Tutti questi infortuni sono anche colpa dei preparatori?

Secondo Alberto Bartali, preparatore atletico che ha lavorato in tutto il mondo, le cose stanno in modo molto diverso.

All’interno della bolla – social e non solo – dei tifosi del Milan, c’è solo una persona che è più criticata di Stefano Pioli: il suo nome è Matteo Osti, di professione fa il preparatore atletico, ed è ritenuto il principale responsabile della catena di infortuni muscolari che hanno condizionato questo primo terzo di stagione dei rossoneri, alle prese con un’evidente crisi di gioco e risultati dopo un inizio di campionato che sembrava promettere ben altro. Non a caso, qualche giorno fa, la Gazzetta dello Sport ha dedicato a Osti un articolo in cui viene evidenziato il paradosso di un professionista che lavora in Serie A dal 2010, votato dai suoi colleghi come miglior preparatore del 2022, eppure finito al centro di quelle critiche che siamo normalmente portati ad associare ai giocatori o agli allenatori. 

Tuttavia, anche in un contesto del genere, «sindacare sulla professionalità umana e tecnica dello staff di preparatori del Milan è sbagliato», dice Alberto Bartali. Che poi aggiunge: «Parliamo di persone che lavorano, che studiano, che si mettono continuamente in discussione e che fanno un’autocritica continua, spesso creandosi da sole una pressione difficile da gestire dal punto di vista emotivo. Eppure sono convinto che abbiano il polso della situazione e che, per questo, siano gli unici in grado di trovare la soluzione migliore per cambiare le cose». La prima cosa che noto di Alberto Bartali, non appena mi risponde al telefono, è che il suo tono di voce ha un non so che di tranquillizzante: l’ideale per mettere a proprio agio il suo interlocutore mentre si sta discutendo di un argomento che è molto più complesso di quanto si possa pensare. Lui preparatore atletico lo è dagli anni Ottanta: «Ho cominciato al Pontedera con Lippi», racconta. «Oggi in uno staff ci sono almeno 20 professionisti, mentre all’epoca eravamo in due: io ero anche l’allenatore dei portieri. E quando finiva l’allenamento, con un panino in bocca, andavo a visionare la squadra che avremmo affrontato la domenica». E grazie al suo lavoro ha girato l’Italia, l’Europa e il mondo, dalla Francia alla Turchia – passando per la Russia. dove ha lavorato con Luciano Spalletti ai tempi dello Zenit.

Forse per questo è riuscito ad anticipare la risposta a una domanda che non gli avevo ancora fatto, come se sapesse che prima o poi saremmo arrivati al punto in cui gli avrei chiesto se Osti e i suoi collaboratori possano essere considerati i colpevoli per la crisi-infortuni del Milan. Se si guardasse solo al dato numerico dei 19 giocatori infortunati nelle prime 18 partite stagionali, la risposta dovrebbe essere sì. Ma la realtà è molto più complessa: «Oggi è stato scientificamente accertato che le cause degli infortuni sono innumerevoli. E non tutte controllabili, visto che risiedono in una multifattorialità che riguarda non solo l’allenamento nel suo complesso, ma anche la vita privata del singolo calciatore, la qualità dell’alimentazione, il lavoro individuale e l’attività di prevenzione dei problemi fisici prima e dopo la seduta, una cosa che tra l’altro al Milan fanno meglio che altrove. Senza contare che, alla fine, il tempo che uno staff ha a disposizione con i calciatori è limitato, poco meno di sei ore al giorno, quindi diventa impossibile pensare di prevenire tutto ciò che può accadere a livello fisico. Non dobbiamo dimenticare che parliamo di esseri umani: le stesse risposte ai test che vengono somministrati ai giocatori prima delle partite sulla qualità del loro recupero rischiano di essere falsate dalla volontà dell’atleta che vuole scendere in campo sempre e comunque. E poi mi sento di dire che, banalmente, a volte le cose capitano e basta».  

E allora qual è il problema? E come si interviene per provare a risolverlo? Se nel primo caso la risposta è quasi scontata – il calendario sempre più fitto e i pochi giorni di recupero tra una partita e l’altra – nel secondo le argomentazioni portate da Bartali mi fanno capire come la questione debba virare dal particolare al generale: «Quando si verificano queste situazioni bisogna fidarsi ancor più ciecamente dello staff. Di tutto lo staff: è necessario che il discorso venga allargato a tutte le componenti, comprese quelle societarie perché i risultati li ottengono tutti, dal giardiniere al capocannoniere, e soprattutto discutere sui temi e non sulle persone. Quando si va tutti in una direzione, i benefici che ne derivano si riflettono anche sui calciatori, vale a dire le prime persone a percepire il clima che si respira intorno a loro; quando invece non accade, anche a livello di una comunicazione non verbale, uscire da certi loop negativi diventa difficile. Nel caso del Milan l’ultima intervista di Maldini lascia intendere che, nel recente passato, più di qualcosa non sia andata per il verso giusto. Perché, appunto, a essere messe in discussione sono state le persone e non i temi».         

Come detto, però, quello dell’aumento del numero degli infortuni è un tema che va oltre la realtà specifica di un club come il Milan, oppure di un campionato: riguarda la bulimia del sistema calcio nel suo complesso, persino nell’epoca in cui i giocatori riescono a recuperare mediamente più in fretta dai problemi fisici. Secondo Bartali, proprio il concetto di recupero dovrebbe essere posto al centro del dibattito sulle metodologie di allenamento e sulla prevenzione degli infortuni, soprattutto se pensiamo che ai giocatori viene richiesta la massima efficienza psicofisica per circa undici mesi all’anno: «Giocare a calcio a questi livelli è usurante, fisicamente e psicologicamente: non ci sono solo le partite ma anche gli allenamenti e i viaggi con tutte le difficoltà connesse, per esempio i calciatori che rientrano nella notte dopo la partita e poi non riescono a dormire un numero sufficiente di ore, visto che al mattino successivo c’è già la seduta defatigante. E poi, dopo due giorni, un’altra partita. Si tratta di una routine comune ma che alla lunga può portare alla monotonia, cioè a una condizione che sfavorisce il recupero delle energie perché il giocatore passa dal voglio giocare al devo giocare, vivendola come un’ulteriore costrizione all’interno di una giornata in cui è già costretto a recarsi sempre nello stesso posto, alla stessa ora, per fare le stesse cose».  

Cioè né più né meno di quello che accade a qualsiasi altro essere umano che vede regolato il proprio ciclo vitale dalla routine lavorativa. E visto che ultimamente si sta tornando a discutere di aziende che stanno cercando di aumentare la produttività riducendo l’impegno su base settimanale perché non immaginare una soluzione simile anche in un calcio che ha raggiunto il punto di non ritorno per quel che riguarda il numero di partite che alcuni club sono chiamati a disputare? Per Bartali «bisognerebbe introdurre obbligatoriamente almeno tre giorni di intervallo tra una gara e l’altra, qualcosa che oggi è sempre più difficile da realizzare nonostante gli sforzi delle federazioni, e magari pensare di dare il giorno libero dopo la partita. Si tratta di una condizione indispensabile che riguarda anche quelli che non hanno giocato. Ne parlavo qualche giorno fa a cena con Claudio Taffarel, con cui ho lavorato al Galatasaray: oggi è il preparatore dei portieri del Liverpool e mi ha raccontato come, durante le pause per le Nazionali, non è raro che Klopp conceda una settimana di riposo a quella parte della rosa che non è in viaggio per gli impegni internazionali».  

Nell’ultima partita di campionato, il Milan ha dovuto fare a meno di quattro giocatori che possono essere schierati come difensori centrali: Kalulu, Kjaer, Pellegrino e Thiaw, oltre al mai convocato Caldara (Francesco Pecoraro/Getty Images)

E poi c’è un’altra variabile di cui tenere conto, che è quella del risultato: «Non è un caso che le squadre che inanellano una striscia positiva di partite hanno generalmente meno problemi: vincere ti porta delle gratificazioni e genera, a livello inconscio, delle certezze tali per cui sai che prima o poi accadrà qualcosa di positivo. E quindi sei naturalmente spinto a dare di più, a recuperare meglio e più in fretta. Diversamente, uscire da una spirale negativa è sempre complesso, quindi inserire almeno un giorno in più di riposo sarebbe utile. Un preparatore può controllare e gestire la fatica periferica dei muscoli e delle articolazioni, ma non quella centrale del sistema nervoso, vale a dire quella da cui dipende tutto il resto». Proprio per questo un’altra soluzione da implementare sarebbe quella di «rendere più motivanti e divertenti le sedute di allenamento, includendo componenti che possano essere allo stesso tempo ludiche e formative, in modo che i calciatori siano maggiormente invogliati a fare ciò che lo staff ha preparato per loro. In Italia in questo senso abbiamo un autentico maestro che si chiama Luciano Spalletti: non ho mai visto un allenatore più bravo di lui nel replicare in partita le stesse dinamiche dell’allenamento a livello di partecipazione e di coinvolgimento emotivo dei singoli interpreti».  

Anche questa risposta di Alberto anticipa indirettamente la domanda che stavo per fargli. Stavolta sul Mondiale 2022 e sull’impatto che ha avuto in termini di cambio di preparazione e, quindi, anche sul numero di infortuni all’interno di una stagione anomala: «Se guardiamo ai dati direi che gli staff hanno trovato le giuste contromisure a un qualcosa che ha comunque rotto una routine e cambiato abitudini consolidate senza che, per questo, si sia registrato un aumento significativo degli infortunati. Dal punto di vista delle prestazioni, poi, non è un caso che una squadra come il Napoli abbia fatto così bene così a lungo: Spalletti ha fatto tesoro dell’esperienza della Russia quando il campionato si fermava in inverno e riprendeva a marzo».  

A questo punto, però, è già sorta una curiosità che devo togliermi a ogni costo. In quasi un’ora di chiacchierata telefonica Alberto Bartali ha scardinato molte delle mie superficialissime convinzioni – che, poi, sono le stesse della stragrande maggioranza dei tifosi – sul ruolo e sulle responsabilità dei preparatori atletici. E lo ha fatto da esterno, quindi con una qualità e un’oggettività di analisi che conferisce ancor più valore alle sue considerazioni; non sarebbe però il caso che anche dall’interno i professionisti del settore si aprissero verso il mondo esterno anche per difendere la bontà del proprio operato nei momenti in cui viene messo strumentalmente sotto accusa? Ancora una volta, e siamo a tre, Bartali mi spiazza: «Noi dobbiamo cercare di proteggere il recinto in cui lavoriamo, all’interno del quale ci sono figure e professionalità che sono importantissime nel lavoro quotidiano. Se Pioli o Osti o chiunque altro impiegassero del tempo a spiegare ruoli e ambiti di intervento il rischio è che possa essere percepito come uno scarico di responsabilità nei confronti di chi collabora con te ogni giorno, quindi ci sta che si tenda a fornire spiegazioni generiche anche per non dare e darsi alibi. Per me non è così importante raccontare certe dinamiche all’esterno. Ma lo, invece, è trovare il modo di far passare un determinato messaggio che possa essere recepito dai calciatori che alleniamo in modo da metterli nelle condizioni di giocare al meglio delle loro possibilità. Non è quello che comunichiamo fuori ma ciò che comunichiamo dentro, a fare la differenza».