I talenti del Lione sono una grande illusione collettiva?

Una delle migliori fabbriche di calciatori al mondo non funziona più come una volta: usciti dall'OL, anche i più promettenti finiscono col perdersi.

All’ingresso del museo dell’Olympique Lione, c’è una targa su cui sono incisi i nomi dei primi dieci marcatori della storia del club. Al secondo posto, alle spalle di Fleury Di Nallo (222 reti in 495 partite tra il 1960 e il 1974), c’è Alexandre Lacazette, autore di 167 gol in 327 presenze, l’ultimo realizzato pochi giorni fa al Nantes su assist di Rayan Cherki in quella che è stata la terza vittoria consecutiva dell’OL dopo un travagliato inizio di stagione – oggi l’OL occupa il 15cesimo posto in classifica, ma fino a metà dicembre era ancora ultimo. Uno dei pochi a salvarsi in questo marasma è stato appunto Lacazette, terzo nella classifica dei marcatori della Ligue 1 (a meno uno da Ben Yedder e a undici reti di distanza dall’irraggiungibile Mbappé) e che da solo ha segnato quasi la metà dei gol della squadra, sette su 16. Lacazette, soprannominato Il Generale, è tornato a Lione nell’estate 2022 dopo cinque stagioni all’Arsenal con cui ha vinto due Community Shield (nel 2017 e nel 2020) e una FA Cup (2020). Insieme a lui, nella stessa sessione di mercato, è rientrato anche Corentin Tolisso: ceduto al Bayern Monaco nel giugno 2017 per una cifra superiore ai 40 milioni di euro (all’epoca l’acquisto più costoso di sempre per un club della Bundesliga), con i bavaresi aveva firmato un contratto quinquennale da sette milioni a stagione che non è stato rinnovato alla scadenza. A 27 anni, nonostante abbia vinto tutto quello che c’era da vincere con club e Nazionale, compreso il Mondiale in Russia nel 2018, da prima alternativa a centrocampo, Tolisso ha fatto ritorno a casa da calciatore finito, o comunque da ricostruire da zero dopo un’esperienza funestata dagli infortuni. Recentemente il magazine So Foot ne ha fatto addirittura il simbolo di un progetto naufragato ancora prima di cominciare, quello del Lione ai lionesi: «Parliamo di un calciatore che non fa mai una prestazione oltre la media, che in campo sbaglia continuamente le scelte e le giocate, che semplicemente non è più quello di una volta. Eppure continua a essere schierato da titolare», si leggeva a inizio ottobre dopo la rovinosa sconfitta dell’OL in casa del Reims. 

Più in generale, però, quello di Tolisso è il case study attraverso cui raccontare la sempre più difficile sostenibilità di un modello che si credeva virtuoso e che, invece, ha cominciato a mostrare tutti i suoi limiti. Per poi collassare proprio nel bel mezzo di quest’epoca di transizione, con la nuova proprietà guidata da John Textor che sta ancora cercando di capire come avviare la ricostruzione post-Aulas. Anche perché le fondamenta non sono poi così solide come si credeva, anzi: «Il problema principale è che il club è gestito per lo più da gente che non capisce nulla di calcio, che usa i media e la comunicazione unicamente per confondere le idee ai tifosi. Per esempio, quando nell’estate 2022 si è cominciato a parlare di “dna OL”, è bastato poco per capire che si trattava di un’operazione di marketing e nient’altro, in cui era assente una qualsiasi visione calcistica a medio e lungo termine. È stato catastrofico eppure i tifosi ci hanno creduto e ci sono cascati. Senza contare l’incompetenza che hanno dimostrato anche quando si è trattato di vendere i giocatori: Aouar, Depay, Denayer, Kalulu e io stesso: siamo tutti andati via gratis». Queste parole le ha dette Moussa Dembélé in una lunga e velenosa intervista rilasciata a Foot Mercato. Dembélé, formatosi nelle academy di Psg e Fulham, era arrivato a Lione nel 2018, a 22 anni, dopo due ottime stagioni al Celtic: costato 22 milioni di euro, a fine luglio ha firmato da svincolato con l’Al-Ettifaq dopo cinque stagioni e mezzo e 71 gol complessivi con l’OL. 

Le cessioni remunerative e la centralità dei giocatori made in Lyon sono state a lungo le due architravi attorno su cui Aulas ha incardinato la sopravvivenza del club dopo i trionfi dei primi anni Duemila, attraverso politiche di formazione, sviluppo e player trading di assoluto livello: dal 2009, anno del passaggio di Benzema al Real Madrid per 35 milioni di euro, e fino al 2022, l’OL ha incassato più di 710 milioni dalle cessioni, di cui 270 ricavati dalla vendita dei giocatori formatisi nel proprio settore giovanile a partire dal 2015, quinto club in Europa dopo Benfica, Real Madrid, Monaco e Ajax stando al rapporto stilato a inizio 2022 dall’osservatorio CIES. Tuttavia i riscontri sul campo non sono stati altrettanto importanti, sia per ciò che riguarda i successi di squadra – una Coppa di Francia e una Supercoppa conquistate dal 2010 a oggi, più due secondi e quattro terzi posti come migliori risultati in campionato nelle ultime tredici stagioni – che per le parabole che hanno avuto le carriere di alcuni tra i giocatori più promettenti delle ultime due generazioni, che a Lione sono calcisticamente nati e cresciuti e che nell’OL speravano di trovare il trampolino di lancio ideale per approdare in squadre e campionati più ricchi e competitivi.  

Basta guardare l’elenco di nomi presenti in questa pagina di Transfermarkt, concentrandosi sulle cessioni degli ultimi dieci anni, per rendersene conto: se escludiamo Benzema, Pjanic e Lloris, sembra quasi di scorrere una mesta “Antologia di Spoon River” calcistica contenente l’epitaffio sportivo di tutti quei calciatori che non sono riusciti ad andare oltre sé stessi e i loro limiti nel momento in cui si sono trovati a dover uscire da questa comfort zone unica nel suo genere. E anche quelli che ce l’hanno fatta, come lo stesso Lacazette, Lucas Paquetá, Ferland Mendy e Bruno Guimarães, non ce l’hanno fatta per davvero – non ancora, quantomeno. Più si va avanti nella lettura più riaffiorano i ricordi legati a dei giocatori per cui era persino naturale immaginare un futuro da titolari inamovibili di un top club per poi ritrovarseli al Rennes (Amine Gouiri, che tra il 2017 e il 2019 era la principale attrazione di ogni Europeo o Mondiale giovanile), all’Union Berlino (Lucas Tousart, autore del gol che costò la Champions e la panchina della Juventus a Maurizio Sarri) oppure al Valencia o West Ham di turno (Diakhaby e Cornet), in una distorsione spazio-temporale tale per cui a un certo punto non si riesce nemmeno più a ricostruire come e perché siano finiti lì e non al Barcellona, al Psg, al City, al Real Madrid. A proposito di Real: come dimenticare Mariano Díaz, richiamato in fretta e furia proprio dalla Casa Blanca dopo una sola stagione in Francia (48 presenze e 21 gol nel 2017/18) per raccogliere il numero e l’eredità di Cristiano Ronaldo, salvo poi ritrovarsi a fare la comparsa anche al Siviglia?

La cessione di Tanguy Ndombélé è stata l’affare in uscita più remunerativo nella storia dell’Olympique Lione: per acquistare il centrocampista franco-congolese, nell’estate 2019, il Tottenham ha speso 62 milioni di euro (Julian Finney/Getty Images)

Praticamente la narrazione di Lione come perenne isola felice in cui i giocatori vengono scoperti, valorizzati e preparati al grande calcio e ai grandi club si è sgretolata davanti ai nostri occhi anno dopo anno quasi senza che ce ne accorgessimo. Il caso più clamoroso, soprattutto se ne facciamo una questione di rapidità della regressione tecnica rapportata alle attese generate a inizio carriera, è quello di Houssem Aouar: nel giro di un paio di stagioni è passato dall’essere la sintesi di tutto il meglio che il calcio francese aveva da offrire, almeno a livello di centrocampisti, a una delle tante scommesse della terza Roma di José Mourinho, cioè l’allenatore che a ogni conferenza stampa non può fare a meno di ricordare che, se tutto fosse andato come doveva andare, giocatori come lo stesso Aouar, Renato Sanches o Paulo Dybala oggi non starebbero giocando per lui. A differenza di quanto accaduto a Tolisso, tormentato da una serie pressoché infinita di problemi fisici nei suoi anni bavaresi, è difficile individuare il momento della svolta in negativo, l’evento esatto in cui nella carriera di Aouar qualcosa non è andata come doveva andare prima di precipitarlo a 25 anni nell’oblio di quello che poteva essere e non è stato: è come se, a un certo punto, lo stesso giocatore si fosse reso conto di non poter essere più di quello che già era, accontentandosi di aver raggiunto un livello tale per cui al di fuori di Lione e del Lione potesse essere considerato uno dei tanti e nulla più, al culmine di quello che ormai ha assunto le sembianze di un processo di standardizzazione del talento che rende difficile esprimere lo stesso al di fuori di un determinato contesto.  

In questo senso la storia di Aouar è molto più simile a quella di Nabil Fekir che a 30 anni sta ancora cercando di capire chi è e cosa vuole diventare dopo che, nel 2019, aveva scelto di trasferirsi al Betis per dimostrare di poter essere qualcosa di più di un giocatore in grado di fare la differenza solo entro certi limiti, culturali e geografici, ben definiti. Senza, peraltro, mai riuscirci del tutto se non a tratti. Che, poi, è quello che si potrebbe dire anche di Tanguy Ndombélé: acquistato nel 2019 dal Tottenham per 62 milioni di euro (più 10 legati a bonus che comunque non sono mai stati raggiunti), dopo aver giocato in prestito in tre delle ultime sei stagioni, oggi si ritrova al Galatasaray, messo fuori rosa a causa delle sue abitudini alimentari e con la prospettiva di doversi cercare un’altra squadra per dare un senso a una carriera che, a 27 anni, sembra essere stata già avvolta da un profondo senso di incompiutezza. Qualcosa di simile sta accadendo oggi anche a Barcola (Psg) e Malo Gusto (Chelsea), che sembrano la proiezione sbiadita di quei giocatori in grado di incendiare una partita grazie a un’esuberanza atletica fuori scala e che faticano a ritagliarsi il proprio spazio all’interno di rose profondissime, assemblate male e gestite peggio.  

Un rischio che, almeno per il momento, non sembra poter correre Castello Lukeba, che al suo percorso di crescita ha deciso di aggiungere un’ulteriore tappa intermedia accettando di trasferirsi in un’altra squadra formativa come il Red Bull Lipsia. Memore, probabilmente, di quello che è accaduto a Samuel Umtiti, finito – lui sì – al Barcellona quando aveva 23 anni e costretto a ripartire a 29 da Lecce dopo quattro anni in cui «mi sono sentito in galera, non percepivo fiducia, ma solo diffidenza. Non sapevo come uscirne». Oggi è al Lille, con cui ha firmato da free agent dopo essersi svincolato dai blaugrana: per lui 184 minuti complessivi in Ligue 1 in sei presenze totali, appena due da titolare. I tempi in cui era considerato uno dei difensori centrali del futuro sono ormai lontani. Ma quella era un’altra epoca e quello era un altro Olympique Lione. Che, forse, non esiste nemmeno più.