Dopo la finale di Europa League avremmo dovuto parlare solo della tripletta mostruosa di Ademola Lookman, o della prestazione dell’Atalanta contro una delle migliori squadre della stagione. Oppure, ancora, dei meriti di Gian Piero Gasperini nel preparare la partita. Invece ci siamo fatti attrarre dal post-partita. Dalle interviste, dalle frasi più forti, dimenticandoci del campo. Con una buona scusa, per una volta: «Non ci sono solo i titoli», ha detto Gasperini. «Quest’anno per esempio ha vinto anche il Bologna, per il campionato che ha fatto, hanno vinto il Verona e il Lecce che si sono salvati». Le dichiarazioni dell’allenatore dell’Atalanta sul significato della vittoria, nel calcio e nello sport, andrebbero ripetute come un rito al termine di ogni stagione. Invece puntualmente perdiamo anche le buone intenzioni, i discorsi si fanno estremi, manichei. Da una parte i bravi, quelli con nuovi trofei in bacheca, dall’altra il resto dell’umanità.
Gasperini non ha fatto nomi, ma è come se li avesse fatti. Perché la grande stagione del Bologna e le imprese del Verona e del Lecce nell’ultima parte di campionato non si possono scindere dai meriti dei loro allenatori. Il Bologna di quest’anno – non a caso il primo club citato da Gasperini nel suo discorso – è una creatura fatta a immagine e somiglianza di Thiago Motta. «Calcio posizionale o calcio relazionale? Faccio fatica a definire una cosa e l’altra, penso che il nostro gioco sia un misto di questi due aspetti», aveva detto qualche mese fa. L’allenatore del Bologna è il volto di una Serie A 2023/24 fondata sugli allenatori e sulla loro mistica, di un campionato in cui più del talento tecnico sono state messe in risalto le idee, le strategie e le nuove proposte di chi va in panchina. Più di Zirkzee e di Calafiori e di Ferguson, è Motta il protagonista e motore di una squadra moderna, proiettata in un futuro in cui il calcio si è liberato dalle rigidità meccaniche del gioco posizionale e ha trovato il modo per dare forma e senso all’approccio relazionale tipicamente sudamericano. Un’ibridazione sinonimo di progresso tattico.
In coda alla classifica si è visto lo stesso. Il Lecce non si sarebbe salvato se Gotti non avesse cambiato volto ai salentini arrivando a stagione in corso. E non sappiamo cosa sarebbe accaduto se Baroni, al Verona, non avesse tenuto salda la barra del timone mentre tutto ai piani alti della società sembrava crollare, e mentre la sua rosa veniva smontata e rimontata con pezzi nuovi e sconosciuti.
È sempre difficile misurare l’impatto e l’incidenza di un allenatore sui risultati della sua squadra, in fondo non c’è la controprova di cosa sarebbe accaduto con un altro al suo posto. Ma la Serie A, e mai come quest’anno, sembra plasmata da chi siede in panchina. In positivo e in negativo. Perché gli allenatori danno forma alle idee, prendono il materiale grezzo fornito dalla dirigenza, e, come l’alchimista con i reagenti, creano composti nuovi, non sempre funzionanti, non sempre bellissimi, ma magari trovano la giusta formula, quanto basta per raggiungere un buon risultato. Altre volte invece scoprono un elisir che promette di cambiare il mondo. Lo scudetto vinto dall’Inter, ad esempio, è una vittoria di Bastoni e Dimarco, di Calhanoglu e Barella, di Lautaro e Thuram. Ma è soprattutto una vittoria di Simone Inzaghi. Perché l’Inter di questa stagione è il punto d’arrivo di un percorso lungo tre anni in cui ci sarebbe anche una finale di Champions League, un arco narrativo sufficiente a dare alla squadra e all’allenatore il tempo di integrarsi alla perfezione, rendendo i nerazzurri praticamente ingiocabili per il resto del campionato. E se il gol-manifesto di questo campionato, più dei derby in cui i nerazzurri hanno triturato il Milan, è quello di Bisseck contro il Bologna su assist di Bastoni (da terzo a terzo, di difesa), si capisce ancora di più quanto Inzaghi sia riuscito a dare la sua impronta a questa squadra.
A proposito di terzi di difesa, in questo ragionamento rientra ovviamente anche per l’Atalanta di Gasperini. Negli anni il tecnico della Dea ha saputo rinnovare formazione e risultati al netto di perdite e cessioni sempre più pesanti. Come se la dirigenza volesse metterlo alla prova con test sempre più difficili, come in un videogioco: superati tutti i livelli, quest’anno Gasperini ha portato a Bergamo un’Europa League, cioè probabilmente la più grande impresa recente di una squadra italiana in campo internazionale. Nel frattempo è riuscito a trasformare il calcio, almeno dalle nostre parti: la sua Atalanta ha insegnato all’Italia come tradurre la difesa a tre in un calcio aggressivo, offensivo, anche spettacolare. Sono anni che l’Atalanta “vince”, nel senso gasperiniano del termine. E i risultati di questa stagione, in fondo, lo hanno solo reso più evidente. A tutti.
Per i club, gli allenatori sono diventati un investimento strategico indispensabile. Se i direttori sportivi sono quelli che mettono una squadra in condizione di vincere gli scudetti e fanno da collante tra tutti i reparti societari, gli allenatori prima di tutto devono riuscire a dare un senso al materiale umano che hanno a disposizione. Un mese fa Carlo Ancelotti ha detto che esistono solo due tipi di allenatore, quelli che non fanno nulla e quelli che invece fanno danni. È un modo un po’ paraculo per dire che i protagonisti sono i giocatori, gli allenatori possono fare poco. Praticamente non fanno nulla tranne mettere il loro talento al servizio della squadra. Ma vale fino a un certo punto. Forse nell’aria rarefatta del Real Madrid – o del Manchester City e del Paris Saint-Germain – vale un po’ di più. Ma forse nemmeno. Non è proprio così. Perché anche in quel caso all’allenatore viene chiesto di dare una forma, un indirizzo, alla squadra. Non ci è riuscito, ad esempio, nessuno dei tre allenatori passati per Napoli, chiudendo la peggior stagione possibile per una squadra campione d’Italia. Non che i record, positivi o negativi, di per sé abbiano grande valore, ma possono essere indicativi di un malfunzionamento. Il Napoli è rimasto incastrato in un limbo, rappresentato dal piazzamento a metà classifica. Una squadra insufficiente per qualificarsi in una qualsiasi competizione europea, non abbastanza tragica da finire in lotta per la salvezza.
Se c’è un messaggio che arriva dalla Serie A appena conclusa è che l’identità di una squadra non può essere una merce da svendere. Non la si può barattare in cambio di una manciata di punti in classifica, quanto basta per raggiungere gli obiettivi minimi. Nell’epoca della professionalizzazione del calcio, gli allenatori devono autografare il gioco delle proprie squadre, nel bene e nel male. Esattamente nel modo in cui la noiosa e bruttissima Roma di inizio stagione era una squadra di Mourinho e quella quasi antitetica del girone di ritorno è la Roma di De Rossi. È un approccio che per un decennio aveva caratterizzato la Liga spagnola, rendendola il campionato più interessante e spettacolare d’Europa, anche più vincente, a dispetto di una condizione economica disastrosa.
Adesso questa tendenza in Spagna si è un po’ bloccata, mentre in Italia si è diffusa ovunque. Nella Serie A 2023/24 calcio speculativo ha avuto sempre meno spazio, fino a perdere diritto di cittadinanza pochi giorni fa, con l’esonero di Allegri. Il minimo indispensabile non basta più. Per vincere non ci si può limitare a minimizzare le perdite giocando sulle debolezze dell’avversario. La sfuriata di rabbia di Allegri in finale di Coppa Italia come la chiusura di un cerchio. Il suo esonero come tramonto di un’epoca in cui si crede di vincere – sempre nel senso che intendeva Gasperini – puntando al ribasso.