Hanno ancora senso i senatori?

Juventus, Real Madrid e Barcellona hanno deciso di non cedere i giocatori più rappresentativi: ma è una strategia efficiente nel calcio di oggi?

In uno dei brani che compongono l’opera Brevi interviste con uomini schifosi, David Foster Wallace ha scritto che «non si può uccidere il tempo col cuore». È una visione capitalistica, profondamente cinica, e perciò può aderire perfettamente al calcio contemporaneo – che a sua volta è un multiverso capitalistico, profondamente cinico. Forse non è un caso che lo stesso concetto – seppur con parole diverse – sia stato espresso da Pep Guardiola nel gennaio 2019, nel corso di una conferenza stampa apparentemente normale in cui però il tecnico catalano annunciò al mondo che l’avventura di Vincent Kompany con la sua squadra sarebbe finita di lì a qualche mese: «Vorrei che il sentimentalismo trionfasse, e poi parliamo di Kompany, un giocatore che ci dà tantissimo, che è fortissimo ed è il nostro capitano. Però è anche vero che Vincent, da cinque anni ormai, non riesce più a giocare con continuità. La realtà è che c’è un momento in cui è finita. Per tutti».

Poche settimane dopo, durante una gara tiratissima contro il Leicester, Kompany segnò un gol bellissimo, decisivo per la conquista della Premier League. Nessuno, però, si fece intenerire: a maggio 2019, l’allora 33enne difensore belga ha effettivamente lasciato Manchester, diventando allenatore-giocatore dell’Anderlecht; Guardiola inizialmente non l’ha sostituito con un altro centrale, il City ha vissuto una stagione complicata e poi nell’autunno 2020 è arrivato Ruben Dias dal Benfica. Oggi, i Citizens sono primi in campionato, hanno dieci punti di vantaggio su tutte le inseguitrici in classifica e la miglior difesa della Premier (15 gol subiti in 25 gare).

C’è una morale evidente, in tutto questo: il Manchester City ha fatto bene a liberarsi di Kompany e ad affidare la sua eredità a un difensore giovane (Ruben Dias ha 23 anni) e di qualità. Anzi, forse ha addirittura ritardato troppo la successione. Ma questo modello un po’ spietato può essere attuabile ed efficace per tutti, nel calcio contemporaneo? Non c’è una risposta definitiva, perché ovviamente ogni caso è una storia a sé: se Kompany è stato vittima di molti infortuni, Ibrahimovic, Cavani e Thiago Silva sono stati lasciati andare dal Psg – tra il 2016 e il 2020 – quando erano ancora degli atleti sani, e infatti hanno continuato a giocare in altre grandi società; Ribery e Robben hanno vissuto un percorso più simile a quello di Kompany, negli ultimi anni al Bayern non hanno avuto grande continuità a livello fisico, e così il club bavarese, dopo alcune stagioni interlocutorie, ha deciso di non rinnovare i loro contratti.

Nel frattempo, altre grandi società, per esempio il Real Madrid, il Barcellona o la Juventus, hanno mantenuto un approccio più dolce, più morbido, viene da dire più rispettoso di censi e tradizioni: Sergio Ramos, Marcelo, Kroos, Modric, Benzema, Messi, Piqué, Busquets, Buffon, Bonucci e Chiellini sono ancora in rosa, mentre altri uomini simbolo degli ultimi anni (Ronaldo, Iniesta, Barzagli, Marchisio) sono rimasti fin quando hanno voluto o potuto, in ogni caso quasi sempre con un ruolo di primo o primissimo piano. Il punto è proprio questo: questa riconoscenza, questo attaccamento ai senatori, è una strategia vincente, o anche solo funzionale, nell’era moderna?

Va fatta una premessa: la carriera dei calciatori, soprattutto quella dei grandi campioni, si è allungata molto rispetto a quanto succedeva anche solo dieci o vent’anni fa. Perciò oggi anche un giocatore di grande esperienza può avere ancora un rendimento eccellente, e quindi è giusto che possa essere considerato un asset su cui poter costruire una squadra di primo livello – e basta guardare l’impatto di Ibrahimovic al Milan e/o di Suárez all’Atlético Madrid per farsi un’idea. Nell’albo d’oro della Champions League, si intercetta però una tendenza chiara, per cui le squadre vincitrici e/o finaliste degli ultimi anni sono state costruite con una politica di reclutamento dinamica, progressiva e soprattutto progettuale: del Bayern e del Psg, che si sono giocate il trofeo a Lisbona ad agosto 2020, si è già detto; anche il Liverpool di Klopp (vincitore nel 2019 e finalista un anno prima) e il Tottenham di Pochettino avevano fatto per diversi anni un mercato molto vasto e molto vario, in entrata e in uscita, prima di arrivare in fondo alla Champions; il Real Madrid del three-peat 2016-2018 aveva effettivamente un nucleo forte di giocatori acquistati molto tempo prima, addirittura prima dell’inizio degli anni Dieci (Sergio Ramos, Marcelo, Ronaldo), ma all’epoca del loro arrivo si trattava di calciatori ancora molto giovani, a cui sono stati via via affiancati Modric, Bale, Isco, Kroos, Casemiro, Asensio; la stessa Juventus 2016/17 era fondata sui veterani Buffon, Barzagli, Bonucci e Chiellini, che tra l’altro erano degli elementi ancora affidabilissimi dal punto di vista fisico, ma accanto a loro c’erano Mandzukic, Dybala, Alex Sandro, Cuadrado, Higuaín, Pjanic, in bianconero da uno o due anni; nel Barcellona campione 2015, oltre ai prodotti della Masia, giocatori che quindi erano al club da tantissimo tempo (Piqué, Busquets, Iniesta, Messi), c’erano pure Neymar, Rakitic, Suárez, Ter-Stegen e Jordi Alba, tutti atleti acquistati da poco e all’apice della loro carriera.

La riflessione parte proprio dall’andamento di Real Madrid, Barcellona e Juventus, per poi espandersi in altre direzioni: ancora oggi, infatti, le squadre affidate a Zidane, Koeman e Pirlo si fondano su quegli stessi uomini, quindi, inevitabilmente, sulle stesse dinamiche tattiche, sugli stessi simboli. E, forse non a caso, il cammino europeo degli ultimi anni è stato quasi sempre deludente – o anche molto deludente in alcune circostanze. Se da una parte, dunque, il valore dei senatori e il loro carisma giustificherebbero questa strategia di mercato così conservativa, dall’altra ci sono delle evidenze che vanno in una direzione opposta. Il problema è essenzialmente tattico, ma poi finisce per diventare politico: Real, Barça e Juve hanno cambiato tre allenatori nelle ultime due stagioni, e a tutti questi tecnici – Lopetegui, Solari, Valverde, Setién, Allegri, Sarri – è risultato difficilissimo trovare un sistema di gioco in grado di far convivere il passato con il presente e il futuro. Per tutte e tre le squadre, è come se il ricordo e l’incidenza di certi progetti vincenti, o di quel che ne è rimasto, fossero risultati sempre più grandi di qualsiasi cosa, pure della voglia di aprire un ciclo completamente nuovo, diverso.

Sergio Ramos si è unito al Real Madrid nell’agosto 2005, poco dopo aver compiuto 19 anni; Modric si è trasferito in Spagna nel 2012, dopo quattro stagioni al Tottenham (Jasper Juinen/Getty Images)

In questo modo, anche il mercato ha finito per diventare stagnante, soprattutto in alcuni slot: certo, Vinícius, De Jong e De Ligt sono dei talenti generazionali e allora sono riusciti a imporsi, ma accanto a loro sono passati tanti giocatori – Hakimi, Theo Hernández, Odegaard, Éder Militão, Jovic, Coutinho, Arthur, Lenglet, Kean, Demiral, Benatia – che non si sono inseriti, che non ce l’hanno fatta a scalzare i cosiddetti senatori dello spogliatoio, a volte non sono arrivati neanche a sintonizzarsi con loro. Magari il tempo avrebbe dimostrato che no, certi giocatori non sarebbero mai diventati più forti di Sergio Ramos, Busquets o Chiellini, ma il punto è che oggi il Real Madrid, il Barcellona e la Juventus non sanno cosa sarebbe successo se il progetto avesse preso altre direzioni, magari cambiando i protagonisti principali. Anche i titoli nazionali arrivati in questi anni non hanno dissolto i dubbi, perché oramai il vero terreno di confronto è l’Europa, anzi la fase finale di Champions League: è lì che Real Madrid, Barcellona e Juventus sono risultate delle squadre un po’ ferme per non dire anacronistiche, legate a modelli – tattici, gestionali, anche retorici – ormai superati, o comunque meno efficaci rispetto a qualche anno fa.

Anche altre realtà, su altri livelli, hanno vissuto o stanno vivendo lo stesso equivoco: il Napoli sta pagando il legame ancora in essere con alcuni senatori del ciclo-Sarri – al punto che Gattuso era stato scelto al posto di Ancelotti proprio perché, secondo De Laurentiis, «ha assimilato il gioco dal Napoli di Sarri e ha cercato di applicarlo al Milan» – senza avere più gli strumenti e il numero di giocatori adatti per praticare quel tipo di calcio; il Tottenham non ha avuto il coraggio di voltare pagina dopo la sconfitta in finale di Champions nel 2019, ha confermato praticamente tutta la rosa e pochi mesi dopo ha piuttosto deciso di cambiare allenatore, passando da Pochettino a Mourinho, eppure i risultati sono molto deludenti; in passato, anche l’Inter e il Manchester United non sono riuscite a mettersi alle spalle le grandi vittorie raggiunte con Mourinho e Ferguson, ritardando un ricambio generazionale inevitabile; Bayern Monaco e Atalanta stavano seguendo lo stesso percorso con Ribery, Robben e Papu Gómez, giocatori che – per motivazioni e con tempistiche diverse – erano diventati insostenibili perché il progetto potesse continuare a crescere, a evolversi. Poi i dirigenti e gli allenatori hanno intuito che forse non era ancora troppo tardi, che costruire il futuro della loro squadra era più importante della riconoscenza, forse anche delle sicurezze del presente: i risultati di queste intuizioni, oggi, sono sotto gli occhi di tutti. Ecco, probabilmente il punto è proprio questo: nel calcio contemporaneo, uno o due anni sono uno spazio enorme, in cui può succedere di tutto. E allora per rimanere davvero competitivi bisogna sempre guardare avanti, sperimentare nuove cose, nuove idee, senza fermarsi mai, neanche di fronte ai sentimenti. Perché il tempo non si può uccidere con il cuore, ma almeno si può provare a governarlo un po’, questo sì.