Come l’Inter è diventata ingiocabile per la Serie A

La squadra di Simone Inzaghi ha dominato il campionato al culmine di un lungo percorso di crescita.

Se inseriamo nella barra di ricerca la parole “Inter” e “ingiocabile”, Google rimanda a una serie di dichiarazioni di allenatori, giocatori, giornalisti e addetti ai lavori, parole a volte anche molto distanti nel tempo eppure tutte molto simili tra loro. La prima, in ordine puramente cronologico, risale al 19 settembre 2023: nella conferenza stampa che precedeva l’esordio in Champions League, l’allenatore della Real Sociedad Imanol Alguacil spiegò di non voler parlare dell’Inter perché «se parliamo della forza di questa squadra o dei suoi grandi giocatori, alcuni dei miei potrebbero pensare che sia meglio non scendere in campo». Poco più di una settimana dopo toccò ad Alessio Dionisi: alla vigilia dell’unica sconfitta in campionato dei nerazzurri, 1-2 in casa contro il suo Sassuolo, disse che «in questo momento l’Inter è superiore e anche il miglior Sassuolo potrebbe non bastare, ma dobbiamo comunque provarci contro un avversario che sembra ingiocabile».

Da allora l’Inter ha vinto 28 delle successive 37 partite stagionali, perdendo solo contro il Bologna in Coppa Italia e contro l’Atletico Madrid nel ritorno degli ottavi di Champions League – peraltro non venendo mai eliminata nei 90′ in entrambi i casi – e inanellando una serie di 13 vittorie nelle prime 13 partite del 2024 tra gennaio e marzo. È in questo periodo che si collocano i numerosi virgolettati venuti fuori dalla ricerca Google di cui sopra, tra cui quello di Daniele Daino («La squadra di Simone Inzaghi è nettamente superiore. Quando trova queste prestazioni di altissimo livello dai propri singoli, diventa ingiocabile» disse a Sportitalia dopo l’1-0 alla Juventus del 6 febbraio che ha di fatto chiuso il campionato con tre mesi d’anticipo), di Daniele Adani («Quando gioca così, arrivo a dire che l’Inter è ingiocabile», disse commentando alla Domenica Sportiva il 4-2 dell’Olimpico contro la Roma), Fabio Liverani («Oggi l’Inter per noi era ingiocabile sono in uno stato psicofisico molto alto» spiegò dopo il 4-0 di San Siro alla Salernitana, il primo di tre consecutivi).

Paradossalmente il concetto stesso di ingiocabilità è emerso con maggiore chiarezza proprio dopo l’eliminazione ai rigori contro i Colchoneros di Simeone, al termine di una partita che per i primi 75′ non era apparsa mai in discussione e in pieno e totale controllo dei nerazzurri. Si poteva pensare che l’Inter più umana – quella che ha faticato contro Napoli, Empoli e Udinese, e che ha rischiato di perdere all’ultimo secondo contro il Cagliari di Ranieri – ridimensionasse il giudizio complessivo su un’annata in cui, in fondo, l’unico obiettivo raggiunto è stato quello che non è mai stato in discussione; e invece proprio le (relative) difficoltà dell’ultimo mese hanno ottenuto il risultato di dare ancora più valore a ciò che l’Inter ingiocabile aveva fatto fino alla prima metà di marzo, quando anche un allenatore solitamente abbottonato e prudente nelle sue esternazioni a mezzo stampa come Simone Inzaghi era stato costretto ad ammettere, a sé stesso e al resto del mondo, che «l’Inter gioca bene, ed è inutile negarlo. Sono due anni e mezzo che sto godendo, ho una squadra che cambia gli uomini ma che riesce a rimanere fedele ai propri principi ed è questa la mia più grande soddisfazione».

Nell’immediato prepartita con il Milan, l’ad nerazzurro Beppe Marotta ha detto che «il nostro obiettivo sono lo scudetto e la seconda stella, che sarebbe storica. Vincerlo stasera sarebbe solo la ciliegina». Ecco, in quel solo che ha ridotto a una mera formalità la possibilità di vincere un campionato storico nella partita più attesa e – in altri tempi – più temuta c’è tutta l’ingiocabilità che è stata attribuita all’Inter, sia quella reale che quella percepita. L’aver conquistato lo scudetto nel giorno del derby di ritorno, per altro dopo aver già brutalizzato quello dell’andata, è stata l’ultima e ulteriore dimostrazione di una forza e di una sicurezza mentale che vanno persino oltre quelle dimostrate sul campo. Una forza e una sicurezza che però sono strettamente connesse a quanto sul campo è stato fatto in questi tre anni in cui il lavoro di Inzaghi si è incastrato alla perfezione con il mercato di occasioni e parametri zero fatto dallo stesso Marotta. Quel Marotta che, dopo aver lasciato la Juventus con l’etichetta di dirigente non abbastanza visionario per assecondare la manie di grandezza di Andrea Agnelli, ha assemblato nell’unico modo che conosce – vista la situazione finanziaria del club, forse era anche l’unico possibile – una squadra che ha vinto due scudetti (più due Coppe Italia e tre Supercoppe Italiane) in quattro stagioni ed è tornata in finale di Champions tredici anni dopo l’ultima volta. Il tutto mentre la Juve depauperava tutto il vantaggio tecnico accumulato nel decennio precedente, avvitandosi su se stessa e sulle sue contraddizioni strutturali e filosofiche, entrando in una banter era di cui non si riesce ancora a intravedere la fine.

La relazione diretta tra minima spesa (sul mercato) e massima resa (sul campo) è fondamentale per comprendere come e quanto, in Italia, l’Inter sia diventata ingiocabile al di là dei record e di qualsiasi dato statistico che possa esprimere un dominio talmente netto da risultare a tratti persino desolante. Inzaghi ha vinto questo scudetto al termine di un percorso triennale in cui le certezze individuali e collettive si sono sedimentate sulla delusione per un campionato perso da favoriti nel 2022 e hanno poi tratto nuova linfa dal percorso europeo dello scorso anno. Una campagna che, rivista con gli occhi di oggi, alimenta addirittura qualche rimpianto per come è arrivata la sconfitta contro una squadra sì più forte ma che a un certo punto era stata fagocitata dalla pressione di non poter perdere ancora contro l’underdog di turno. 

Si può perciò dire che l’Inter campione d’Italia 2023/24, un’Inter quindi vincente oltre ogni ragionevole dubbio, sia il risultato di due sconfitte – quelle contro il Bologna nell’aprile 2022 e quella contro il Manchester City nel giugno 2023 – molto diverse tra loro, ma che hanno portato Inzaghi a convertire questo patrimonio di consapevolezze in un sistema che si è rivelato non solo efficiente ed efficace ma anche esteticamente godibile e appagante. Ingiocabile, appunto. E questo grazie a un lavoro certosino di moltiplicazione del valore dei singoli, e quindi del gruppo, da parte dello stesso Inzaghi. Un lavoro che ha portato i tifosi nerazzurri, ma non solo quelli nerazzurri, a guardare una partita dell’Inter come se fosse un’esperienza godibile a prescindere dal risultato finale, e che fosse connessa al piacere dell’attesa della gara successiva, quasi per il solo gusto di scoprire se e come il limite dell’eccellenza sarebbe stato spostato un po’ più in là. Una sfida continua con se stessi e con il proprio essere che ha avuto il suo culmine nel gol “da terzo a terzo” (assist di Bastoni e rete di Bisseck) contro il Bologna, sullo stesso campo e nella stessa porta in cui, due anni prima, Radu aveva commesso l’errore che era costato uno scudetto che sembrava già vinto: «Un gol da terzo a terzo è una soddisfazione incredibile per me e il mio staff. Una volta si parlava di fare gol da quinto a quinto ma da terzo a terzo è qualcosa di straordinario» ha commentato Inzaghi dopo la partita, faticando anche a trovare delle parole che riuscissero a esprimere tutta l’emozione provata di fronte a quello che poteva essere considerato come il suo capolavoro, l’essenza stessa della sua idea di perfezione sublimata da una singola giocata.

Un gol decisivo, ok, ma anche dall’enorme significato filosofico

Tutto questo non sarebbe stato possibile se i calciatori non avessero deciso di sentirsi dentro il progetto, di sacrificare parte della propria individualità per mettersi al sevizio di un ideale superiore accettato senza riserve. L’esempio più calzante è quello di Davide Frattesi: dopo un’estate da oggetto del desiderio del calciomercato di mezza Serie A, l’ex centrocampista del Sassuolo ha accettato di buon grado il ruolo di supersub che decide all’ultimo le partite in bilico – chiedere a Verona e Udinese – o che mette il punto esclamativo in quelle dominate dall’inizio alla fine. Quello che sembrava un passo indietro a livello di carriera si è trasformato in uno switch ulteriore nel percorso di crescita suo e della squadra: «Ho trovato un bel gruppo, sin da subito, che è qualcosa che aiuta molto», raccontò Frattesi qualche mese fa in una lunga intervista a Undici. «E poi chiaramente il modo di giocare dell’Inter è stato un motivo importante nel decidere di venire qui. Due punte davanti, le mezzali che si buttano negli spazi, tutto questo valorizza il mio ruolo. Provo sempre a migliorarmi, a confrontarmi con gente più forte. La convinzione di voler arrivare qui all’Inter, di rimanerci, è talmente grande che mi porterà a raggiungere quello che è il livello di questa squadra». In queste parole c’era e c’è il il filo conduttore dalla necessità, anzi del senso di urgenza, di essere subito all’altezza di quella che ha definito come la gratificazione per tutti i sacrifici che ha fatto per arrivare a far parte di «un gruppo straordinario, in campo e fuori». 

Un gruppo che ha tante anime, tanti padri e tanti leader tecnici ed emotivi tra cui scegliere. Due in particolare, però, sono quelli che ricorrono in quasi tutti i discorsi in cui si cerca di dare un volto a una superiorità lunga una stagione: stiamo parlando di Hakan Calhanoglu e Marcus Thuram, protagonisti del gol del provvisorio 3-0 in casa del Monza, quello che più di tutti ha trasmesso a livello di sensazioni visive ciò che l’Inter è stata durante tutta quest’annata. E, cioè, una squadra feroce e chirurgica quando si è trattato di risalire il campo a tutta velocità dopo il recupero palla e, allo stesso tempo, disarmante per la facilità con cui è riuscita a far apparire naturali e ovvie anche giocate tecnicamente complesse, come può esserlo un colpo di tacco all’interno dell’area di rigore che prende in controtempo il difensore che aveva faticosamente recuperato la posizione.

C’è solo la parte finale dell’azione, ma basta e avanza

Calhanoglu e Thuram costituiscono la perfetta rappresentazione della sintesi raggiunta tra l’operato di Inzaghi e quello di Marotta, oltre che la personificazione del principio per cui la grande squadra è quella in cui diventa difficile distinguere a occhio nudo quando sia il contesto ad esaltare il grande giocatore e viceversa: il centrocampista turco, dopo una prima stagione in cui ha sostanzialmente confermato la versione di giocatore che va bene fino a un certo punto, si è trasformato in uno dei registi più raffinati ed elitari del panorama internazionale, trovando quella continuità di rendimento che gli aveva sempre fatto difetto nei suoi anni formativi; l’attaccante francese ha invece impiegato poco meno di cinque partite per dimostrarsi l’upgrade che Inzaghi cercava per lasciare a Lautaro Martínez – un altro grande leader, basterebbe ricordare che si tratta del capitano dell’Inter e del capocannoniere della Serie A – il solo compito della finalizzazione, migliorando sensibilmente qualcosa che già funzionava ma non così a lungo e così bene come da quando c’è Thuram a occuparsi di scatti, sponde, sgroppate, attacchi della profondità. È stato proprio lui a segnare il gol che ha dato inizio alla festa, dopo aver già marchiato a fuoco l’andata con un’arcobaleno nel cielo carico di pioggia che lasciava già presagire tutto ciò che sarebbe stato da lì in poi. Perché ingiocabili non si nasce ma lo si diventa, e non per caso. L’Inter lo è diventata col tempo, grazie al lavoro, a una crescita costante, diventata inarrestabile da un certo punto in poi. Fino a conquistare uno scudetto mai davvero in discussione.