturato l’intera fase offensiva sul tridente Zaccagni-Pedro-Felipe Anderson, con un Milinkovic-Savic in più. In ogni caso, il fatto che la Lazio abbia ottenuto il miglior piazzamento in campionato dal 2000 senza che Immobile desse un apporto determinante, sembra aver dischiuso le porte di una nuova era: quella in cui Immobile potrebbe non essere più il centro tecnico ed emotivo della squadra, anzi rischia addirittura di costituirne il principale limite nello sviluppo verso nuovi orizzonti tattici. E competitivi.

È come se tutte le discussioni riguardanti il suo essere un grande attaccante che va bene fino a un certo punto, concetti ricorrenti ogni volta che veste la maglia della Nazionale, si siano trasferite anche nel giardino di casa, all’interno di quella comfort zone che appariva impermeabile alle critiche. Ad oggi, le difficoltà individuali di Immobile, si riflettono sul collettivo-Lazio in termini di fluidità e coerenza della manovra offensiva, in termini di risalita del campo, di rifinitura, persino di finalizzazione. La questione non riguarda solo la gestione di un logorio fisico per certi versi inevitabile, ma soprattutto il rapporto tra ciò che Immobile è e ciò che la Lazio vuole – o deve? – diventare.

Con la Nazionale A, Ciro Immobile ha segnato 17 gol in 57 partite ufficiali (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

Certo, in tutto questo c’entra Maurizio Sarri, il successore di Simone Inzaghi, l’allenatore che doveva alzare l’asticella degli obiettivi e delle ambizioni di Lotito. Ciro Immobile era – ed è – un centravanti animato da una perenne tensione verticale, con un set di movimenti finalizzati alla ricerca della miglior congiuntura spazio-temporale per calciare verso la porta con la massima efficacia e riducendo la finestra di intervento del diretto marcatore e del portiere. Un centravanti, quindi, che l’area la attacca prima ancora di occuparla. Era perfetto per un allenatore come Inzaghi, che all’apparente rigidità dei suoi principi di gioco ha da sempre opposto la capacità di modellare il proprio sistema sulle caratteristiche dei giocatori offensivi a sua disposizione; per questo, lungo un arco di cinque stagioni, la Lazio è stata una squadra da corse furiose in profondità, una squadra in cui Immobile ha esaltato e si è esaltato in un cucito su misura su di lui, in grado di mangiarsi il campo ogni volta che veniva messo in moto dal Luis Alberto o dal Lucas Leiva di turno. Per Sarri, invece, il lavoro richiesto ad una prima punta tipo è molto più ampio e riguarda soprattutto le letture, l’occupazione preventiva degli spazi che avviene anche in ampiezza e non solo in profondità, una capacità associativa che risponda alle necessità imposte da sovrastrutture tattiche meno dirette e immediate di quelle cui Immobile era stato abituato. 

Durante la sua prima stagione, per trovare una sintesi tra la sua visione del gioco e le qualità del suo miglior attaccante, il tecnico aveva optato per una transizione morbida e graduale, varando una Lazio molto meno sarrista di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, una Lazio che privilegiava l’espressione di forza del singolo rispetto a quella, più armonica e omogenea, della squadra. Questo “compromesso” aveva permesso a Immobile di laurearsi capocannoniere per la quarta volta in carriera – 27 gol in 31 partite di campionato, 32 in 40 complessivamente – ma aveva anche confermato tutti i limiti di un sistema “ibrido”. Oggi Sarri e la Lazio stanno vivendo gli stessi problemi, più o meno, ma con un senso di urgenza ancor più accentuato: in questo primo scorcio di stagione, infatti, il tecnico toscano deve sopportare l’aggravio di una fase difensiva che non riesce a limitare i danni all’interno di quelle partite in cui la produzione offensiva è insufficiente. «Immobile ha il destino dei grandi bomber, cioè di quei giocatore di cui non puoi fare a meno quando segnano ma che sono i primi a essere criticati quando non lo fanno. Ora la squadra sta dando poca profondità e questo ci sta costando qualcosa a livello realizzativo: dobbiamo aiutarlo ma deve farlo anche lui cercando più insistentemente la profondità», ha detto Sarri dopo il pareggio dell’Olimpico contro il Monza. Quasi come a voler sottolineare che il cortocircuito relativo a chi deve fare un passo indietro stia per diventare definitivo e irreversibile.                

Quest’estate Immobile è stato uno dei pochi giocatori europei entrati nella fase declinante della carriera a rifiutare le ricchissime offerte provenienti dall’Arabia Saudita. Una scelta in linea con la sua necessità emotiva di ritrovarsi sempre all’interno di un ambiente ideale per ciò che riguarda la familiarità e il calore umano, e dettata dalla volontà di «continuare a vivere determinate emozioni con la maglia della Nazionale», di cui è stato anche capitano nella partita che ha inaugurato il triennio di Spalletti contro la Macedonia del Nord. A Skopje, nella cornice dell’Arena Toše Proeski resa ancor più tetra e surreale dal ricordo del disastro sportivo di Palermo e da un campo ai limiti della praticabilità, il centravanti della Lazio ha comunque trovato il modo di segnare. Eppure già dalla partita successiva Spalletti ne ha ridimensionato la centralità e la leadership puntando su giocatori più aderenti alla sua idea di calcio posizionale. Qualcosa che, si sussurra, vorrebbe fare anche Sarri. Che, però, non sembra potersi permettersi di forzare una cesura che sarebbe certamente dolorosa, certo, ma non per questo meno necessaria. Perché, per quanto possa apparire strano e incomprensibile, a un certo punto non è più una questione di gol ma di quanto quei gol finiscano per trasformarsi da risorsa a problema, da soluzione a limite. È chiaramente un paradosso, ma è da qui che passano il futuro di Sarri e della Lazio. Questo inizio di stagione lo sta dicendo in modo inequivocabile.