La fase a gironi della Champions League sta per iniziare, sempre uguale a sé stessa – in attesa della riforma già annunciata e varata dall’Uefa – e quindi sempre affascinante, bellissima da vedere e da vivere. I quattro club italiani qualificati attraverso il campionato di Serie A si preparano a scendere in campo in una condizione particolarissima: appartengono tutti a una media borghesia continentale piuttosto lontana dall’élite, a un gruppo di squadre che non possono puntare a vincere il titolo in maniera dichiarata. La loro aspirazione è quella di essere competitive fino a un certo punto, perché la distanza tecnica ed economica con le rosa delle favorite – Real Madrid, Manchester City, Liverpool, Chelsea, Bayern e Psg, in ordine sparso – è fin troppo ampia, ma al tempo stesso la formula della fase a gironi e la forza delle altre avversarie, outsider a loro volta, impongono che l’attenzione sia altissima fin da subito. Fin dal primo pallone della prima partita.
Ma come ci si approccia a una competizione che non si può vincere, a meno di un miracolo? Cosa si prova a non essere considerate tra le squadre favorite? In virtù di questo status così chiaro ma anche così fluido, per cui ogni cosa in fondo dipende dal sorteggio e da altri eventi casuali, quali sono gli obiettivi realistici di Milan, Inter, Napoli e Juventus? A cosa e come devono prepararsi in vista delle notti di Champions? Lo abbiamo chiesto a quattro firme che di solito leggete su Undici, e che hanno letto la situazione delle squadre italiane in base a come stanno oggi, alle loro prospettive, alle difficoltà che dovranno affrontare e superare a partire da stasera, o da domani.
Juventus in recessione
Se volessimo ragionare in linea puramente teorica, magari affidandoci alle categorie cui Massimiliano Allegri fa riferimento ormai ogni volta che si trova davanti a microfoni e telecamere, non ci sarebbe motivo per considerare la Juventus – cioè la squadra di Di Maria, Pogba, Vlahovic, Paredes e Chiesa – un’outsider della Champions League 2022/23. La controprova del campo e le difficoltà nell’espressione di una volontà di potenza solo presunta ci costringono invece a guardare in faccia alla realtà di una squadra che, dopo un’estate passata a cercare di risolvere i problemi endemici, strutturali e di identità attraverso il calciomercato, si trova a dover fare i conti con le conseguenze deteriori di questa scelta: l’essersi voluti affidare esclusivamente alle qualità di alcuni singoli non ha pagato e non sta pagando nel momento in cui alcuni di questi – Di Maria e Pogba – sembrano essere entrati nella fase declinante della carriera, altri vivono nell’incertezza legata al recupero da infortuni che rischiano di aver alterato le migliori caratteristiche di base – Chiesa – e altri ancora non sono già diventati abbastanza autonomi per riuscire a fare davvero la differenza in un contesto in cui la dimensione collettiva è sempre e comunque subordinata a quella individuale – Vlahovic.
Dopo l’1-1 di Firenze, e a meno di 72 ore dalla trasferta di Parigi, Allegri ha involontariamente ribadito uno status di subalternità che è sia reale che percepito. E l’ha fatto sottolineando come, per la Juventus, la gara chiave del girone sia quella casalinga contro il Benfica. Il punto è che per una squadra come quella di Allegri, che vive e approccia le gare come un insieme di situazioni randomiche e governate dal caso, il Benfica di Roger Schmidt è un avversario pericoloso come se non più del Psg di Messi, Mbappé e Neymar, a prescindere dal valore assoluto dei calciatori in campo. Ed è triste pensare che questa condizione sia esattamente opposta rispetto a quello che si pensava sarebbe accaduto dopo l’acquisto di Cristiano Ronaldo, appena quattro anni fa. Allora i bianconeri, reduci da due finali nelle precedenti quattro stagioni, potevano a buon diritto considerarsi una contender; oggi, invece, la Juventus è una squadra che può vincere e può perdere con tutti, che ha negli ottavi l’obiettivo minimo e nei quarti l’eventuale punto di partenza per quello che potrebbe essere un gradito di più. È una squadra-outsider, appunto. Che ha scelto di esserlo. (Claudio Pellecchia)
Il Milan nel suo habitat naturale
Nella vittoria di sabato contro l’Inter, o per meglio dire nei 46 minuti che sono trascorsi tra i due gol dell’Inter, il vantaggio di Brozović al minuto 21’ e il definitivo 3-2 di Džeko al minuto 67’, il Milan ha espresso, per importanza della partita e valore dell’avversario, una delle migliori prestazioni dell’intera gestione di Stefano Pioli: pressing a tutto campo (52 recuperi a 39 in totale per i rossoneri), baricentro alto (55,4 metri il dato a fine primo tempo) e una ferocia agonistica che rappresenta il primo vero atto di forza di una squadra nella Serie A 2022/23 — e questa dimostrazione di superiorità non poteva che arrivare dai campioni in carica. Arrigo Sacchi, intervistato domenica dalla Gazzetta dello Sport, ha commentato: «C’era una squadra italiana, l’Inter, che si basava soprattutto sui singoli e sulla difesa; e poi c’era una squadra, il Milan, che praticava un gioco europeo, dove tutti si sacrificavano e partecipavano sia alla fase difensiva sia alla fase offensiva».
Da oggi il «gioco europeo» ammirato da Sacchi si potrà confrontare con il suo habitat naturale, la Champions League. Il fatto di essere testa di serie obbliga il Milan al passaggio del turno: il girone è più facile di quello dell’anno scorso, come ha detto anche Paolo Maldini dopo il sorteggio, e la qualificazione agli ottavi di finale permetterebbe al club rossonero di continuare il virtuoso processo iniziato nel 2018 con Elliott e passato da pochi giorni nelle mani di RedBird. In questi ultimi anni il Milan ha sempre agito privilegiando il bilancio e, se la qualificazione alla prima fase vale circa 45 milioni di euro, Calcio e Finanza stima in almeno 15 milioni i ricavi extra in caso di ottavi di finale. Sogni più ambiziosi dipenderanno eventualmente dal sorteggio successivo. Certo: poi ci sarebbe la suggestione della finale a Istanbul, in un anno che termina con il tre (dopo i successi del 1963 e del 2003) e con Maldini in dirigenza, ma per quelle cose adesso c’è il Monza… (Francesco Caligaris)
Un possibile spartiacque, per il Napoli
Il feeling del Napoli con le coppe europee, di recente, non è mai stato troppo pronunciato. Eppure nella definizione di una squadra che oggi vuole sedersi al tavolo delle big italiane il salto di qualità in Europa è obbligatorio: perché porta consapevolezza, merce indispensabile nell’ottica di uno sviluppo di un club che adesso sta inaugurando un nuovo ciclo. Nelle ultime tre apparizioni in Champions, solo una volta il Napoli ha superato la fase a gironi: la difficoltà dei gruppi in cui gli azzurri erano inseriti ha rappresentato di certo un ostacolo non indifferente, ma negli anni il Napoli si è dovuto arrendere, se pensiamo alle incursioni in Europa League, pure a formazioni come Granada, Lipsia e Villarreal.
Superare un girone in cui la squadra di Spalletti è inserita con Liverpool, Ajax e Rangers è una missione possibile nonché un passaggio obbligato per le “mire” del Napoli. Che sono anche economiche: ci sono squadre che, a parità di fatturato, hanno alle spalle cammini di Champions di tutto rispetto. Il Napoli, mai andato oltre un ottavo di Champions League, deve provare a ribaltare una narrativa che la vede patire in subalternità in Europa: in uno scenario politico-economico in rapida evoluzione, attestarsi come una delle realtà immediatamente dietro le superpotenze europee ha un valore eccezionale.
Il girone di Champions sarà anche un banco di prova generale: gli azzurri debuttano contro il Liverpool e non c’è dubbio che la squadra di Spalletti sfodererà una grande prestazione. Ma non basterà fare un figurone contro i vice-campioni d’Europa: il Napoli dovrà dimostrare di saper addomesticare anche Ajax e Rangers, incassando quei punti che alla fine si riveleranno vitali nell’ottica qualificazione. Qualcosa che servirà anche da lezione per il campionato, dove il Napoli più volte ha smarrito punti preziosi in occasioni sulla carta abbordabili. Per tutti questi motivi, la Champions 2022/23 del Napoli potrebbe rappresentare uno spartiacque fondamentale. (Francesco Paolo Giordano)
Ormai Napoli-Liverpool è una classica di Champions League: questa è la sintesi della gara giocata quattro anni fa, con la vittoria di misura degli azzurri. A cui, un anno dopo, andò addirittura meglio.
Il girone dell’Inter è di ferro, ok, ma è anche un’occasione
Il giornalismo sportivo ha una quantità infinita di espressioni plastiche per definire un girone come quello dell’Inter: gruppo di ferro, girone dantesco, girone della morte – che, insomma, sarebbe anche un po’ troppo per definire dodici partite di calcio. La definizione migliore è sempre quella meno scontata: è un girone perfetto per l’Inter, una squadra che negli ultimi due anni è stata forse la migliore e più costante della Serie A – quella che ha fatto più punti in assoluto nei 24 mesi – ma non abbastanza per consolidare uno status da big del calcio europeo (nemmeno per andarci vicino). Dopo aver vinto lo scudetto ha cambiato allenatore e venduto i due giocatori più rappresentativi, ogni estate continua a fare acquisti secondo occasioni di mercato, costretta a fare di necessità virtù; nell’anno dello scudetto non è riuscita a passare il girone di Champions e in due anni in Europa ha perso cinque partite su sei contro grandi squadre (zero punti in quattro partite contro il Real Madrid, una vittoria ininfluente a marzo contro il Liverpool). L’Inter rappresenta al meglio i limiti dell’aristocrazia della Serie A: al completo è una squadra fortissima che può passare come uno schiacciasassi su quasi tutte le rivali italiane e può ambire a buoni risultati in Europa, ma è ancora due o tre passi indietro rispetto a chi può arrivare a Istanbul il 10 giugno.
Aver trovato nell’urna di Nyon il Bayern Monaco e il Barcellona, due squadre non imbattibili ma sicuramente più avanti dei nerazzurri, significa poter vestire i panni dell’underdog. Senza nulla da perdere, l’Inter può misurarsi con due squadre fortissime giocando con poche pressioni, sapendo che anche in caso di “fallimento” – cioè di mancato passaggio del turno – c’è la giustificazione pronta nel cassetto. Al contrario, la qualificazione sarebbe un risultato che a questo gruppo e a questo ciclo ancora manca: i nerazzurri ne uscirebbero rafforzati, con in tasca una consapevolezza nuova e più bella. Sarebbe equiparabile al passaggio di un turno a eliminazione diretta, perché vorrebbe dire costringere alla retrocessione in Europa League una potenziale candidata al titolo. È esattamente la sfida di cui avevano bisogno l’Inter, Simone Inzaghi e i suoi giocatori. (Alessandro Cappelli)