Il nuovo Morata ha vinto contro i fantasmi

Non ha mai segnato così tanto, e il merito non è solo di un'evoluzione tattica: ma psicologica.

Álvaro Morata sta vivendo la sua miglior stagione di sempre dal punto di vista realizzativo. La tripletta realizzata contro il Girona è la fotografia di questa annata così prolifica. Tutti e tre i gol si somigliano. E somigliano alla carriera di Álvaro Morata. Vederli in successione è come sfogliare le gradazioni di un singolo colore: nascono da invenzioni diverse, ma lo scoccare del tiro avviene sempre dallo stesso punto dell’area. E la palla finisce sempre laggiù, sul secondo palo, dopo aver tagliato in diagonale spazio e avversari. La copia di una copia di una copia. Un’esecuzione basilare, un racconto minimalista sul calcio e i principi che governano il talento di un attaccante chiamato a essere essenziale, come vademecum suggerisce. Morata non esulta vistosamente nessuna delle tre volte, perché non sono gol di sorpasso. Si lascia andare giusto all’ultima. Mentre corre verso la bandierina allarga un attimo le braccia e guarda il pubblico. È sollevato. Agli sgoccioli del primo tempo aveva sparato alto proprio dal limite dell’area piccola. Pochi minuti prima, dopo un dribbling a rientrare secco e raffinato, e una conclusione grezza ma funzionale, aveva accorciato le distanze. Un gol, come detto, che lui non celebra. Rientra veloce nella propria metà campo. Smorfia in viso e occhi bassi, già preoccupato di doversi ripetere. Lui e la sua squadra sembrano inseguire un coniglio meccanico. Alla fine, il pallone che Morata si porta a casa è il pallone di una sconfitta. Premio di consolazione da inserire nella categoria dei bicchieri mezzi vuoti e mezzi pieni. Di sicuro sbeccati. 

Non è nuovo, Morata, a questo tipo di delusioni. Quella volta che realizzò una tripletta di gol annullati per fuorigioco, e gli era già successo, forse andò peggio. All’epoca vestiva la maglia bianconera. Lui e la Juventus, legati da un rapporto di convenienza mascherato da amore, affrontavano il Barcellona. I millimetri che gli negarono la gioia di una notte da immortale hanno il sapore beffardo del burocratese. Su YouTube c’è un video di tre minuti di Morata che segna in fuorigioco e certi commenti fanno amaramente sorridere. Comune denominatore: se non esistesse la regola del fuorigioco, Morata sarebbe il GOAT, siederebbe alla destra di Pelé. 

Dove si colloca, invece, sul piano della realtà, Álvaro Morata? A 31 anni pare ancora giocare con addosso la pressione che si riserva ai profeti, a cui non è concesso sbagliare. O, fuor di metafora, con su il peso delle aspettative riservate a quei giovani talenti che faticano a sbocciare. Complici un fisico e un bagaglio tecnico che a vent’anni erano già questi, il tempo sembra aver attraversato Morata senza toccarlo. E Morata ha attraversato il nostro tempo, il tempo del calcio, camminando su un filo. Anche quello del fuorigioco. 

A favorire l’illusione, fattori risibili e altri più seri: il sempreverde taglio di capelli aziendale, lo sguardo acquoso, i tratti fanciulleschi del viso, i gol belli eppure mai troppi, una beffarda ma mai troppo memabile sfortuna, un senso d’incompiutezza che fa rima con giovinezza. Già perché, prima di questa stagione, Morata era ancora uno di quei giocatori di cui ci si poteva chiedere che cosa avrebbe fatto da grande. E non con tono paternalistico, sia mai. Piuttosto con una sana curiosità nella voce. Sono quel tipo di domande che riguardano gli attaccanti spuri, i secondi violini, le seconde prime scelte. Cambierà? Peggiorerà?

Per rispondere scolasticamente, sì. Morata si è evoluto. Morata quest’anno sta finalmente facendo lo spacca-porte. Una cosa che prima non gli riusciva, e che sembrava non essere nelle sue corde. Ora, invece, di nuovo al servizio di Simeone, per la prima volta in carriera sembra destinato a superare il proprio record di gol stagionali, fermo a 20, uscendo dal cono d’ombra dove galleggiano quegli attaccanti sì bravini, ma che da soli, in termini di reti, non sanno reggere il peso dell’intero reparto offensivo, come cartellino e stipendio prometterebbero. Certo, Morata ha sempre compensato una più scarsa vena realizzativa – rispetto agli attaccanti della sua fascia di valore – attraverso un’ampia e sofisticata diversificazione delle proprie competenze. Cose che gli valgono un’affidabilità riconosciuta e sfruttata sotto ogni aspetto. Sia in campo, sia soprattutto nelle vesti di giocatore-asset da scambiare sul mercato: un aspetto che lo ha destinato a una carriera errante, tra un porto e l’altro, tra un legame interrotto e l’altro, il ruolino dei suoi trasferimenti ha finito con il ricalcare la struttura di una poesia a rima incatenata. Ma è l’unica cosa associabile alla poesia che lo riguarda. A parte, forse, una vaga malinconia, se si spoglia questo andirivieni del prestigio delle maglie che ha indossato. 

Una prima parte di stagione da perdere la testa

C’è meccanica, formula, e neanche un grammo di spensieratezza o evasione, nei movimenti e nelle soluzioni di Morata. Persino i suoi colpi più fantasiosi restituiscono la fredda lucentezza di una carrozzeria tirata a lucido. O di una stella, sì, ma al neon. Non lo dico in senso critico. L’eleganza, quando non è dote, è un esercizio che prima di essere mantenuto va costruito. In pochi hanno conosciuto il solo dovere di affinarla. Morata stesso si è affinato, al servizio dell’Atlético, il Madrid meno nobile, più spartano. Per non doversene andare di nuovo e troppo presto, per sfuggire la dimensione di giocatorino, per emergere oltre la maglia e il ruolo di pedone da sistema, ha dovuto migliorare la forza dell’anello più debole della propria personalissima catena di qualità. Se prima il valore dei suoi gol risiedeva nel loro peso, ora esso è moltiplicato dal numero. Tuttavia, così come una rondine non fa primavera, è prematuro leggere nei suoi attuali progressi una maturazione definitiva – scusate il gioco di parole – anche se essa pare in procinto di compiersi, o perlomeno in divenire. Ripetersi è la parte più difficile. Ciò che separa i top player dai buoni giocatori. Per dirla in modo riduttivo, Morata è un buonissimo giocatore che sa calarsi nelle esigenze del collettivo, ma non è un colletto blu. Ha la classe e pure i numeri di chi non ha vestito per caso le grandi maglie che lui ha vestito, tra club e Nazionale maggiore. Anche se tutto questo, una carriera finora spesa dignitosamente a così alti livelli, ha presentato un certo prezzo. Questo è l’altro filo su cui Morata ha camminato lungo questi anni. 

Sì, perché Morata ha parlato spesso di un tema molto delicato: la salute mentale legata alla tossicità di un certo modo di vivere il calcio. Negli ultimi anni sono stati fatti significativi progressi in materia, sebbene l’aura di argomento-tabù sia ancora esacerbata da una mentalità emotivamente analfabeta, figlia di una cultura omertosa e machista. Troppi gli interessi in gioco per rallentare i ritmi. Troppi i doveri e le responsabilità per fermarsi. Troppa, ancora, la paura dello stigma. Purtroppo, però, come è stato dimostrato, nessuna persona è immune alla malattia della depressione. Lo status economico privilegiato dei calciatori professionisti delle maggiori leghe non garantisce loro di non cadere nella voragine. Morata ha detto di esserci andato molto vicino ai tempi in cui militava nel Chelsea. E che, potesse tornare indietro, chiederebbe aiuto a uno psicologo, cosa che poi ha fatto.

Quel suo «credo di esserci andato molto vicino» è una sliding door che rincuora e atterrisce al medesimo tempo. Quanti atleti del suo rango, e quante persone ordinarie e meno ordinarie, vivono o hanno vissuta una situazione simile, ma con esiti più drammatici, talvolta fatali? La lista sfortunatamente è lunghissima – emblematico, su tutti, il caso di Robert Enke – ma lo direi anche se su questa lista vi fosse soltanto un nome. Meno lunga, ma per fortuna in crescita, quella degli atleti professionisti che scelgono di parlarne pubblicamente – e di affrontare un percorso di cura con l’aiuto di professionisti – al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema e fornire un esempio e un aiuto a chi non riesce a chiederlo. Ultimo Ricky Rubio, cestista NBA, che pochi giorni fa ha annunciato il ritiro per potersi concentrare sulla salvaguardia della propria salute mentale, dopo un anno lontano dal parquet. Un giorno, probabilmente, non sarà più necessario che figure pubbliche come lui e Morata s’insanguinino per attraversare il muro, ma fino ad allora tutto quello che può essere d’aiuto o ispirazione a chi soffre di depressione va utilizzato per aiutare chi ne è vittima. Di fronte a ciò il calcio, il calcio nel suo lato più isterico, quello del risultato, dovrebbe passare in secondo piano. O abbassare il proprio grado d’isteria. Comportamenti violenti come quelli subiti dal Morata, in più di un’occasione minacciato di morte a seguito di prestazioni deludenti, sono intollerabili e andrebbero severamente perseguiti. Non per lavarsi la coscienza o riempirsi la bocca di retorica – il calcio professionistico, apriti cielo, è un’industria costruita attorno a un gioco – ma per costruire una società più civile e attenta alle sue fragilità.

Morata ha attraversato momenti bui. È stato forte e fortunato a sopravvivere a essi senza che la sua vita, e in ultima istanza la sua carriera, per quanto ci è dato saperne, ne abbiano risentito in maniera irreversibile. Viene da chiedersi, a margine di tutto, ora che la tempesta è sotto controllo, in che misura il suo gioco ne sia stato influenzato. Se anche le sue giornate erano la copia di una copia di una copia, come scrive Palahniuk. Se anche il verde dell’erba del campo era grigio. E se la sua più recente versione, quella più prolifica, sia soprattutto figlia di una ritrovata serenità mentale, più che un’evoluzione calcistica a sé stante. Mi viene in mente Quagliarella, che dopo aver vinto la causa contro il suo stalker ha disputato le sue due migliori stagioni in carriera, dal punto di vista realizzativo. Storie diverse, certo, ma con la stessa lapalissiana morale: che i demoni vanno affrontati, perché si possono sconfiggere.