I migliori allenatori del mondo hanno fatto ancora più grande la Premier League

Il campionato più ricco e più bello è diventato anche un grande laboratorio tattico.

Proviamo a fare un gioco: se portassimo l’estate 2022 indietro nel tempo di cinque o sei anni, il manager del Manchester United sarebbe Erik ten Hag oppure Wayne Rooney? Si tratta ovviamente di una domanda assurda, poco reale, però ha anche perfettamente senso, a ripensarci bene: per tantissimi anni, infatti, praticamente tutti i club inglesi hanno affidato il ruolo di allenatore a un loro ex calciatore da leggenda con pochissima esperienza in questa nuova veste, a volte anche senza esperienza, come se ciò che è stato in campo si potesse – si dovesse – replicare anche in panchina. Lo stesso Manchester United, poco meno di tre anni fa, ha deciso di licenziare José Mourinho e di assumere Ole Gunnar Solskjaer. Pochi mesi dopo, il Chelsea ha fatto la stessa cosa, sostituendo Maurizio Sarri con Frank Lampard. Da qui la domanda: se il Manchester United non avesse avuto un’esperienza – a dir poco – complicata e infine negativa con Solskjaer, avrebbe puntato su Ten Hag oppure su Wayne Rooney, che oggi guida più o meno felicemente il DC United dopo l’avventura al Derby County?

In attesa che la giostra torni a girare con Steven Gerrard, che è destinato a ereditare la panchina di Klopp ma che almeno avrà già guidato due o più squadre di prima divisione quando tornerà ad Anfield, è evidente che siamo nel mezzo di una nuova era: quella della Premier League fondata sul culto dei grandi allenatori. Diciamola meglio: tutto parte dal fatto che in Inghilterra gira il doppio – ma facciamo anche il triplo – del denaro presente in tutte le altre grandi leghe europee messe insieme. Una condizione che, col tempo, ha attratto i migliori giocatori, proprio come succede con le api e con il miele. Il passo successivo, un passo inevitabile, è stato quello di attirare i migliori allenatori stranieri, quelli che hanno trasformato e perciò modernizzato il calcio inglese: tutto è iniziato con Arsène Wenger un quarto di secolo fa, poi sono arrivati i vari Mourinho, Benítez, Ancelotti, Mancini, Pochettino, Pellegrini, Van Gaal. E giù fino ai giorni nostri, fino a Guardiola, all’invasione tedesca – poco meno di un anno fa il Guardian ha pubblicato un articolo sulla «germanificazione tattica della Premier League» – e alla scomparsa, sempre più evidente, della figura del manager all’inglese dai campi di calcio inglesi, almeno quelli d’élite.

Inutile spendere molte parole sul fatto che questo processo di contaminazione abbia fatto bene al movimento britannico: il ct dell’Inghilterra Gareth Southgate ha spiegato un milione di volte quanto sia stato importante, per la generazione di stelle costruita nell’era di DNA England, avere a che fare con questa varietà tattica; i progetti iper-identitari portati avanti da Klopp e Guardiola non hanno solo scavato un solco che pare incolmabile tra la coppia Liverpool-City e tutte le altre realtà, ma hanno anche mostrato come si possa dar vita a delle squadre perennemente innovative e permanentemente competitive nell’arco di cinque, sei, sette stagioni. Insomma, siamo nel tempo in cui gli organici dei club di Premier League continuano a essere costruiti incastrando i migliori atleti del presente e le grandi promesse del futuro, solo che ora accanto a loro – prima di loro – vengono scelti degli allenatori in grado di moltiplicare, più che di sommare algebricamente, l’enorme quantità di talento che gli viene messa a disposizione, dei tecnici in grado di portare avanti dei piani pluriennali e quindi di creare valore attraverso le proprie idee.

Erik Ten Hag è il secondo manager nella storia del Manchester United dopo Van Gaal, il nono non britannico (George Salpigtidis/AFP /AFP via Getty Images)

Per tanti anni abbiamo pensato e guardato alla Premier League come al campionato in cui c’erano tutti i più grandi campioni o quasi, ed è una cosa che è rimasta. Ora, però, si tratta anche del laboratorio tattico più selettivo d’Europa. Forse non sarà il laboratorio più visionario, perché dove ci sono troppi soldi c’è anche troppa pressione per ottenere dei risultati, e allora gli allenatori sono inevitabilmente più restii a sperimentare proiettandosi molto nel futuro – come succede, per esempio, in Bundesliga. Magari non sarà il laboratorio più sofisticato a livello di proposta difensiva e/o offensiva, se consideriamo che l’alta qualità dei calciatori impone certi standard e che i tecnici di Serie A, da questo punto di vista, si difendono ancora molto bene. Ma di certo si può dire che il campionato inglese importa gli allenatori migliori, quelli che hanno saputo costruirsi una grande carriera e l’hanno anche mantenuta viva, come se fosse un master post lauream organizzato da una prestigiosa università internazionale. Qualche dato a supporto di questa tesi: se guardiamo solo alle 20 squadre di Premier League, ci sono tre allenatori – Guardiola, Klopp e Tuchel – che hanno già vinto una o più Champions League, uno in più di quanti ce ne siano considerando tutte le altre quattro leghe top in Europa; ci sono manager di nove nazionalità diverse, mentre in tutti gli altri quattro campionati più importanti ce ne sono 12.

Se non bastassero queste cifre, basta snocciolare i nomi per capire come si fa la differenza: oltre a Guardiola, Klopp e Tuchel, la Premier League 2022/23 vedrà ai nastri di partenza Antonio Conte ed Erik ten Hag, ovvero i tecnici più vincenti espressi da Italia e Paesi Bassi negli ultimi dieci anni; allenatori ancora medio-borghesi ma già di grande appeal come Patrick Vieira, Thomas Frank, Jesse Marsch, Ralph Hasenhüttl e Bruno Lage; i manager inglesi che sono riusciti ad andare oltre i vecchi e stantii steccati del gioco Kick and Run, vale a dire Brendan Rodgers ed Eddie Howe, ma anche conservatori illuminati come David Moyes; infine, non manca la quota storica dei grandi ex, ma almeno si tratta di professionisti che hanno anni di lavoro alle spalle, che non hanno ereditato una panchina a scatola chiusa, ma che sono stato scelti in virtù delle loro qualità: Steven Gerrard, Frank Lampard, Scott Parker e persino Mikel Arteta, che inizialmente poteva essere considerato un usurpatore del titolo di allenatore e invece sta dimostrando di avere idee, coraggio, visione a lungo termine, persino in un club piuttosto confuso – eufemismo – come l’Arsenal.

La Premier League più bella di sempre, una formula che vale ogni anno e diventa ogni anno più vera, è tutto un discorso di qualità e quindi di potereche si riverbera in campo. Resta un discorso di potere primariamente economico, ci mancherebbe, perché i talenti migliori sono in vendita, quindi possono essere acquistati e devono essere invogliati a rimanere: una volta valeva per i giocatori, ora vale per gli allenatori, e come detto si tratta di un percorso ineluttabile. Il punto è che questo tipo di crescita si nutre di integrazione e accettazione, e allora il calcio inglese ha dovuto imparare ad accogliere e a non rigettare le novità – come succede da anni, per esempio, in Serie A. Al punto che le scuole di allenatori locali fanno fatica a produrre nuovi manager d’élite. Per quanto possa sembrare un processo molto capitalistico e quindi poco romantico, va preso per quello che è: puro e semplice progresso. Indotto dalla ricchezza ma pur sempre progresso. Quell’intensità spaventosa e quella tecnica ad altissima velocità che si percepiscono durante le gare di Premier League, quello spettacolo sportivo e agonistico di cui possiamo godere ogni fine settimana su campi brillanti e in stadi-gioiello, oggi viene alimentato anche – se non soprattutto – dagli allenatori. Dallo sviluppo tattico, da metodi di lavoro sempre più innovativi, dall’ibridazione con nuovi professionalità, con nuovi concetti. La mistica del calcio inglese puramente inteso c’entra sempre meno, e allora forse non è proprio un caso che il nuovo manager del Manchester United sia Erik ten Hag, non è proprio un caso che Wayne Rooney sia dovuto andare in MLS, a Washington, negli Stati Uniti d’America, per poter diventare un allenatore vero. No, non è un caso: è solo la cosa giusta.