Perché Guardiola preferisce avere una rosa così corta?

Il tecnico del Manchester City vuole allenare una squadra felice, piuttosto che una profonda ma in cui ci sono giocatori scontenti.

Pochi giorni prima che Ferran Torres venisse annunciato come nuovo attaccante del Barcellona, Pep Guardiola si presentò in conferenza stampa con il suo solito sorriso sornione, con il suo eloquio tagliente: «Io non sono mai felice quando perdo i miei giocatori», disse, «ma ho sempre ripetuto, a lui come a tutti gli altri, che devi andare via se non sei felice di giocare qui. Noi non siamo come quei club in cui un calciatore vuole essere ceduto e il direttore gli dice “no, devi restare”. Io ho detto ai dirigenti come la penso: chi non vuole rimanere, vada via». Nonostante stesse parlando di uno dei talenti più puri del calcio europeo, di un giocatore su cui la dirigenza il Manchester City aveva puntato molto, Guardiola non ha fatto sconti a quelle che, a tutti gli effetti, è una parte importante della sua filosofia, di una visione che sembra aver trovato una sponda nella politica di mercato del City Football Group: quella per cui una rosa felice, anche se ristretta, funziona meglio di una rosa profonda ma composta da alcuni calciatori scontenti del proprio minutaggio.

Uno studio condotto dal CIES a febbraio 2022 aveva rilevato che il numero di calciatori utilizzati da Guardiola in gare di campionato giocate nei 365 giorni precedenti era piuttosto basso: 28 in tutto. Solo il West Ham, considerando tutte le cinque leghe top, ne aveva schierati di meno (27). Il resto delle big europee – ma non solo – tende infatti a costruire rose più profonde, che abbiano più alternative, così che possano essere competitive in tutte le manifestazioni stagionali, salvaguardando la salute fisica e mentale dei giocatori. Guardiola però, anche in questo, lavora in maniera diversa: quando prima di ogni sessione di calciomercato si trova al tavolo con Txiki Begiristain, direttore sportivo del City, Pep dice sempre di non volere assolutamente due top player per ruolo, ma di preferire piuttosto un gruppo ristretto di giocatori duttili, che possano ricoprire più posizioni nello stesso reparto. Le volte in cui Guardiola si è trovato numericamente in difficoltà, infatti, ha inventato Fabian Delph terzino sinistro e Fernandinho difensore centrale, riuscendo comunque a vincere trofei. Con questa filosofia è quindi più facile accontentare un giocatore quando vuole andare via: «La carriera di un calciatore è breve, finisce presto. Se vogliono partire, non bisogna essere delusi, perché è il loro desiderio, e quindi io sono felice per loro», ha detto Guardiola in diverse occasioni.

Ovviamente quella relativa alle trasformazioni tattiche non è l’unica motivazione per cui Guardiola preferisce avere rose più ristrette. Alla base del suo pensiero c’è anche un vecchio assunto calcistico rilanciato in tempi recenti da Vicente Del Bosque, ex allenatore della Nazionale spagnola e del Real Madrid: «Uno spogliatoio sano vale più di cento ore di tattica». È evidente che trattenere un calciatore scontento non faccia bene alla squadra, indipendentemente dal suo valore in campo. E anche Guardiola lo sa. Il tecnico del City ha dimostrato più volte in carriera di porre l’armonia dello spogliatoio sopra ogni cosa, e uno spogliatoio limitato numericamente e composto da giocatori ben consapevoli del proprio ruolo è più semplice da gestire. Al Barcellona, al Bayern Monaco e ora al Manchester City, Guardiola ha sempre ammesso che i suoi successi non sarebbero stati possibili senza l’alto budget stanziato per il mercato e senza i giocatori di qualità che ha allenato. Ma il mercato è solo una parte del suo progetto, visto il modo non compulsivo in cui assembla la sua rosa.

Jürgen Klopp usa spesso il turnover, anche massiccio e scientifico, letteralmente, per far riposare i suoi titolarissimi e allo stesso tempo far sentire partecipi e importanti gli altri componenti della rosa. Le rotazioni del tecnico tedesco hanno permesso al Liverpool di giocare ogni singola partita di tutte le competizioni a cui ha partecipato, arrivando a un passo dal raggiungere un incredibile Quadruple, ovvero la vittoria di quattro trofei – League Cup e FA Cup, effettivamente conquistate dai Reds, e poi Premier e Champions League, sfumate solo all’ultima partita – in una singola stagione. È evidente come una tale quantità di partite fosse impossibile da sostenere fisicamente senza una rosa lunga e una gestione continua delle energie. Una lezione che forse quest’anno ha imparato anche Guardiola. Dopo l’estenuante doppio confronto di Champions League con l’Atlético Madrid di Simeone infatti, il tecnico catalano è stato praticamente costretto a fare sette cambi nell’undici iniziale nella semifinale di FA Cup, giocata proprio contro il Liverpool di Klopp, con cui in questi anni si è creata una rivalità destinata a segnare la nostra epoca. Quella partita il City l’ha persa 3-2, ma a fine gara Guardiola non rinnegò il suo credo: «A me piace lavorare con una squadra non molto ampia. Avendo allenato i migliori club d’Europa, ho vissuto più volte questa situazione. Quando si arriva nelle ultime fasi, e stai combattendo in tutte le competizioni, ho imparato che occorrono 16, 17 o 18 giocatori che bisogna avere in forma tutto il tempo, altrimenti diventa difficile gestire tutte le gare al meglio».

Nonostante una gestione ridotta della rosa, alla fine però la Premier League l’ha vinta proprio Pep Guardiola, che ora potrebbe dover difendere il titolo senza due giocatori che sono stati importantissimi nella costruzione del suo ciclo a Manchester: Gabriel Jesus e Raheem Sterling. Entrambi dovrebbero rimanere in Inghilterra, rispettivamente all’Arsenal e al Chelsea, ma nonostante si tratti di fatto di due rinforzi di livello per due dirette concorrenti al titolo, Guardiola sarà comunque felice. Non solo perché a sostituirli ci sarà Erling Haaland, ma perché la loro felicità e la sua volontà di gestire una squadra più ristretta, a quanto pare, per lui conta ancora di più.