Tra Federico Macheda e l’Old Trafford fu amore a prima vista. Un fulmine a ciel sereno. Dalla periferia di Roma Est al Manchester United di Alex Ferguson, quando a soli 17 anni (era il 5 aprile 2009), buttato nella mischia al posto di Nani, allo scadere regalò ai Red Devils il successo sull’Aston Villa con un gol da stropicciarsi gli occhi. Il bis una settimana dopo contro il Sunderland: di secondi dal suo ingresso in campo ne erano trascorsi solo 46. Due perle, sei punti messi in cassaforte e un titolo di Premier League che quell’anno, proprio grazie a lui, parlò anche con accento romano. Lo stesso che Kiko Macheda non ha mai perso nonostante la sua vita da globetrotter del pallone lo abbia portato a girare mezza Europa: Sampdoria, QPR, Stoccarda, Doncaster, Birmingham, Cardiff, Nottingham Forest, Novara, Panathinaikos, Ankaragükü, APOEL Nicosia e ora Asteras Tripolis, di nuovo in quella Grecia che ormai lo ha adottato. Dove continua a fare ciò per cui è nato: gonfiare la rete.
Ⓤ: Sei gol e due assist nelle tue prime 14 presenze in maglia Asteras. Sei soddisfatto?
Sì, sono arrivato in una piazza tranquilla, che conoscevo, e mi sono ambientato subito bene. Era importante partire col piede giusto.
Ⓤ: In cosa pensi di essere migliorato particolarmente nel corso degli anni?
Nella gestione del corpo. Col trascorrere del tempo impari a conoscere meglio il tuo fisico, sia durante gli allenamenti sia durante le partite. Da giovane magari non pensi molto all’importanza del recupero o del lavoro in palestra. L’esperienza serve anche a migliorare sotto questo punto di vista.
Ⓤ: Nella tua carriera hai subìto diversi infortuni. Dove hai trovato ogni volta la forza di rialzarti?
Gli infortuni fanno parte della vita di un calciatore, anche se ovviamente quando non ci sono va sempre meglio. In ogni caso la forza di reagire proviene dalla voglia di continuare a giocare. Quando non puoi farlo, hai tanto tempo per pensare, ragionare e tornare più forte di prima. Questa almeno è la mia mentalità.
Ⓤ: Senti di dover dire grazie a qualcuno?
Accanto a me ho sempre avuto le persone giuste, su tutte mia moglie Martina. Quando attraversi momenti difficili è fondamentale avere attorno questo tipo di persone, che ti spronano a non mollare e a continuare a perseguire il tuo obiettivo.
Ⓤ: Sarebbe stata diversa la tua vita senza quel gol all’esordio col Manchester United?
Sinceramente non lo so, di certo è stato un momento indimenticabile. Ora, da uomo maturo, posso dire che è stata una sensazione che riproverei altre mille volte. Segnare al debutto in uno stadio come l’Old Trafford è un qualcosa che vorrebbero vivere tutti. Non so se la mia vita sarebbe stata diversa, di certo sarebbe potuta andare anche peggio.
Ⓤ: Cosa ricordi di quel giorno?
Anche se ormai sono passati tanti anni, ricordo ancora nitidamente il gol, l’esultanza, tutto quello che è venuto dopo. È stata una giornata unica, un’emozione che porterò per sempre nel mio cuore.
Ⓤ: È vera la frase che dicesti prima della partita al tuo compagno di squadra Davide Petrucci: “Oggi quello stadio lo faccio crollare”?
Verissima. Ma non lo dissi solo a lui, anche a tanti altri miei amici. Quel giorno avevo addosso una convinzione tale che ero certo che se avessi giocato sarei anche riuscito a fare gol.
Ⓤ: Il 41 che utilizzi oggi è dovuto al 41 che indossavi ai tempi del Manchester United?
In parte sì. La verità è che quando sono arrivato all’Asteras il 41 era l’unico numero disponibile. Diciamo che è stata una bella coincidenza o, come si dice a Roma, è capitato “a cecio”.
Ⓤ: Chi è stato e chi è per te Alex Ferguson?
Colui che mi ha regalato un sogno e che mi ha fatto diventare un giocatore professionista. Mi ha permesso di assaporare il grande calcio dandomi l’opportunità di giocare in un club immenso come il Manchester United. Per questo è una persona che stimo molto e che ringrazierò a vita.
Ⓤ: Il miglior insegnamento che ti ha dato?
Non ce n’è uno in particolare ma la cosa che mi è rimasta più impressa è il modo che aveva di trattare i giocatori, tutti allo stesso modo. Potevi essere Rooney, Cristiano Ronaldo o un giovane come me. A lui non interessava, aveva lo stesso comportamento con tutti, senza far sentire mai nessuno più importante di un altro o al di sopra della squadra. Questo ha fatto sì che il club vincesse tanti titoli.
Ⓤ: Che rapporto avevi con Cristiano Ronaldo?
Ho giocato solo qualche mese con lui ma era già una figura di esempio per tutti. Aveva vinto un Pallone d’oro, era agli inizi di una carriera straordinaria. Per me è stato ed è ancora un grande, ho un bellissimo ricordo.
Ⓤ: Tra i tuoi compagni di reparto c’erano Rooney, Berbatov, Tévez…
Sembrava un videogioco, invece era tutto reale. Ho avuto la fortuna di condividere lo spogliatoio con loro e di vedere come si allenavano ma soprattutto come trasformavano la preparazione in partita. È stata un’esperienza unica.
Ⓤ: C’era anche un giovane Scott McTominay. Avresti mai detto che sarebbe diventato così forte?
Io me lo ricordo piccolino, perché quando ero in prima squadra lui giocava ancora nelle giovanili. Poi però ha saputo far vedere grandi cose anche negli anni più difficili del Manchester. Sono molto contento di quello che sta facendo a Napoli, perché conosco il ragazzo ed è un gran lavoratore. Sono felice per lui e per la Serie A che ora se lo può godere.
Ⓤ: Quanto ti fa male vedere il Manchester United di oggi così in difficoltà?
È sicuramente doloroso, sia per i tifosi sia per le persone che come me sono legate al club. Siamo abituati a vederlo vincere titoli su titoli e competere su tutti fronti. La speranza è di ritrovarlo presto a lottare per trofei importanti, come sempre.
Ⓤ: Rifaresti tutto o cambieresti qualcosa?
A posteriori è facile parlare. La mia carriera è andata così: ho avuto tante esperienze negative ma anche tante altre positive. Credo che quando le cose debbano andare in un certo modo ci sia poco da fare. Io comunque sono contento di ciò che ho ottenuto. Ovviamente uno spera che tutto vada sempre per il meglio ma la vita di un giocatore è fatta di alti e bassi. Sono felice soprattutto di come ho saputo reagire alle batoste.
Ⓤ: Quando oggi ti guardi allo specchio, cosa vedi?
Un Federico maturo, che non ha mai mollato e che ha ancora tanto da dare. Ho 33 anni ma la stessa voglia di un ragazzino. Davanti a me vedo ancora tante stagioni importanti.
Ⓤ: Credi che l’essere diventato papà (di Lorenzo, 8 anni, ndr) ti abbia cambiato in qualche modo?
Senza dubbio. Quando diventi padre capisci tante cose che quando sei giovane non conosci nemmeno. È una responsabilità immensa e stupenda. Un figlio ti stravolge la vita in positivo.
Ⓤ: Che padre pensi di essere?
Giudicarmi da solo non è facile (ride, ndr). Di certo mio figlio ha una madre fantastica: ora che non viviamo assieme (la famiglia vive ad Atene, ndr) sta ricoprendo un po’ entrambe le figure genitoriali. Però appena posso corro da loro. Nonostante la distanza, penso di essere un papà presente, cerco di insegnargli il meglio.

Ⓤ: La Grecia è diventata la tua seconda casa?
Sì, qui mi sono sempre trovato alla grande. Ho trascorso quattro anni al Panathinaikos, dove sono stato benissimo, e appena ho avuto l’opportunità di tornare non ci ho pensato due volte. Credo che le prestazioni in campo sia giusto abbinarle anche alla vita privata. Se stai bene fuori poi stai bene anche sul terreno di gioco. L’importante è essere in un posto che ti rende felice.
Ⓤ: Cosa ti piace della Grecia?
Credo sia un paese molto simile all’Italia, ma se proprio devo scegliere un aspetto dico sicuramente il clima. Siamo a gennaio e ci sono 19 gradi, al sole si sta bene.
Ⓤ: Hai un posto preferito?
Atene. Ci ho vissuto quattro anni, ora ci vive la mia famiglia ma ogni settimana ci torno anch’io. È una città in cui ho lasciato il cuore. Molti conoscono solo il centro, invece a Sud ci sono tante altre zone bellissime come Glifada, Vouliagmeni e Voula, tutte sul mare.
Ⓤ: Il calcio greco a che punto è?
Sicuramente in crescita. Lo dimostra la vittoria dell’Olympiacos in Conference League nella passata stagione ma anche giocatori importantissimi come Lamela e Martial che scelgono di giocare qui (sono entrambi all’AEK, ndr). È un campionato in ascesa, difficile e bello da disputare, dove anche le squadre più piccole si rinforzano sempre più.
Ⓤ: Con la lingua come va?
Devo dire che ormai un po’ la parlo. Forse, come dice mia moglie, anche meglio dell’italiano (ride, ndr).
Ⓤ: C’è una parola che utilizzi spesso?
Sì, ma è una parolaccia: “malaka”. Significa “stronzo”, non so se si può scrivere…
Ⓤ: Un sostantivo per ogni Paese in cui hai giocato.
Inghilterra: pioggia, Galles uguale. Turchia: kebab. Non ne ho mangiati tanti ma è davvero ovunque. Grecia: mare, Cipro pure. Germania: birra!
Ⓤ: In questi anni hai mai avuto la possibilità di tornare a vestire l’azzurro?
Purtroppo no, perché dopo l’Under 21 ho vissuto delle stagioni difficili e non si sono più i creati i giusti presupposti.
Ⓤ: Ci speri ancora?
A 33 anni ammetto che è difficile. Gioco in un campionato che non è tra i primi quattro in Europa e ora la Nazionale punta tanto sui giovani. Credo che al momento sia impensabile.
Ⓤ: Lo scorso 26 gennaio (quinto anniversario della sua morte) hai pubblicato una story su Instagram dedicata a Kobe Bryant. Era il tuo idolo?
Sì, mi piaceva molto. È stata una figura che ha ispirato tanti sportivi come me, per la sua metodologia di allenamento e per come affrontava le partite. È stato un personaggio che mi ha aiutato nei momenti di difficoltà, magari anche solo leggendo alcune sue citazioni, riguardando delle sue giocate e in generale il suo modo di essere atleta.
Ⓤ: Segui il basket?
Sì, mi piace. Qui poi è seguitissimo e le due squadre di Atene (Panathinaikos e Olympiacos, ndr) sono molto forti. Assistere dal vivo a una partita di pallacanestro in Grecia è molto divertente, c’è un’atmosfera del tutto diversa rispetto al calcio. Assolutamente da provare almeno una volta nella vita.
Ⓤ: Su Instagram hai scritto: “Preparations beats fear or failure” e “Winners never quit”. Che significato hanno per te queste frasi?
Racchiudono un po’ il senso del lavoro che è necessario avere per raggiungere i propri obiettivi. Perché la verità è che se non sei preparato il successo sicuramente non arriva.
Ⓤ: Cosa diresti oggi al Federico ragazzino che viveva a Roma e sognava di diventare un calciatore?
Di vivere la vita che ha avuto. Io ho fatto tutto al massimo delle mie possibilità. Mi sono divertito tantissimo, magari anche in modo un po’ immaturo. Sono stato un bravo ragazzo ma anche un “pazzo”, nel senso che se volevo fare una cosa la facevo e basta, sia in campo sia fuori. Non ho mai mancato di rispetto a nessuno, è stato un viaggio abbastanza lungo ma me lo sono goduto. E nei momenti difficili sono sempre riuscito a reagire, anche grazie al mio carattere forte. Magari tanti altri non ce l’avrebbero fatta.
Ⓤ: Alla Serie A ci pensi?
No, sono sincero. Durante la mia carriera ho avuto due o tre volte la possibilità di tornarci, per vari motivi poi non è mai accaduto. A livello calcistico mi sono trovato molto bene all’estero. Forse proprio per questo il mio nome è sempre stato rispettato più fuori che in Italia. Nella vita non si mai ma in questo momento alla Serie A non ci penso.
Ⓤ: Nemmeno alla Lazio?
Tutti sanno che sono laziale ma devo anche essere realistico e ora è difficile. Penso solo a continuare a fare bene con l’Asteras. Stiamo disputando un ottimo campionato (la squadra è quinta in classifica, ndr) e siamo in semifinale di coppa (la Coppa di Grecia, che si chiama Kypello Ellados, ndr). Cerchiamo di chiudere la stagione alla grande, poi si vedrà.
Ⓤ: Il tuo sogno nel cassetto?
Vincere la Coppa con l’Asteras e giocare in Europa il prossimo anno. Ho imparato a guardare molto più al presente, non al passato né al futuro