Tra le cose più commoventi e deprimenti del mondo ci sono le registrazioni del canto degli uccelli in via d’estinzione. In particolare, quelle dell’ultima canzone cantata dall’ultimo esemplare conosciuto: che questo sia un maschio o una femmina, quasi sempre si tratta della melodia con la quale si segnala la propria posizione, presenza, esistenza a potenziali compagni/e in vista dell’accoppiamento. L’uccello non può sapere di essere l’ultimo della sua specie – questa consapevolezza, la conoscenza della fine inevitabile alla quale tutto tende è un orrore che l’universo ha riservato solo agli esseri umani – e canta come la memoria ancestrale conservata nel suo Dna gli insegna e impone. Ma quando i suoi suoni si propagano nel vuoto dell’estinzione e quando il vuoto restituisce un silenzio mortifero, allora l’uccello si mette quasi a urlare a squarciagola. Chissà perché lo fa: perché pensa che così prima o poi qualcuno sentirà, qualcuno risponderà? Perché ha paura di non star adempiendo al dovere biologico della perpetuazione della specie? Perché ha capito cosa sta succedendo ma nessuno gli ha mai detto che sarebbe successo – ricordati che devi morire – e quindi tutto ciò che sa e può fare è continuare a cantare? Chissà. So però che mentre seguivo il post partita della finale di Coppa Italia tra Juventus e Atalanta, mentre la vittoria bianconera veniva (subito) sotterrata dalla polvere alzata da Massimiliano Allegri, mentre Allegri finiva come peggio non poteva finire, mentre tutto questo succedeva io pensavo agli uccelli in via d’estinzione e alle registrazioni dei loro canti. E quindi pensavo ad Allegri.
Più terrificante della certezza di aver perso il proprio posto nel mondo c’è solo la consapevolezza che il mondo andrà avanti, che il vuoto lasciato dalla propria presenza che scompare verrà presto riempito o – peggio – dimenticato. Che tutto questo succede prima ancora che ce ne si possa accorgere, e che quel che rimane è assistere da spettatori solitari all’ultima replica del proprio spettacolo. Che è quello che devono istintivamente provare gli uccelli quando al loro canto segue il mutismo sterile del mondo, ed è quello che deve aver provato Allegri in questo secondo mandato alla Juventus. Tutto quello che è successo dopo la vittoria della Coppa Italia è l’urlo a squarciagola dell’uccello, la rabbia e il panico e la confusione dell’ultimo esemplare di una specie che fino a pochissimo tempo fa dominava l’ecosistema con l’indifferenza – la prepotenza – che la natura concede soltanto ai predatori apicali. Quello che Allegri ha detto e fatto, come lo ha detto e fatto, è ovviamente inaccettabile. Ma è tutt’altro che incomprensibile (anche se viene da chiedersi cosa desideri l’uomo che si fa cacciare dalla propria casa nel mezzo di una festa che ha organizzato lui). L’intelligenza dell’uomo però è innegabile e la sua consapevolezza indubitabile: Allegri lo sa che questa può anche non essere la sua ultima finale né il suo ultimo trofeo – glielo auguro – ma allo stesso modo sa che nel suo futuro ci sono ormai solo canti ai quali nessun coro di compagni risponderà.
Davanti a ogni fine è inevitabile – tanto che la citazione è venuta a noia pure a chi, come me, ci resta attaccato – citare lo scambio tra Marcello e Carla nella Terrazza di Ettore Scola: «Io credo che le epoche si chiudono così, all’improvviso», diceva lui a lei. Mentiva, Marcello: le epoche si chiudono dopo tutto il tempo necessario a fartele odiare, a farti venire voglia di dimenticarle, a farti imparare a dileggiarle. L’ultima volta che Allegri mi è piaciuto allenava il Cagliari, e nei quindici anni che sono passati da quell’eccitante Cagliari a questa deprimente Juventus è diventato il portavoce – di più: l’ideologo, il profeta – di un movimento, di un partito che è stato sempre maggioranza assoluta nel calcio italiano. Come tutti i partiti veri, negli anni anche questo ha assunto denominazioni diverse e adottato svariati slogan – il calcio è uno spettacolo che fanno gli artisti, «chi perde di corto muso è secondo, chi vince così è primo» – ma i fondamentali ideologici sono rimasti sempre quelli, sempre gli stessi: “a pallone si gioca così”, e chiunque azzardi anche solo una variazione sul tema (figuriamoci quelli che si baloccano con prospettive rivoluzionarie) è un eretico e un iconoclasta, un vanesio e un illuso. «Lo vogliono fare passare per scienza, invece non c’è un cavolo di niente di scientifico», era la posa allo stesso tempo elitaria e antintellettuale di questo partito, e anche quella del suo portavoce-ideologo-profeta. Radicalizzato da un’opinione pubblica il cui appoggio non è mai mancato – come non è mai mancato quello degli opinionisti di mestiere che in Allegri rivedevano il calcio della loro gioventù, quello raccontando il quale avevano ottenuto la loro prima tessera dell’Ordine dei giornalisti – il portavoce-ideologo-profeta ha pensato che l’unico aggiustamento di cui il suo credo avesse bisogno fosse passare da “a calcio si gioca così” ad “a calcio si gioca solo così”.
Ma così come? Qui sta il fraintendimento che alla fine ha portato al superamento, alla disintegrazione della dottrina Allegri (che vale la pena ricordarlo oggi più che mai, per un periodo è stata effettivamente attuale e rilevante per quanto odiosa e respingente). Il fraintendimento secondo il quale il calcio di Allegri fosse uno difensivo, il fraintendimento che ignora le cinquanta e più sfumature che stanno tra un calcio difensivo e uno speculativo. Perché il calcio difensivo sopravvive, resiste, esiste: con la ciclicità delle stagioni rifiorisce quando è il momento di rifiorire, perché come tutte le cose vive è fatto per adattarsi alle circostanze, e quindi giocoforza ai cambiamenti, che lo circondano. Con Allegri finisce invece il calcio speculativo, quella filosofia che vuole che, per vincere, sia sufficiente minimizzare le perdite e massimizzare il profitto, che la superiorità di una squadra si basi soprattutto sulle debolezze dell’altra, che la vittoria si raggiunga per sottrazione di errori e non per addizione di tentativi (si scrive corto muso, si legge minimo indispensabile), che metodo e merito coincidano.
Come l’uccello in via d’estinzione, Allegri ha continuato a cantare la sua canzone, indifferente non solo al coro che diventava sussurro e poi bisbiglio e infine silenzio della sua specie, ma anche ai pigolii che diventavano voci e poi urla e poi canzoni di un’altra specie (meglio: di altre specie) di allenatore. Con Allegri finisce quell’idea di calcio secondo la quale la sorte di una squadra è costituita in parte – in buona parte – dalla sorte della squadra che affronta, che il successo si annidi negli interstizi tra un errore e l’altro dell’avversario, che tutto quello che separa i vincenti dagli altri sia la capacità di scavare in quegli interstizi con il coltellino della propria pazienza. Finisce in sostanza quell’idea di calcio formulaico, binario, fatto di ripetizioni e di istruzioni if… then… else; quell’idea di calcio attendista, che vive nel tempo necessario a trasformare l’errore altrui in merito proprio.
Alla fine cosa ha dato Allegri alla Juventus in questi altri tre anni che si sono concessi l’un l’altra? A parte la convinzione di aver fatto l’unica scelta possibile per l’uno e per l’altra, s’intende. Con l’esonero di Allegri finisce anche una sbornia identitaria, per lui e per la Juventus. Va in frantumi quella convinzione che ci siano certi allenatori giusti per certe squadre – e viceversa – non solo, non tanto per quello che sono capaci di fare in campo per il modo in cui si conducono, si percepiscono fuori dal campo. Le battute acide, le risposte piccate, lo sdegno nobiliare e le pose antintellettuali: nulla di tutto questo si porta più, nulla di tutto questo funziona più. Alla fine Allegri è diventato il meme di se stesso – letteralmente: è uno degli allenatori più memificati della Serie A – e in questo ha condiviso la sorte dell’acerrimo nemico Daniele Adani. Segno che quella contrapposizione è ormai passata alla storia, che è un modo delicato di dire passata e basta, dimenticata. E in questo finale tragicomico che Allegri ha deciso di darsi c’è il senso di quella frase degli Hollow Men di T.S. Eliot che così perfettamente riassume queste circostanze: «This is the way the world ends, not with a bang but a whimper».
Se si pensa a come Allegri fu accolto alla Juventus nel 2014, stupisce il modo in cui in questi dieci anni l’allenatore sia riuscito a imporsi come incarnazione di juventinità (e poi per estensione del dominio, per circostanze storiche, dell’italianità calcistica tutta) e come la Juventus si sia fatta specchio, recipiente, conseguenza di Allegri. D’altronde, è l’unica maniera, questa, di spiegare i borbottii malmostosi con i quali fu accolto – verrebbe da dire ospitato, si potrebbe azzardare sopportato – Sarri quando fu scelto per il dopo Allegri ma soprattutto per l’oltre Allegri: a tantissimi juventini non andava bene il passaggio a quel vecchio brontolone in tuta, mozzicone di sigaretta e moka di caffè, c’era la percezione diffusa che la Juventus fosse ormai il corpo “acciughino” di Allegri, il suo sorriso birbone, i suoi completi elegantemente attillati. Quando Allegri è tornato alla Juventus la sensazione è stata quella di una casa affittata a un inquilino disordinato e sudicione che viene finalmente restituita al proprietario che provvede a sistemarla esattamente com’era e soprattutto come dovrebbe essere. «Lo senti? Questo è il suono dell’inevitabilità», sembravano dirsi Allegri e la Juventus mentre si riavvicinavano piano piano. Visto com’è finita, stupisce altrettanto che fossero queste le sensazioni di tre anni fa.
In questi tre anni Allegri è stato troppo impegnato a cantare a squarciagola il suo tentativo di sopravvivenza per accorgersi che l’ecosistema attorno a lui era cambiato più volte – e a suo discapito – mentre lui emetteva sempre le stesse note appollaiato sempre sullo stesso ramo. Giovani promesse sono diventate venerabili maestri, venerabili maestri sono ascesi a soliti stronzi. Una generazione di allenatori ha fatto in tempo a perdersi (Pochettino, Tuchel, Simeone, Conte). Un’altra non ha ancora avuto quello di trovarsi (Nagelsmann, Arteta, Xavi, Ten Hag). Chi sopravvive lo fa nell’unica maniera che l’evoluzione concede: adattandosi (Guardiola, Klopp). Ci sono vecchie volpi che restano tali anche se il pelo ormai è tutto ingrigito (Ancelotti) e altrettanto vecchi lupi ormai glabri con tutto il pelo che hanno perso a furia di indugiare negli stessi vizi (Mourinho). È passato così tanto tempo, nei tre anni in cui Allegri ha continuato a cantare la sua canzone, che è già arrivato il turno della next big thing (Xabi Alonso). E a questa lista potremmo aggiungere anche quelli che hanno vinto in Italia – e quasi vinto in Europa – in questi tre anni: Pioli, Spalletti, Inzaghi. Li ha visti vincere tutti, Allegri, uno dopo l’altro, anno dopo anno, come ha scritto Claudio Pellecchia in questo pezzo. Hanno vinto gli altri e nei modi più diversi, più distanti tra loro: per Allegri l’onta non sta di aver perso contro il nemico che si era scelto negli anni passati, ma di aver perso contro tutte le possibili, altre interpretazioni del gioco che non erano la sua. Anche quelle che dalla sua sono derivate, aggiornandola, attualizzandola.
Ognuno dei nomi di quella lista porta con sé un modo di intendere e di praticare il gioco, conseguenza di un’accelerazione e di una frammentazione della conoscenza calcistica senza pari nella storia del pallone fin qui. La fine della dottrina Allegri, del calcio speculare, è in fondo il disperdersi dell’illusione che il calcio fosse arrivato alla fine della sua storia, che il modo di giocarlo di Allegri – e della sua generazione – fosse l’unico valido erga omnes, che tutto il resto fosse una peculiarità individuale (il tiqui-taka) o una moda passeggera, una bizza infantile. Nel momento in cui le grandi chiese del calcio – quella giochista e quella risultatista, come le abbiamo ribattezzate in questa epoca – si sono divise in un’infinità di congregazioni autonome e autodeterminate, tante quante sono le grandi squadre e i grandi allenatori esistenti, che senso è rimasto nel calcio speculativo di cui Allegri è stato il portavoce-ideologo-profeta? Nessuno, come non ne è rimasto nessuno in quella dicotomia invecchiata così male: non c’è modo di vincere sempre, comunque, contro avversari ogni volta tanto diversi, tanto distanti rimanendo sempre uguali a se stessi. Se ogni squadra è unica anche nei difetti che la diminuiscono e negli errori che la ostacolano, non può esistere un unico modo di approfittare di questi difetti, di quegli errori. In situazioni sempre diverse, Allegri ha continuato a fare sempre la stessa cosa, continuando a pretendere che funzionasse anche quando è stato evidente che non funzionava più. «Follia è fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi». Allegri non ha perso perché è invecchiato male: ha perso perché è rimasto identico a se stesso, identico alla versione di sé giovane e forte. Di dieci o di tre anni fa, però, in un calcio che nel frattempo ha iniziato a generare una versione inedita di sé ogni anno che passa.
C’è un momento inevitabile il cui l’ordine diventa immobilismo e in cui la coerenza diventa pigrizia: questi tre anni di Allegri alla Juventus sono stati un lungometraggio di momenti così. Persino la “svestizione”, che nella prima esperienza juventina lo aveva impresso nell’immaginario collettivo come l’effigie dell’ira funesta che infiniti lutti addusse a tutti gli avversari della Juventus, persino quel significante è finito invertito nel significato: quando Allegri si è strappato i vestiti di dosso durante la finale di Coppa Italia, è sembrata la liturgia stanca dell’ultimo prete di un culto dimenticato. O il canto dell’ultimo uccello appartenete a una specie estinta, che continua a fare sempre la stessa cosa mentre la sua specie si fa sempre meno numerosa e vigorosa, e mentre il mondo attorno a lui va avanti, già pronto alla sua assenza, già dimentico della sua presenza. Allegri ha continuato a fare sempre le stesse cose, sempre nella stessa maniera. Ed è così che, in realtà, si chiudono le epoche: prima o poi.