Un anno fa, più o meno di questi tempi, l’Italia del calcio – quella mainstream, almeno – faceva la conoscenza di Simone Pafundi. Fu un fatto significativo che i media, attraverso il classico meccanismo dell’amplificazione, raccontarono come un evento storico. Ricorderete: l’Italia era fuori dal Mondiale che stava iniziando, tutti parlavano di un movimento senza futuro, senza talenti, e Roberto Mancini iniziava a manifestare i primi sintomi di quell’insofferenza che l’avrebbe portato alle dimissioni di Ferragosto. Così arrivò la chiamata in Nazionale di questo 16enne trequartista dell’Udinese, Simone Pafundi appunto, per le amichevoli contro Albania e Austria. E poi fu la volta dell’esordio: pochi minuti, da subentrato, nel match contro l’Albania. Era da 112 anni che un calciatore così giovane non giocava con l’Italia. Anche per questo, molti commentatori si federo travolgere dall’entusiasmo, fino al punto di scomodare i nomi di Bellingham, Gavi, Pedri e altri aspiranti fuoriclasse lanciati da teenager.
Non che Mancini fosse del tutto nuovo a comportamenti di questo tipo: a settembre 2018, all’alba del ciclo che sarebbe culminato con la vittoria agli Europei, il commissario tecnico dell’Italia chiamò il 19enne Nicolò Zaniolo prima ancora che esordisse in Serie A, la stessa identica cosa fatta con Pafundi. Il punto, però, è che la scelta relativa a Pafundi era sembrata fin da subito una cosa diversa, una vera e propria provocazione travestita da convocazione: fu lo stesso Mancini, stuzzicato dalla stampa, a esagerare un po’, infatti disse che avrebbe sempre compilato la sua lista partendo da Pafundi, «prima lui e poi tutti gli altri». Per il ct, evidentemente, chiamare Pafundi in Nazionale A era un modo per mostrare che lui e solo lui, in Italia, aveva il coraggio di fare delle scelte che all’estero sono ormai una consuetudine. Secondo un’altra interpretazione, certamente più maliziosa, convocare Pafundi era un modo per lanciare un segnale, per dire una cosa del tipo non ho grandi talenti e soprattutto non ho attaccanti, guardate un po’ chi sono costretto a convocare.
In realtà, se l’obiettivo era davvero quello di mandare un messaggio ai club e alle istituzioni del calcio, la scelta di convocare Pafundi poteva anche avere un senso, visto che era ed è un nome importante nel nostro panorama giovanile. È da anni, infatti, gli scout e gli osservatori amatoriali dei campionati Allievi e Primavera parlano di lui come di un vero e proprio predestinato, complici dei video (eccone qui alcuni) in cui Pafundi sembra giocare a un livello due o tre volte superiore rispetto ai suoi coetanei. E rispetto a dei compagni/avversari che gli sono maggiori di uno o due anni. La stessa sensazione, più o meno, si è avvertita e si avverte ancora oggi nelle gare giocate da Pafundi con la maglia della Nazionale Under 19 e Under 20: la punizione che ha deciso la semifinale del Mondiale di categoria e i due splendidi gol realizzati contro la Svezia U-19, in questo senso, sono degli elementi piuttosto indicativi. E se le nostre impressioni da italiani fossero imbevute di partigianeria e di malcelata speranza? Può essere, ma anche all’estero pensano più o meno le stesse cose: sul Guardian, per esempio, Pafundi è stato inserito nella lista dei talenti più eccitanti del mondo, ed è stato definito «un giocatore dalla mente e dai piedi straordinariamente veloci»; The Athletic, invece, ha parlato di lui come di «un giocatore-prodigio».
Eppure, nel momento in cui scriviamo, Simone Pafundi non ha ancora disputato una sola gara da titolare in una competizione professionistica; in tutto ha messo insieme 106 minuti giocati in gare di Serie A, di cui soltanto sette in questa stagione, più altri 53 minuti in Udinese-Cagliari di Coppa Italia. Anche nel corso del Mondiale Under 20 di cui abbiamo già detto, giocato lo scorso giugno, è stato utilizzato e ha brillato in modo intermittente: ha giocato le prime tre partite da titolare, poi è finito in panchina e ha risolto la semifinale solo da subentrato. In finale il ct Nunziata l’ha schierato dall’inizio, poi però l’ha sostituito al minuto 56′. Dopo quella gara, persa contro l’Uruguay, proprio Nunziata ha detto che «Pafundi ha 17 anni e ha grandi qualità, quindi un futuro radioso davanti a sé. Però ha giocato poco, e questo lo penalizza. Deve iniziare a giocare, all’Udinese o altrove».
Pafundi che fa cose belle
È chiaro, c’è un’evidente incongruenza. E quindi c’è un mistero da risolvere. Pafundi è costantemente aggregato alla prima squadra dell’Udinese, quindi non è stato ceduto in prestito e non gioca nel campionato Primavera, ma non vede mai il campo: perché? Secondo il suo attuale allenatore, Gabriele Cioffi, tutto rientra nella normalità dei rapporti tra club, giocatori e tecnico: «Io sono pagato per fare delle scelte», ha detto il mister dell’Udinese dopo la sconfitta contro l’Inter, «e al momento le mie scelte non prevedono che Pafundi giochi. Non discuto il talento, se Simone ha pazienza è il benvenuto. Ma queste domande su di lui e sul caso-Pafundi finiscono per annoiarmi. E non fanno bene neanche al ragazzo». Cioffi la pensa più o meno come il suo predecessore, Andrea Sottil. Che, alle inevitabili domande sulla gestione di Pafundi, aveva risposto così: «Parliamo di un ragazzino del 2006 che l’anno scorso giocava solo in Primavera. Lo abbiamo aggregato a pieno regime in prima squadra, su di lui c’è un progetto importante. Gli sto facendo fare gli step giusti per crescere serenamente. Il punto è che nell’Udinese ci sono giocatori che sono titolari e che hanno più esperienza rispetto a lui. Poi deve essere lui a gestirla meglio».
In queste dichiarazioni ci sono alcune espressioni – “annoiarmi”, “ragazzino”, “gestirla meglio” – che, a rileggerle, fanno un po’ rabbia. E che illustrano il grande problema culturale del nostro calcio col talento e con i giovanissimi: non a caso, negli ultimi anni la Serie A sta vivendo un chiaro processo di svecchiamento, nel senso che sta abbassando sensibilmente l’età media generale del suo parco giocatori, eppure i club italiani fanno ancora fatica a concedere spazio a chi ha meno di vent’anni. Non è più una lega gerontocratica, ma certi muri sono più difficili da scrostare e abbattere. Nel caso specifico, poi, Pafundi paga tutto un set di condizioni non proprio favorevoli: è un calciatore dalla tecnica scintillante ma dal fisico minuto, diciamo pure esile, non arriva al metro e settanta d’altezza e non ha una muscolatura compatta, né tantomeno esplosiva; inoltre ha un profilo tattico ancora ibrido, come prototipo ondeggia nella terra di mezzo che sta tra il trequartista, la seconda punta e l’esterno offensivo. Insomma, c’entra poco e nulla con l’Udinese, una squadra che da dieci anni, ormai, ha deciso di non violare due sacri fondamenti calcistici: la predilezione per giocatori massicci e prestanti, o almeno alti, e il 3-5-2 come modulo di riferimento.
Guardando la stessa vicenda da un’altra prospettiva, quindi, c’è da dire che Cioffi e Sottil – i due allenatori che hanno avuto a che fare con Pafundi nella prima squadra dell’Udinese – non hanno proprio tutti i torti: la società per cui lavorano/hanno lavorato non li ha mai messi nelle condizioni di lanciare Pafundi. E non è solo una questione di pressione per i risultati, di giocatori scelti perché possiedono l’esperienza che occorre a raggiungere un obiettivo: l’Udinese, molto più semplicemente, ha deciso di non cambiare il suo progetto tecnico in modo da valorizzare Pafundi. O di provarci, quantomeno. È qui che l’espressione usata a suo tempo da Sottil, quella per cui «Pafundi deve gestirla meglio», diventa un po’ forzata, anche un po’ meschina: il ragazzo e/o il suo entourage potranno anche aver avuto degli atteggiamenti sbagliati, questo non possiamo saperlo, ma al momento Pafundi resta un calciatore su cui l’Udinese non ha ancora puntato per davvero. Non che sia una scelta illegittima o per forza sbagliata, ma resta una scelta. È come se Pafundi fosse un ballerino classico che è stato scritturato per un musical di Broadway: ha pochissimo spazio per far valere le sue doti, e ancor meno possibilità di risaltare rispetto a tutti gli altri. Anche se, teoricamente, ne avrebbe le qualità.
Tutto questo crea un cortocircuito che, inevitabilmente, finirà per penalizzare il giocatore. In realtà l’ha già penalizzato. Tutti infatti lo aspettavano e lo aspettano ancora al varco della Serie A, e il suo ritardo sta adombrando i pensieri e i giudizi. Qualcuno inizia a sussurrare che con lui siamo andati troppo veloce, che in fondo no, questo Pafundi non può essere un granché, visto che non riesce neanche a giocare da titolare con l’Udinese. E allora forse dovrebbe iniziare a pensare di cambiare squadra, di andare a giocare altrove. In prestito, o magari all’estero. Ecco, è proprio questa la cultura/visione che andrebbe scrostata, combattuta, abbattuta: Gavi, Pedri, Bellingham e tanti altri teenager lanciati negli ultimi anni, pensiamo per esempio al caso virtuoso del Milan e dell’Italia con Gigio Donnarumma, hanno avuto il tempo e soprattutto il modo per mettersi alla prova in determinati contesti. Su di loro è stato investito un capitale fatto di fiducia, fatto di attesa, le squadre che ci hanno creduto sono partite da quei ragazzi pieni di talento, «prima Gavi/Pedri/Bellingham/Donnarumma e poi tutti gli altri», solo che l’hanno fatto per davvero. Hanno rischiato, certo, ma praticare il rischio non vuol dire improvvisare. Anzi, in certi casi è l’esatto contrario.