Cosa c’è che non funziona nella Serie B

È iniziato un campionato che vive delle evidenti difficoltà, sia nei bilanci che nel mercato dei club.

Nell’anno 2024, che piaccia o meno, la credibilità e l’appeal di una lega calcistica si misurano a partire da un singolo parametro, un parametro che si potrebbe definire supremo e oggettivo e inappellabile: la quantità di soldi garantiti dalle emittenti televisive che acquistano i diritti di trasmissione delle partite, una cifra che a sua volta è inversamente proporzionale alle difficoltà incontrate lungo il processo di vendita. Se partiamo da questo assunto, allora si può dire che la Serie B viva un momento quantomeno complicato: l’acquisto dei diritti tv da parte di Dazn è stato ufficializzato solo pochi giorni fa, praticamente a ridosso della prima giornata, e in queste ore si parla ancora dell’eventuale coinvolgimento di altri player, quindi di possibili nuovi accordi – tra la lega e i club, ma anche tra le emittenti – per provare ad aumentare gli introiti. Per dare un’ulteriore boccata di ossigeno a tanti club che, per dirla con una frase fatta, non navigano nell’oro.

La verità è che la Serie B è un campionato economicamente e managerialmente precario, al quale si iscrivono tante squadre con bilanci pericolanti. E le difficoltà sono trasversali, cioè non c’entrano con la storia e la nobiltà delle squadre in questione, con l’importanza delle loro tifoserie: se i piccoli club che vengono fuori dall’imbuto della Serie C hanno problemi atavici come quelli relativi agli impianti non a norma e/o alla scarsa disponibilità economica, ce ne sono molti altri, decisamente più blasonati, che hanno delle proprietà poco solide, in odore di abbandono. O che comunque sono reduci da anni burrascosi.

Ecco qualche dato e qualche fatto a supporto di questa tesi: se guardiamo alle 20 società della Serie B 2024/25, scopriamo che solo sette non sono fallite almeno una volta negli ultimi vent’anni. Si tratta di Brescia, Cittadella, Cremonese, Frosinone (fallito e rifondato nel 1990), Sassuolo, Südtirol e Sampdoria – che però pochi mesi fa era vicinissima alla sparizione, prima di essere salvata con un intervento last minute di nuovi azionisti. E se questo elenco non vi fosse bastato, beh, potete rileggere la cronaca delle ultime ore e degli ultimi anni: proprio qualche giorno fa, a Salerno, Iervolino ha annunciato le sue dimissioni da presidente dopo settimane di voci sul suo possibile disimpegno; il Lecco, dopo il clamoroso caso dell’estate 2023 e il ritorno in Serie C, è stato a un passo dal fallimento. Una sorte solo leggermente migliore a quella che, se guardiamo soltanto agli ultimi cinque anni, è toccata ad Alessandria, Pordenone, Trapani, Livorno e Foggia, tutti club retrocessi dalla Serie B e poi falliti subito dopo. A questo elenco, poi, andrebbero aggiunte anche squadre come Chievo e Reggina, radiate per inadempienze finanziarie nonostante avessero mantenuto la categoria sul campo.

Premessa: non siamo qui per raccontare le criticità del calcio italiano a partire da quelle relative alla Serie B, ma ci interessa capire cosa c’è di sbagliato nel campionato cadetto iniziato questo weekend. In questo senso, l’albo d’oro degli ultimi anni è un memorandum abbastanza indicativo e significativo: la promozione in Serie A è andata a club gestiti da persone/cordate molto ricche o che hanno messo a punto un modello di business virtuoso, quindi in grado di sostenere un anno o due di bilanci in passivo. Stiamo parlando di Frosinone, Parma, Empoli, Lecce, Cagliari e Genoa, stiamo parlando ovviamente del Monza, del Como e del Bari di De Laurentiis, che ha sfiorato la promozione via playoff soltanto un anno fa. Stiamo parlando anche di Venezia, Spezia e Salernitana, società gestite in modo più avventato e che infatti hanno pagato/stanno pagando i loro errori. Ecco, da questo elenco viene fuori una tendenza chiara ma anche apparentemente banale: solo le squadre che investono bene, o comunque tanto, possono aspirare a raggiungere la Serie A. Il punto, come detto prima, è che questi club hanno le risorse per assorbire bene i buchi di bilancio determinati da una o due stagioni in Serie B – anche grazie al paracadute per chi retrocede. E così riescono a sottostare alle regole non scritte, ma reali, che caratterizzano la seconda divisione della piramide calcistica italiana. Regole che la renderanno anche imprevedibile e quindi affascinante, ok, ma che la condannano a essere inefficiente dal punto di vista economico.

Queste regole sono il nocciolo di questa analisi, e riguardano il modo in cui presidenti e direttori sportivi assemblano le loro squadre. Si può cominciare da un dato apparentemente positivo, ma che va sviscerato bene: secondo gli algoritmi di Transfermarkt, la Serie B ha un valore aggregato delle rose che supera quello delle altre seconde divisioni europee – escludendo ovviamente la Championship, che vive su un altro pianeta. Un anno fa, infatti, le 2o squadre iscritte arrivavano a 633 milioni di euro, mentre in questa stagione appena iniziata (ricordiamo che il calciomercato è ancora aperto) siamo a 517 milioni: entrambe le quote sono sensibilmente più alte rispetto a quelle della Liga2 (465 milioni), della 2.Bundesliga (441 milioni) e della Ligue 2 (327 milioni). Ebbene, questo vuol dire che la situazione è simile anche negli altri Paesi europei? Sì, è così. Ma solo in parte: il problema della Serie B è che questo capitale tecnico/umano non costituisce un reale patrimonio per i club della lega, visto che appartiene ad altri. Soprattutto alle società di Serie A che detengono i cartellini dei giocatori e li cedono solo in prestito. Le statistiche, in questo senso, sono eloquenti e inquietanti: nella Serie B 24/25 ci sono 74 calciatori tesserati a titolo temporaneo, di cui 58 sono di proprietà di club di Serie A. È una quota molto più alta rispetto a quella della Liga2 (35), più che doppia rispetto a quella della 2.Bundesliga (28) e più di cinque volte superiore rispetto a quella della Ligue 2 (11). Va detto che, su 74 operazioni in prestito, 25 prevedono l’obbligo di riscatto, 13 hanno l’opzione e 23 sono onerose.

La conseguenza di questa situazione, molto banalmente, è che i soldi girano meno quanto potrebbero o dovrebbero. E allora la Serie B viene vista e sfruttata come una lega di sviluppo, solo che le società che si prestano a questo processo non sono economicamente premiate per ciò che fanno. Lavorano come delle squadre affiliate senza esserlo davvero, e allora fanno un’enorme fatica a crescere. Anche questa prospettiva trova riscontro nei dati: se guardiamo alla sessione trasferimenti ancora in corso, ci sono stati sei affari conclusi tra club di Serie A e club reduci dal campionato di Serie B 23/24.

Il Brescia è la squadra che ha partecipato a più edizioni del campionato di Serie B, 66 in totale (Miguel Medin/AFP via Getty Images)

In Liga2, 2.Bundesliga e in Ligue 2, la situazione è molto diversa. Il calciomercato è davvero tale, cioè è un mercato reale, un sistema aperto in cui ci sono club venditori e club compratori che trattano e che alla fine trovano un accordo, non un ambiente chiuso con dei soggetti che godono di una netta posizione dominante. È a partire da questa distorsione che si origina la precarietà costante in cui vivono molti club di Serie B, costretti a valorizzare asset altrui. E che, per cercare di sopravvivere al di là dei prestiti, possono/devono ricorrere solamente ad acquisti a parametro zero, quindi ad atleti spesso vecchi o comunque scartati dai club di Serie A. Ovviamente non si tratta solo di una scelta, ma anche di un adattamento alle contingenze: la Federcalcio, infatti, non ha ancora assorbito il nuovo regolamento Fifa del 2022, che prevede la diminuzione graduale del numero massimo di prestiti consentiti stagione dopo stagione.

In un contesto del genere, c’è meno margine per investire sui giovani, per scovarli e lanciarli: il rischio di retrocedere in Serie C diventerebbe enorme. Alcuni club – il Cittadella, il Südtirol – sono riusciti a stabilizzarsi, a trovare il modo di bilanciare investimenti sul mercato, prestiti e risultati sportivi. Ma si tratta di eccezioni sparute. Ed è un peccato, perché in fondo il materiale su cui lavorare ci sarebbe pure. A dirlo sono i fatti: se guardiamo agli ultimi Europei, scopriamo che solo Donnarumma, Bastoni, Cristante, Chiesa, Pellegini e Raspadori, tra i convocati dell’Italia di Spalletti, non hanno disputato una o più stagioni di Serie B; tutti gli altri convocati nella Nazionale azzurra, invece, avevano esperienza nel campionato cadetto. E, allo stesso modo, nelle altre Nazionali qualificate al torneo continentale, c’erano ben dieci giocatori di squadre iscritte alla Serie B 23/24.

Insomma, la Serie B è un campionato potenzialmente ricco di risorse tecniche e quindi anche di appeal. Allo stesso tempo, però, un sistema disfunzionale fin dalla sua sommità, un sistema che dalla Serie A in giù fa leva sull’istituto del prestito come unica soluzione per valorizzare i giovani, ha finito per contingentarne la crescita. A meno che, come detto e come dimostrano gli ultimi campionati, non intervengano delle proprietà ricche o magari straniere – che non sono necessariamente migliori di quelle italiane, ma che almeno non sono “contaminate” dalle tendenze storiche del nostro movimento – a cambiare gli scenari e le prospettive. Anche qui ci sono dei dati piuttosto eloquenti e significativi: Parma, Como e Venezia, i club promossi in Serie A pochi mesi fa, avevano un totale di sette giocatori in prestito nelle proprie rose. E tutti e tre appartengono a cordate che arrivano dall’estero. Forse è un caso, o forse no.