Il prossimo 30 dicembre LeBron Raymone James Sr. da Akron, Ohio, compirà 40 anni. Metà di questi li ha passati a far autoavverare la profezia del The Chosen One tatuata sulla schiena dopo che Sports Illustrated lo aveva immortalato in una delle copertine più famose di tutti i tempi: quattro titoli Nba, quattro volte Mvp, undici apparizioni alle Finals in 14 stagioni tra il 2007 e il 2020, primo giocatore della storia in una serie pressoché infinita di voci statistiche — tra tutte: oltre 40.000 punti in regular season dopo aver sbriciolato il precedente primato che apparteneva a Kareem Abdul-Jabbar —, una sfida a Father Time che presto si arricchirà di un nuovo capitolo, quella della prima coppia padre-figlio in campo nella stessa partita con la maglia della stessa squadra. E non una squadra qualunque, ma i Los Angeles Lakers che sono stati — e per certi versi sono ancora — di Kobe Bryant e Magic Johnson, di Jerry West e di Wilt Chamberlain, di Shaquille O’Neal e Pau Gasol.
Eppure, l’8 agosto 2024, LeBron Raymone James Sr. ha esultato come gli avevamo visto fare pochissime altre volte nella sua carriera. Lo ha fatto al termine della semifinale del torneo olimpico contro la Serbia di Nikola Jokic, vinta rimontando dal -17 di metà secondo quarto quando tutto sembrava presagire un disastro di proporzioni epiche. E lo ha fatto insieme a Steph Curry (36 punti con 9/14 da tre) e Kevin Durant (che ha avviato il 28-13 di parziale negli ultimi sette minuti segnando la tripla del 78-70), vale a dire gli altri due hall of famer che ha coinvolto in prima persona nella caccia alla quinta medaglia d’oro consecutiva di Team Usa, a vent’anni esatti dal bronzo sbiadito di Atene e del Nightmare Team di cui faceva parte insieme a Dwyane Wade, Carmelo Anthony, Allen Iverson e Tim Duncan. Si è trattato di un’istantanea incredibile, dal grande significato storico ed emotivo e dalla fortissima componente generazionale, tanto che lo stesso LeBron l’ha immediatamente ricondivisa attraverso tutti i suoi canali social; le tre superstar simbolo della Nba degli anni Dieci finalmente dalla stessa parte, i supereroi che vincono da soli o quasi una delle partite più belle della storia del basket olimpico, contro la squadra guidata dal giocatore più forte, influente e decisivo di questa nuova era del gioco: «Dobbiamo festeggiare una vittoria del genere, dobbiamo imparare a celebrare anche questi piccoli momenti: posso garantire che nessuno di noi qui dimenticherà questa serata per il resto della sua vita. È stato davvero speciale», ha detto KD.
La semifinale contro la Serbia, risolta solo nel quarto periodo con un parziale di 32-15
Un due volte campione Nba che parla in questi termini di una semifinale olimpica è la prova tangibile di quanto il tempo vada molto più veloce rispetto a quelle che ci appaiono come convinzioni immutabili e inscalfibili. Ma dietro queste parole c’è anche altro, c’è un significato diverso e ulteriore che riguarda strettamente il campo e la competizione. James lo ha rivelato nell’huddle a favore di microfono e telecamera che precede il rientro negli spogliatoi: «Non è finita, ne manca ancora ancora una, ancora una sola cazzo di partita. Sapevamo che in questo cazzo di torneo saremmo stati messi alla prova. Andiamo!». È un cambio di paradigma significativo, che non è più solo nella percezione soggettiva di giocatori, tifosi e addetti ai lavori, ma nella durezza e nella malmostosità di partite sempre più spesso punto a punto contro le migliori squadre dell’area Fiba. Non solo e non necessariamente la Serbia di Jokic (che dal 2021 è stato nominato Mvp della regular season in tre delle ultime quattro stagioni) o la Francia di Wembanyama: nelle due amichevoli contro Sud Sudan e Germania è servita tutta la supremazia tecnica, fisica e mentale che LeBron è ancora in grado di esercitare in una singola partita per riuscire a vincere.
È questa la nuova realtà che i miti della Nba stanno provando a far accettare a chi ancora crede a un’idea di dominio incontrastato che non esiste più, anzi che non può esistere più: e, quindi, dopo quanto accaduto ai Mondiali nel 2019 e nel 2023, per gli Stati Uniti anche le Olimpiadi non rappresentano una sfida al ricordo del Dream Team del 1992 ma una selvaggia lotta per la sopravvivenza. Ed è una lotta che oggi si può perdere anche se dalla tua parte ci sono James, Curry e Durant in missione per conto di Dio e di Usa Basketball: «I serbi hanno giocato la partita perfetta e ci hanno costretto a raggiungere il nostro livello di competitività più alto: quello che abbiamo fatto nell’ultimo quarto è stato incredibile», ha detto il fenomeno dei Golden State Warriors, uno che viene considerato il miglior tiratore di tutti i tempi e che ha cambiato per sempre il modo in cui si gioca a basket nel XXI secolo, che sia al campetto dietro casa o in una gara-7 delle Finals cambia poco o nulla.
Per capire a cosa si riferisca Curry basta scorrere i post e le live reaction su X degli altri giocatori Nba, che la partita contro la Serbia l’hanno vista e vissuta a un oceano di distanza. Anche solo dieci anni fa sarebbe stato impensabile non leggere una singola critica a un Team Usa che vince solo di quattro punti, per di più dopo essere stato in svantaggio in doppia cifra per 37 minuti su 40; stavolta, invece, c’è stato spazio solo per la celebrazione della grandezza di Steph e LeBron e dell’intensità di una gara in cui i vari Bogdanovic, Guduric e Avramovic non sono certo stati da meno di Edwards, Embiid, Booker e tutti le altre superstar che Steve Kerr ha potuto schierare insieme ai Big Three. Così come non sono stati da meno Yabusele — che racconterà per sempre la notte di San Lorenzo in cui posterizzò LeBron James —, De Colo, Fournier e tutti gli altri che hanno fatto sì che la Francia arrivasse a un solo possesso di distanza a tre minuti dalla fine con legittime ambizioni di vittoria.
Anche per questo pure sui media la sensazione era quella che un successo della Serbia o della Francia in finale sarebbero stati molto più semplici da spiegare e raccontare senza dover per forza ricorrere all’iperbole dalla caduta degli dei o alla retorica opposta degli underdog che scioccano il mondo: non a caso il 26 luglio, due giorni prima dell’esordio degli americani nel torneo olimpico — sempre contro la Serbia: vittoria 110-86 con 21 punti in 20 minuti di Durant — il giornalista freelance Oren Weisfeld ha pubblicato sul Guardian un articolo in cui si chiedeva se a Parigi sarebbe terminata l’era del dominio olimpico della squadra maschile di basket a stelle e strisce visto che «il resto del mondo sta colmando il gap ed è solo una questione di tempo prima che una sconfitta riveli tutta l’imperfezione che c’è dietro il talento fuori scala degli americani». La finale di sabato ha detto che per quella sconfitta bisognerà aspettare ancora un po’, ma il punto è proprio questo: al di là della vittoria, del quinto oro consecutivo conquistato a casa di Wembanyama, dell’idea della missione portata a termine, non è più questione di se ma di quando gli Stati Uniti arriveranno a perdere (di nuovo) una partita che vale una medaglia pur schierando il meglio che la Nba può offrire. Anche perché di Steph Curry capace di mettere quattro triple alla Curry nel momento più difficile della partita che vale l’oro olimpico ce n’è uno solo persino di là.
La finale, con le quattro triple di Steph Curry che hanno ricacciato la Francia padrona di casa al secondo posto dopo che i Bleus erano risaliti fino a -5
La questione è sul tavolo di Usa Basketball fin dal 2019, al termine di una stagione in cui quattro dei sei premi individuali che vengono assegnati al termine della regular season vennero vinti da giocatori stranieri. Ed è tornata di strettissima attualità nel 2021 quando, come ricordato anche nel pezzo di Weisfeld, il nuovo managing director Grant Hill ha cambiato l’approccio con cui il predecessore Jerry Colangelo aveva ricostruito il mito della squadra americana dopo le fragorose cadute dei primi anni Duemila: l’orizzonte temporale del singolo progetto olimpico si è ristretto (passando da quattro a due anni) e anche il coinvolgimento degli atleti ha finito con il rientrare in quella logica da istant team che ha fatto danni tremendi tra il 2001 e il 2006, per cui i giocatori si ritrovano con sempre meno tempo a disposizione per diventare una squadra nel vero senso del termine. Ammassare talento, mettere insieme i migliori giocatori del mondo e lasciare che siano loro a trovare una strada per farcela, non basta più; soprattutto quando di fronte ci sono avversari che hanno avuto tutto quel tempo che, invece, gli Nbaers non hanno (e, probabilmente, non avranno mai) per costruire le proprie certezze individuali e collettive.
C’è, però, un’ulteriore considerazione da fare. Ed è connessa al livello dei giocatori che gli americani affrontano ogni quattro anni, al di là del numero sempre crescente di internationals che diventano protagonisti in una Nba sempre più globale e globalizzata — Davide Fumagalli ha raccontato su Eurosport come dagli appena otto non-americani del 1992 si sia passati agli oltre 60 del 2024. Fino a qualche tempo fa eravamo tutti abituati a ragionare per sottrazione nella misura in cui ogni sconfitta degli Stati Uniti veniva raccontata attraverso il filtro del non sono gli altri che vincono ma sono loro che perdono: per un roster mal assemblato, per un coach che non godeva di abbastanza credibilità per farsi seguire dalle grandi stelle, per la presenza di seconde e terze linee che non rientravano nemmeno nella top-20 dei migliori in quel momento. Oggi tutto passa in secondo piano rispetto al valore di avversari cresciuti nel mito della lega più famosa del mondo e che proprio lì si formano e si completano affrontando i migliori del mondo per diventarlo a loro volta, ribaltando completamente rapporti di forza, prospettive e percezioni di competitività a medio e lungo termine. E non parliamo solo dei fenomeni assoluti come Jokic, Doncic, Antetokounmpo e Gilgeous-Alexander, ma anche di quelli che in America trovano una dimensione da role players che altrove non avrebbero mai sviluppato: Dennis Schröder, Daniel Theis e i fratelli Wagner, ad esempio, sono diventati le pietre angolari della Germania campione del mondo nel 2023 nel momento in cui si sono ritagliati uno spazio che era solo loro all’interno delle rotazioni delle rispettive squadre, costruendosi una solida fama di specialisti all’interno dell’intera lega.
La visione di una Nba che si apre ai nemici allevandoli come fossero figli suoi in cambio di una diffusione planetaria e di maggiori introiti commerciali, del resto, è un tema che ricorre fin dall’inizio dell’era Stern, ma solo nell’ultimo decennio gli americani hanno cominciato davvero a fare i conti con l’idea che il primato nel basket possa essere messo in discussione perché sono gli altri, nel frattempo, a essere diventati più forti. Anche quelli che in Nba non ci giocano più o non ci giocano giocano ancora come Mathias Lessort, centro del Panathinaikos, che coach Vincent Collet ha elevato a rappresentazione plastica di una nuova generazione di giocatori che della Nba non ha nemmeno più bisogno visto che il livello medio si è alzato ovunque. «La gente si concentra quasi esclusivamente sui ragazzi che giocano Nba, ma la nostra squadra è mix tra giocatori della Nba e di Eurolega. Mathias quest’anno ha vinto il campionato e l’Eurolega ed è stato probabilmente il miglior giocatore della competizione. Eppure non gioca in Nba e non capisco perché», ha detto dopo il quarto di finale contro il Canada che la Francia ha vinto trascinata dallo stesso Lessort, da Yabusele e da Isaia Cordinier, che gioca nella Virtus Bologna dal 2021 dopo che nel 2016 era stato draftato dagli Atlanta Hawks con la scelta numero 44, vivendo il suo personale sogno americano giusto il tempo della Summer League di Las Vegas.
Paradossalmente, o forse no, tutto questo non fa che accrescere il valore di questa e delle altre medaglie d’oro che gli Stati Uniti saranno in grado di conquistare da qui in avanti. Anzi si potrebbe persino dire che aver perso quest’aura polverosa di invincibilità abbia restituito il giusto valore a un’impresa sportiva che non può essere ridimensionata solo perché oggi ci sono Curry, James e Durant e domani ci saranno Holmgren, Ja Morant, Cooper Flagg e chissà chi altro; perché vincere è difficile, ripetersi lo è ancora di più e perdere è un’eventualità che va sempre messa in conto. Da oggi, anzi già da qualche tempo, vale anche nel basket e vale anche per gli Stati Uniti. Il Dream Team era nel 1992, era 32 anni fa, purtroppo o per fortuna, e nel frattempo il resto del mondo è andato avanti. E va bene così, almeno fino a Los Angeles 2028; quando capiremo se per quel sorpasso ci sarà ancora da aspettare o se è invece tutto già avvenuto mentre noi perdevamo tempo a chiederci quando sarebbe successo o quanti giocatori Nba servono per battere altri giocatori Nba.