Come si costruiscono i migliori vivai d’Italia

Atalanta, Roma e Milan hanno una grande tradizione giovanile: tre storie virtuose di valorizzazione del talento.

Una delle chiavi narrative relative al trasferimento di Dejan Kulusevski dalla Juventus al Tottenham riguarda la sua inevitabilità, il fatto che non era possibile fare diversamente: dopo una stagione e mezza alla Juventus, Kulusevski era considerato un talento non espresso fino in fondo, o comunque non all’altezza delle aspettative, quindi un giocatore sacrificabile – non da Juve, si diceva e scriveva in passato per semplificare un concetto piuttosto ampio – nonostante avesse dimostrato di valere un investimento da 40 milioni di euro, una cifra imponente per un classe 2000, poco più di un anno e mezzo fa.

Ma qual è stato il problema di Dejan Kulusevski alla Juve? Probabilmente l’unica colpa che gli si può attribuire, tenendo conto delle difficoltà vissute dai bianconeri negli ultimi mesi, è stata l’incapacità di essere davvero autonomo nel suo sviluppo: «Quando ero alla Juve parlavo con Pirlo quasi ogni giorno. È un allenatore fantastico e mi ha sempre istruito su come posso cercare i passaggi senza mostrare agli avversari dove giocherò la palla Ed è esattamente ciò che spero mi aiuterà ad assistere meglio Harry Kane», ha detto Kulusevski pochi giorni dopo il suo debutto con gli Spurs, come a voler sottolineare come la sua natura di fuoriclasse in divenire dovesse essere assecondata, stimolata, valutata secondo canoni diversi dal qui e ora, dal tutto e subito.

Le modalità – come, quando, quanto – secondo cui un calciatore giovane viene considerato pronto per debuttare in prima squadra, così come per restarci, dipendono dipende in gran parte dal modo in cui si è lavorato e si continua a lavorare sul suo talento, sulla capacità di costruire un professionista che sia in grado di reagire positivamente agli stimoli e alle sfide che il campo gli propone a cadenza quasi quotidiana, in allenamento e in partita, sulla coerenza delle metodologie formative lungo la strada che porta dai Pulcini alla Primavera e di lì al professionismo. Una strada che pochissimi riescono a percorrere fino in fondo. È una questione di campo, certo, ma anche di quella che viene genericamente definita come personalità, cioè la risposta più o meno immediata che il singolo fornisce dal punto di vista psicologico durante il passaggio dalla dimensione ludica a quella maggiormente agonistica e selettiva del gioco. Davide Calabria, in un’intervista rilasciata a Undici, ha spiegato che «tanti ragazzi fanno fatica ad affrontare le pressioni, e a superarle. Per esempio, non è bello ricevere insulti in partita, e non è facile giocare in uno stadio come San Siro. Devi essere caratterialmente molto forte, perché sennò ti uccide. E poi sei costretto ad andare via. Solo chi riesce a mantenere un livello molto alto può rimanere in una squadra come il Milan, anzi devi continuare a crescere». Ecco, queste parole evidenziano come i calciatori, soprattutto all’inizio del loro percorso professionistico avvertano la pressione di dover costantemente dimostrare di non essere così giovani pur essendolo nel fisico, nell’età, talvolta persino nell’approccio mentale alla partita.

In questo senso il riferimento a Kulusevski, a come sta proseguendo la sua carriera dopo la stagione da assoluto freak tecnico e atletico al Parma, non è casuale. Lo svedese proviene dal settore giovanile dell’Atalanta, una società che sulla ricerca e sullo sviluppo del talento ha costruito il proprio core business, facendone la pietra angolare di un progetto tecnico credibile, sostenibile, competitivo, nonostante la necessità di dover operare costantemente in regime di player trading. Stando ad un rapporto del CIES dell’ottobre 2021 i bergamaschi sono la terza squadra italiana – le altre due sono Inter e Roma – presente nell’elenco dei club europei che hanno contribuito a formare il maggior numero di giocatori attualmente in attività nei 31 campionati Uefa di prima divisione; sono 22 ad oggi i calciatori che sono partiti da Zingonia alla conquista dell’Italia e dell’Europa, plasmati secondo quella che il compianto Mino Favini definiva nel 2015 come una sorta di filosofia contro-culturale nel panorama italiano: «Noi non creiamo fenomeni perché i fenomeni non si creano. Noi formiamo dei buoni giocatori. La più grande soddisfazione è quando mi dicono che un nostro ragazzo che è andato a giocare in prestito si comporta bene, ha buona volontà e dedizione».

Si tratta di un modus operandi che si basa sull’estremizzazione del concetto del giocatore da costruirsi in casa, e che ha avuto un peso fondamentale nel trasformare l’Atalanta in una delle migliori realtà calcistiche italiane, nonché nella vincitrice di due premi consecutivi (2019 e 2020) come “Migliore Società dell’Anno” al Gran Galà del Calcio, il premio annuale dell’Associazione Italiana Calciatori assegnato tramite i voti di allenatori, arbitri, giornalisti, ma soprattutto dei giocatori stessi. Come detto, si tratta di una specie di processo contro-culturale: se normalmente siamo abituati alle squadre che acquistano le “next big thing” di domani a 15/16/17 anni per via della superiorità tecnica e atletica rispetto ai pari età, all’Atalanta si ragiona secondo il principio per cui questa superiorità non va comprata sul mercato, piuttosto scoperta e costruita di volta in volta, accompagnando il ragazzo alla scoperta della propria dimensione individuale e collettiva. Si parte, insomma, da quelle che Favini identificava come «attitudini innate» e si prosegue nel consolidamento di queste attitudini all’interno di un sistema per cui i gradi di separazione tra “potenziale fenomeno generazionale” e “giocatore normale” non sono poi così rilevanti nel determinare dall’inizio le probabilità di arrivare a giocare da protagonista in Serie A o in Champions League.

Così si costruisce un percorso che, riuscendo a essere rispettoso della singolarità tecnica, psicologica e strutturale di ciascun ragazzo,  risulta comune e standardizzato per ciò che riguarda la condivisione della mentalità e dei valori del club, l’accettazione di un metodo di lavoro che porta risultati a livello di crescita umana e professionale. Tutto questo viene fatto e quindi succede a prescindere dall’esito finale, dalla circostanza per cui un calciatore che si è formato nell’Atalanta riesca effettivamente a giocare per l’Atalanta. In questo modo, inevitabilmente, si finisce per creare anche una profonda connessione culturale e identitaria con il territorio: nel novembre 2016, in occasione di un Italia-Danimarca Under-21 disputato a Bergamo, la Curva Pisani dell’allora “Atleti Azzurri d’Italia” espose uno striscione dedicato ad Alberto Grassi, Mattia Caldara, Andrea Conti e Andrea Petagna. I tifosi atalantini li definirono i “figli di Zingonia”, e aggiunsero che erano «l’orgolio di una città intera».

Il funzionamento del vivaio nerazzurro, in effetti, ha costituito e costituisce tuttora il benchmark di riferimento in un mondo, quello del calcio giovanile, che sta cambiando se stesso nella mission, nella visione globale. La trasformazione è evidente nella progettualità a medio-lungo termine, negli investimenti, nella narrazione che prevede il ritorno del primato della formazione sulla vittoria di tornei e campionati: «Per un bambino è chiaro che ci siano delle pressioni esterne che condizionano, perciò l’obiettivo di chi lavora nel settore è proprio quello di permettere a questi ragazzi di crescere serenamente e di divertirsi. Siamo una delle poche società di avere tutte le squadre del settore giovanile in un unico centro sportivo. Al Milan preferiamo portare più giocatori in prima squadra piuttosto che vincere un trofeo». Queste parole sono state pronunciate Angelo Carbone, dal 2019 responsabile del settore giovanile rossonero, in un’intervista a Sky lo scorso maggio. Sono concetti significativi, soprattutto nel corso di un’epoca in cui il vivaio del Milan ha avuto un peso determinante nel rilancio delle ambizioni del club, grazie ai giocatori lanciati nel grande calcio  – Donnarumma, Calabria, Locatelli e Pobega sono solo alcuni dei talenti cresciuti a Milanello – e a quelli che ora si stanno ritagliando minuti e spazio nelle rotazioni di Stefano Pioli, primi tra tutti Maldini e Gabbia.

Le parole di Carbone hanno riportato al centro del dibattito il rapporto tra i risultati ottenuti dai vivai e il livello complessivo dei giocatori che escono da questi vivai, senza la necessità di ricondurre tutto alla scelta tra il successo di oggi e la costruzione di calciatori migliori per il domani. In un’intervista al Corriere dello Sport dello scorso dicembre, Vincenzo Vergine, a capo del settore giovanile della Roma dal 1 luglio 2021, ha detto che il vero grande indicatore per valutare il lavoro di un vivaio «sono i giocatori che con regolarità si forniscono alla prima squadra» e questo può avvenire soltanto se la formazione è accompagnata da un’iniziale convivenza con la pressione degli obiettivi da raggiungere. «Il risultato è importante sempre», ha aggiunto Vergine. «Ma può essere uno strumento di formazione o diventarne il fine. Per creare il calciatore di primo livello il risultato deve essere uno strumento di formazione della mentalità vincente del ragazzo. Perché così a 19 anni potrai scavallare pressioni e tensioni importanti. Giocare per vincere non è come giocare per non perdere».

La Roma è una delle squadre più titolate d’Italia a livello giovanile: la Primavera giallorossa ha vinto per nve volte lo scudetto e per cinque volte la Coppa Italia (Luciano Rossi/AS Roma via Getty Images)

Da questo punto di vista la Roma è una delle società che opera meglio in Italia – 24 i calciatori “club trained” secondo il già citato rapporto CIES, appena due in meno dell’Inter – nonostante le difficoltà strutturali di un campionato Primavera che, stando a quanto disse José Mourinho alla vigilia di Roma-Spezia, «è di un livello basso, che non prepara all’ingresso in Serie A». Quello operato dai giallorossi è un lavoro storicamente capillare sul territorio romano, che punta anche sul senso di appartenenza e su ciò che significano il nome e il marchio Roma per le nuove generazioni di tifosi prima e calciatori in erba poi. Nel 2017 Fabrizio Gabrielli scrisse su Undici che «a differenza dell’Atalanta, con la quale la Roma condivide una solida tradizione di attenzione al settore giovanile, la società capitolina sembra instillare nei membri della sua accademia la convinzione che affermarsi debba per forza essere fatto con la maglia giallorossa», anche solo per perpetuare l’iconografia che appartiene ai vari Totti, De Rossi, Giannini, Bruno Conti, Di Bartolomei, profeti in patria in una città dove esserlo è più difficile che altrove.

Questa visione romantica ed emotiva trova il suo necessario completamento negli investimenti sulle strutture e sulle professionalità indispensabili per la creazione di ciò che Tiago Pinto, il giorno dell’insediamento di Vergine, definì «la visione ambiziosa della società rispetto al percorso di crescita dentro e fuori dal campo dei nostri ragazzi: una visione che ritiene indispensabile ricreare una forte identità all’interno del vivaio». Come a dire: romani, romanisti e calciatori, che a Roma si sono formati e che per la Roma giocheranno. Che questo accada subito o più avanti nella carriera, poi, dipende anche da loro.