Into the Dzeko

A Roma Edin Dzeko ha perso le certezze acquisite tra Repubblica Ceca, Germania e Inghilterra. Ma l'avvento di Spalletti potrebbe aver cambiato tutto.

«There is a pleasure in the pathless woods, there is a rapture on the lonely shore, there is society, where none intrudes, by the deep sea, and music in its roar: I love not man the less, but Nature more». La citazione di Lord Byron, come didascalia d’apertura del film Into the Wild, è una naturale dedica di Sean Penn al modello dell’uomo romantico in cerca di sé. Il viaggio di Christopher McCandless nella natura selvaggia degli Stati Uniti sembra quasi una logica continuazione del pellegrinaggio del giovane Harold nelle terre straniere. Entrambi stufi e delusi da tutto ciò che li circonda, ricercano un’utopica felicità nella natura e nella sua bellezza, inseguendo qualcosa che faciliti la conoscenza di loro stessi. L’acquisizione della saggezza in Harold e Christopher avviene quasi per osmosi tra la natura in cui sono immersi e le varie persone incontrate nel lungo peregrinare, in un perenne rapporto uomo-natura. Come per ogni calciatore, anche per Edin Dzeko l’acquisizione di una saggezza interiore non è stata immediata, ma si è basata su un lungo processo di conoscenza di se stesso nei vari viaggi che gli ha riservato la sua carriera decennale, tra la Bosnia, la Germania e l’Inghilterra. L’approdo in giallorosso era stato accolto da un’ondata di trionfalismo, spesso troppo affrettata nel mondo romanista, eppure mai come questa volta consona ad una campione del suo calibro. Nella Capitale era arrivato un attaccante compiuto, conscio delle proprie qualità e assolutamente felice e appagato dai trofei vinti e dai 209 gol messi a segno in carriera tra club e Nazionale. I mesi di abbandono nelle “lonely shore” dell’attacco romanista hanno portato però il bosniaco a perdere ogni conoscenza di sé, smarrendo quella felicità dell’essere goleador e diventando quasi un peso per quella squadra che lo aveva accolto da re. Edin, in questi cinque mesi romanisti, ha dovuto ricominciare tutto daccapo, iniziando nuovamente quel viaggio interiore alla ricerca delle certezze perdute.

Disperato, nel freddo novembre 2015 (Paolo Bruno/Getty Images)
Disperato, nel freddo novembre 2015 (Paolo Bruno/Getty Images)

 

In realtà il primo viaggio di Edin era iniziato più di dieci anni fa, quando a vent’anni decise di lasciare le montagne della sua Sarajevo trasferendosi nella pianura del fiume Bilina in Repubblica Ceca. La sua prima destinazione però fu alla foce del fiume, nella città di Usti nad Labem, dove venne girato in prestito dal Teplice. Il suo mentore in Bosnia, Jiri Plísek, a quel tempo allenava la squadra della città e convinse Dzeko ad andare a giocare per lui nella seconda divisione. Jiri lo trasformò da centrocampista offensivo un po’ lento ad attaccante d’area di rigore fisicamente dominante. Sei mesi di prestito, conditi da 6 gol in 15 partite, bastarono a convincere il Teplice a riportarlo a casa. Il successivo anno e mezzo in maglia Skláři è l’inizio dell’ascesa: 46 partite e 16 gol, di cui 13 solo nella seconda stagione, bastano a convincere Felix Magath che Dzeko è l’attaccante giusto per il suo Wolfsburg. Il primo viaggio è concluso, ora il futuro di Dzeko parla tedesco, ma il biennio in Repubblica Ceca è bastato  per infondere nel bosniaco la prima grande certezza di sé: Edin è una punta.

Nel 2009, con il Wolfsburg (Michael Regan/Getty Images)
Nel 2009, con il Wolfsburg (Michael Regan/Getty Images)

Nell’estate del 2007 si accasa in Bassa Sassonia, in quella Wolfsburg che destino vuole sia gemellata dal 1985 proprio con la sua Sarajevo, la città dove tutto ha avuto inizio. Quale miglior posto se non questo, per confermare quanto scoperto in Bosnia? Certo qui non ci sono paesaggi da contemplare, non c’è una bellezza naturalistica dove scoprire verità nascoste. Qui c’è solo una città che vive e dipende dalla vicina fabbrica della Volkswagen. In tre stagioni e mezzo segna 69 gol in poco più di 100 partite, vince la Bundesliga nel 2009, viene eletto miglior giocatore del campionato ed entra nell’elenco dei 30 possibili vincitori del Pallone d’Oro. Un’ascesa tanto repentina quanto frutto di una continua crescita. Rivedendo i gol fatti in maglia Wolfsburg si capisce bene come nella scoperta interiore di Dzeko ci sia stato un accrescimento delle proprie capacità e certezze. Il bosniaco si è trasformato non solo in una punta fisicamente prestante e dominante, ma anche in un attaccante bravo a sfruttare gli spazi in verticale e capace di dialogare con i propri compagni di reparto.

Il modulo di Magath prima e Veh poi ha fatto sbocciare tutte le migliori caratteristiche dell’attaccante bosniaco. Di base entrambi proponevano un basico 4-4-2 a diamante, con Josué a fare da schermo davanti alla difesa, lasciando spazio alla fantasia di Misimovic di innescare la coppia Dzeko-Grafite. Quindi sia cross dai lati, con i terzini e le mezzale, sia verticalizzazioni centrali. Una proposta offensiva tanto semplice quanto varia ed efficace. In aggiunta, la presenza di un altro attaccante accanto a sé ha fatto la fortuna di Dzeko: più spazio per entrambi, più libertà tra le maglie della difesa avversaria e meno compiti di raccordo con il centrocampo. Uguale: gol a pioggia, che gli sono valsi la chiamata di un top team come il Manchester City. Dopo tre anni e mezzo è il momento giusto per lasciare Wolfsburg, c’è una maglia celeste che lo attende. È tempo di un altro viaggio, ma con una certezza in più: Edin è un bomber.

Dzeko in Germania, uno dei pochi video calcistici senza una fastidiosa base dance, sostituita da una fastidiosa base “rock”

In maglia Citizens vince tutto quello che c’era da vincere in campo nazionale, scoprendo ulteriormente una nuova dimensione di sé: Edin il super-sub, il sostituto perfetto che entra e segna. Sempre. Come disse nell’ultimo anno di Mancini: «È frustrante guardare dalla panchina, soprattutto quando si segna. Se hai solo pochi minuti a disposizione non puoi essere triste o arrabbiato con l’allenatore. Devi solo giocare e fare del tuo meglio. Questo pensiero è fisso nella mia mente». Mente che torna sempre, quel posto dove Dzeko ha scoperto e radicato la conoscenza di sé, come un filo conduttore di tutta la sua carriera. Edin al City non è mai davvero il titolare indiscusso, come fu a Wolfsburg. Sia con Mancini che con Pellegrini il modulo utilizzato era quasi sempre un 4-2-3-1 basato molto sul possesso palla. Ragion per cui servivano tanti piedi buoni, preferibilmente anche davanti. Il parco offensivo nei quattro anni metteva paura: Agüero, Tévez, Balotelli, Nasri, Milner, Silva, Jesus Navas, Jovetic, Negredo, con Yaya Touré finto mediano, ma goleador da doppia cifra. Come poteva pretendere Edin che quell’1 lì davanti fosse sempre lui? Impossibile ovviamente, ma i gol in maglia Citizens alla fine saranno comunque 71, di cui 50 in campionato. Il ruolo è sempre stato da comprimario, ma le certezze costruite in Bosnia e in Germania non sono state scalfite dalla nuova condizione: Edin è un attaccante e segna come un bomber.

Ormai la conoscenza che Edin ha di se stesso è totale: attaccante, bomber implacabile e giocatore sul quale fare sempre affidamento. La felicità è raggiunta, non c’è nulla che possa minare le certezze di un uomo arrivato al suo apice, nulla che possa incrinare la felicità costruita tra Repubblica Ceca, Germania e Inghilterra. Per questo l’estate scorsa sceglie la Roma: vuole una nuova sfida, vuole continuare a viaggiare e scoprire un’altra parte di sé. Magari più bella, sicuramente ancora sconosciuta. La Roma è una squadra che vuole raggiungere una dimensione internazionale, sembra lo stimolo giusto. E l’approdo nella Città Eterna in quella mattina d’agosto appariva l’ennesima tappa di un girovagare sempre in crescendo. In fin dei conti, anche solo il contorno faceva ben sperare: sole, caldo, folla adorante e un posto da titolare certo e insindacabile. In un parallelismo antitetico con Christopher McCandless, Edin Dzeko a Roma sembrava aver trovato la sua Alaska.

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I selfie all’arrivo a Roma, l’amore dei tifosi, il sole

 

In campo l’inizio è entusiasmante. Nella prima uscita stagionale all’Olimpico, in un’amichevole di presentazione con il Siviglia, segna dopo tre minuti, poi raddoppia e fa anche un assist. La Roma stravince e Dzeko è subito protagonista. La seconda di campionato contro la Juventus poi, sembra essere il preludio ad una stagione da assoluto trascinatore, quasi più che a Wolfsburg, sicuramente più che nella piovosa Manchester. Invece il gol in quell’assolato pomeriggio agostano risulterà essere l’ultimo acuto su azione in Serie A del gigante bosniaco. Per i tifosi giallorossi, rivedere quelle immagini oggi, probabilmente fa scendere amare lacrime. Attacco dello spazio, presa di posizione al centro dell’area, difesa della stessa con la sola forza del corpo, frustata di testa quasi senza saltare e gol a Buffon. Cosa può incrinare le certezze di un campione simile?

Con la squadra sotto la curva che pensa: «Quest’anno è l’anno buono»

Invece nei successivi cinque mesi la Roma di Garcia non riesce più a giocare per lui, i gol non arrivano con la solita regolarità e più passa il tempo più le prestazioni in campo del bosniaco risultano scialbe e incolori. Le altre ventiquattro presenze fanno registrare un gol contro il Bayer Leverkusen, due rigori contro Lazio e Bologna e il gol della bandiera al Camp Nou. Le uniche due azioni per i gol sono tanto semplici quanto utili per un bomber come lui. A Barcellona è un cross morbido dalla trequarti di Digne, stacco di testa e gol. Contro il Leverkusen invece bastano tre passaggi in verticale: De Rossi, Nainggolan, Dzeko, gol. Punto. Senza fronzoli, senza passare obbligatoriamente per le ali, senza cercare insistentemente l’uno contro uno appiattendo il fronte offensivo e lasciando organizzare la difesa avversaria. Sicuramente nei gol “europei” c’è stato un grande aiuto dall’avversario, ma se l’idea di Garcia era quella di evitare a prescindere un certo tipo di calcio semplice e scolastico, perché di facile lettura o scontato, privilegiando esclusivamente il genio e lo shock generato dalle ali offensive, si è fatto il male di un giocatore come Dzeko. Esagerando, ma non troppo, i due gol in Champions risulteranno essere l’ultimo passaggio in verticale e l’ultimo cross forniti a Edin dalla Roma di Garcia e non a caso quello del Camp Nou è anche l’ultimo suo gol del 2015, datato 24 novembre. Quasi tre mesi senza gonfiare una rete, dopo l’altro digiuno di due mesi tra Juventus e Leverkusen, sono un’enormità per un attaccante come lui. Ma la cancrena tattica nella quale era entrata la Roma del francese ha portato il numero 9 in una spirale psicologica così negativa da mettere in dubbio tutte le sue certezze. Quasi come uno studente modello davanti ad un inaspettato 4 in pagella, Edin, durante quei due lunghi periodi senza gol, ricomincia quel viaggio interiore iniziato a Usti nad Labem. Un pellegrinaggio nel subconscio alla ricerca delle certezze perdute, quasi a voler ripassare quei  punti fermi costruiti negli anni, cercando di capire il perché dei suoi problemi in maglia giallorossa

Il gol contro il Leverkusen

«Sono centrocampista o attaccante?». Probabilmente questa domanda ha attanagliato la mente del bosniaco durante i periodi senza gol. Dzeko inizia a mettere in dubbio il ruolo che gli aveva dato Jiri Plísek dieci anni prima. I palloni giocabili scarseggiano, la proposta offensiva della Roma di Garcia non dipende da lui, che non è nemmeno visto come termine ultimo dell’attacco. A volte la sua posizione da centrale d’attacco, sembra quasi disturbare le giocate di Gervinho e Salah, gli unici adibiti a creare e concludere ogni azione offensiva giallorossa. A un certo punto il bosniaco cerca di adattarsi, sposta il suo baricentro più indietro, alla ricerca di palloni giocabili e fa il rifinitore per le ali o si allarga per fargli spazio, arretrando a centrocampo ogni qual volta si presenti l’occasione. Le zone di azione contro Udinese, Fiorentina e Lazio (è bene specificare che sono tre vittorie con 7 gol all’attivo) sono solo degli esempi che mostrano molto chiaramente come il gioco del bosniaco si sviluppi un po’ ovunque tranne che in area di rigore.

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La sempre più insistente ricerca di quella sfera fosforescente, anche semplicemente toccata e smistata, senza una vera finalità al gol, sono un chiaro sintomo di un giocatore alla ricerca di un ruolo all’interno della Roma. Il gioco di Garcia è così fermamente incentrato sull’anarchia delle ali offensive, che in Edin vacilla ogni certezza di sé: il bosniaco non sa più qual è il suo ruolo, vaga per il campo e le poche volte che arriva alla conclusione sbaglia. Perchè è indubbio che nei mesi abbia sbagliato anche tanti gol, ma è vero anche che in molte partite le sue conclusioni verso la porta equivalevano ai tiri di un difensore centrale. La partita contro la Sampdoria è un esempio lampante. “Oggi non ci sarebbe andato bene nemmeno il pareggio.-  disse Garcia nel post partita – Non abbiamo faticato nel primo tempo e nel secondo tempo abbiamo giocato solo noi: complimenti a Viviano per i miracoli”. In effetti quella partita la Roma la dominò e perse solamente per una punizione di Eder, con la complicità di De Sanctis e per un autogol di Manolas. Il resto fu un monologo giallorosso, sicuramente poco efficace e molto confuso, ma con dei numeri chiari: 24 tiri, 18 chances create e 55 cross. Bene, le cifre di Dzeko, cioè dell’attaccante centrale di una squadra con queste statistiche, furono: 4 tiri in porta, di cui 2 da fuori area, nessun colpo di testa a fronte di 55 cross, ma soprattutto 26 passaggi per i compagni, di cui 20 lontano dall’area di rigore avversaria. Definirlo un corpo estraneo alla proposta offensiva della Roma sarebbe un eufemismo. La Roma di Garcia per cinque mesi non ha giocato con lui e per lui. Non lo ha integrato negli schemi e non lo ha aiutato nei momenti di difficoltà.

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Sampdoria-Roma: a sinistra i tiri di Dzeko, a destra i suoi passaggi

 

Questa continua ricerca di sé, di quello che è stato e non è più, lo ha portato a perdere dimestichezza con la porta avversaria. Dzeko ha iniziato a sbagliare gol facili, gol che nel passato avrebbe realizzato, bendato. Il confronto tra le azioni di Inter-Roma e Roma-Hellas, con i gol messi a segno in maglia Citizens, sono impietosi. La cattiveria e il senso del gol non sembrano più essere quelli di un tempo. Dzeko arriva scarico sul pallone, il suo viso trasmette una paura che solo pochi mesi fa sembrava un lontano ricordo dei primi calci a Željezničar. La sua mira nei mesi è diventata sempre più scadente, ormai l’assoluto costruito nel Wolfsburg e confermato a Manchester è diventato un fardello che il bosniaco ogni domenica porta in campo: «Non sono più il bomber di una volta».

La frustrazione è tanta, Edin non ha più sicurezze alle quali appigliarsi, e scendere in campo con la Roma è diventata una sofferenza. La sua forza di volontà, insieme a una cultura del lavoro appresa negli anni, lo portano a dichiarare a inizio dicembre: «Se non segno è solo colpa mia. Ma se un giocatore è forte, lo è sempre». Prima un’accusa rivolta a se stesso, quasi a spronare quel subconscio di sicurezze ormai perdute. Poi un appello alle stesse, quasi dovessero lanciargli un salvagente al quale aggrapparsi, per non affogare in questo turbinio di infelicità e insicurezza. La regressione sotto Garcia aveva preso una piega irreversibile e il cambio di guida tecnica è arrivato come una manna dal cielo. Luciano Spalletti ha permesso al giovane Edin di intraprendere un nuovo viaggio interiore. L’operazione maieutica è appena iniziata, ma la primitiva scelta di preferire giocatori mobili per l’attacco giallorosso, sembrava non aver invertito la spirale negativa del bosniaco.

(Mario Carlini / Iguana Press/Getty Images)

Poi sono arrivate le dichiarazioni del mister a togliere quell’enorme macigno dalle spalle di Edin: «Il problema Dzeko non esiste. C’è una cosa sola, lo serviamo male. Lo dobbiamo sostenere di più e servire meglio. Dobbiamo trovare la strada per farlo sentire dentro il nostro gioco». Detto, fatto. Il secondo tempo contro il Carpi ha fatto vedere quanto sintetizzato da Spalletti: cross dal fondo, passaggi filtranti, dai e vai con i compagni e anche quella «palla buttata lì davanti, perché tanto lui è una belva»E il bosniaco si è ritrovato, ha segnato un gol e propiziato l’1-3 di Salah, dimostrando l’importanza del suo essere centrale nella proposta offensiva giallorossa. Un’intesa con l’egiziano, e con i compagni, che non si vedeva dalla partita con il Siviglia e che prefigura futuri disegni offensivi gravidi di risultati. Rilette oggi le parole di Spalletti sembrano una necessaria mano tesa al bosniaco nella riscoperta di sé, che gli hanno consentito di esplicitare tutto quello che in un semestre di paure inespresse era rimasto celato, ma non poteva essere andato perduto: la via del gol.