L’equivoco s’è risolto in un eloquente 5-0. Manita psicodrammatica all’Inter, schiaffo sonante alle certezze del calcio italiano ed europeo. Che fino a Monaco di Baviera, 31 maggio 2025, erano stati assorbiti – in parte comprensibilmente – dal mitologico pathos profuso dall’altra semifinale, culminata nel 4-3 di San Siro che estrometteva la corazzata Barça dalla corsa. Ecco: più di qualcuno, intanto, aveva trascurato cosa stesse covando in casa PSG. Eliminato il Liverpool ad Anfield? Le parate di Donnarumma. Fuori l’Aston Villa ai quarti? Eh, ma Donnarumma. E l’Arsenal in semifinale? Beh: prima o poi l’Arsenal esce sempre da un grande torneo. E così via. In pochi, fino a Monaco, davano credito con opportuno tempismo allo straordinario lavoro di Luis Enrique. Anzi: in molti non gliel’avevano concesso affatto.
Dunque il verdetto da record, nella finale di Champions più a senso unico di sempre, impone la riflessione: perché dopo oltre un decennio sulle panchine di mezza Europa, con notevoli trionfi annessi già prima di sabato, lo spagnolo non era mai stato annoverato tra i migliori allenatori in circolazione? E per migliori intendiamo quelli che si contano sulle dita di una mano. Colpa di una nomea sfortunata, forse. O di etichette facili da appiccicare e difficili da staccare via: l’essersi formato all’ombra di Guardiola, estremizzandone i concetti, fino a diventarne la brutta copia caricaturale e ossessionata da un fagocitante possesso palla, sempre e comunque.
A Roma (2011/12) lo chiamavano Demental coach. «I tifosi non capiscono quello che faccio», rispondeva Luis, vedendoci lungo già allora. Nemmeno vincere il Triplete al Barcellona (2015) gli valse l’onore delle armi: con uno squadrone del genere – MSN, Xavi e Iniesta ancora a disegnare calcio – sono capaci tutti, gli rinfacciavano. E infatti, parola dei detrattori, tutti i nodi sono venuti al pettine più tardi allenando la Spagna – in un quadriennio in ogni caso segnato dalla tragedia personale relativa alla piccola Xana. La Roja sarà anche stata la formazione che più ci ha fatto dannare a Euro 2020, pressing asfissiante e manovra avvolgente. Ma, alla fine, è andata fuori. Fino al Mondiale in Qatar, dove la cocente eliminazione per mano del Marocco – ai rigori, dopo 120′ di passaggi sterili – aveva sancito la condanna a morte del Tiqui-Taca in tutte le sue declinazioni. Aggiungiamoci pure che, col nuovo commissario tecnico, la Spagna è tornata a spadroneggiare – Nations League più Europeo in due anni – ed ecco il giudizio spietato su Luis Enrique: fumo e mulini a vento. Buono al massimo per i parigini, in crisi identitaria dopo l’era Neymar e prossimi a salutare anche Mbappé.
Niente di più sbagliato. E non serviva Monaco per capirlo. A proposito di Barcellona: Hansi Flick, con un arsenale offensivo non meno temibile di dieci anni fa, contro l’Inter era invece incappato nella sindrome del Brasile ’82. Essere più forti non equivale a segnare più degli altri. Servono idee, strategie, profonda conoscenza umana dei propri giocatori. Già quel Triplete fu un segnale di grandezza tattica. E tra i fiaschi con la Nazionale e il capolavoro di oggi c’è un gigantesco filo conduttore: nessun attaccante di ruolo in campo (Asensio, Olmo e Ferrán Torres che sbattono sul Marocco, Doué, Kvara e Dembélé che travolgono i nerazzurri). Perché il calcio non è mai una scienza esatta, perché Luis Enrique è un allenatore che non si snatura mai. E se ora è diventato il secondo di sempre – ovviamente accanto a Guardiola – a conquistare il triplete con due squadre diverse, i fatti rimetteranno presto in ordine quel che i giudizi avevano confuso (anzi, al PSG è stato addirittura poker: Champions, Ligue 1, Coppa e Supercoppa di Francia). Cioè che siamo di fronte a un fuoriclasse come pochi altri.
Quando l’estate scorsa si consumava l’addio di Mbappé in direzione Real Madrid, mentre la Francia intera versava smarrita – vi ricordate Macron, che tirava Kylian per la maglietta implorandolo di restare al PSG? –, Luis Enrique al contrario si pronunciò con imperturbabile brutalità. «Un giocatore che si muoveva dove voleva lui implicava che io non avessi tutte le situazioni di gioco sotto controllo: l’anno prossimo le controllerò tutte. TUTTE, senza eccezione alcuna». Occhi sgranati e piglio da visionario. Il tempo è stato galantuomo. Il calcio pure. E ora applaude chi prese un gruppo di giovani promesse, senza più nomi altisonanti, e li ha resi indiscussi campioni d’Europa. Di questi tempi, al Parco dei Principi si diventa perfino re.
Leggi anche
- Il PSG campione d’Europa è una squadra che non avevamo mai visto prima
- Luis Enrique sta facendo al PSG ciò che Guardiola ha fatto al Manchester City