Essere Alessandro Del Piero

Una lunga intervista all'ex stella della Juventus, da poco arrivato ai 40 anni. Sulla Juve, sui tifosi, sull'addio a Torino, la famiglia, gli Agnelli, la Nazionale. Sul suo futuro, che potrebbe essere da allenatore. Una chiacchierata che diventa un autoritratto.

del piero

Alessandro Del Piero gira il mondo per sentirsi a casa. Ce n’è sempre una per lui: mister Del Piero, ovunque. Con il suo modo d’essere, con la sua storia. Parte, va. Torna. È  in volo. Uno di quelli che in due mesi e mezzo l’hanno portato in Australia, Italia, Inghilterra, di nuovo Italia, Brasile, daccapo Italia, Stati Uniti, di nuovo Australia, ancora Italia, India. Si gira, sorride, fa un cenno con la testa. Si alza dal posto 2 B. Sta chiedendo all’hostess dove possiamo fermarci per parlare un po’. Lei non ha ancora risposto che arrivano due ragazzi svizzeri. L’avevano visto all’imbarco, l’hanno seguito con lo sguardo e hanno aspettato il momento per avvicinarlo.
«Possiamo farci una foto?».
«Certo, ragazzi».
Sono i primi. Alla fine dell’intervista si conteranno 21 passeggeri con autografo e 32 (compresi i 21 di prima) con fotografia. È un selfie che gira, l’autoscatto felice e sorridente con una star globale. Ha cominciato a Tokyo nella finale dell’Intercontinentale 1996: segnò e si prese il Giappone. Gli altri Paesi sono arrivati uno dopo l’altro. Oggi forse è il pezzo di calcio italiano più conosciuto al mondo. Anzi, togliete il forse. Ale è riconoscibile, riconosciuto, visibile. La confederazione asiatica del pallone gli ha chiesto di essere ambasciatore della Coppa d’Asia del 2015. Lo ha fatto quando ancora giocava in Australia e ha sperato che andasse bene la trattativa per portarlo in India. Eccolo. Un miliardo e duecento milioni di persone di potenziale bacino e 20 milioni di appassionati certi. Alessandro è un marchio personale e collettivo. Ora si avvicina una signora, dice di essere colombiana, lo saluta, lo bacia, scatta una foto. Grazie.  Con il fuso della partenza sarebbero le tre del mattino. Non le dà mai fastidio? «No. La gente è la nostra vita. Io li guardo che mi guardano e mi preparo. Lo so, sono stato un fan anche io. Se avessi mai potuto incontrare il campione che amavo avrei sperato in un sorriso. Perché dovrei negarlo a queste persone? È un piacere. Se lo consideri un fastidio è meglio che cambi vita». Invece a lui questa piace. Gli piacerebbe anche dormire. Sulla poltrona ha appena appoggiato una borsettina. Dentro ci sono la mascherina, le calze da notte e il necessario per la mattina seguente. Non li vedrà per le prossime due ore. Perché adesso parla.  Dei suoi 40 anni, che compirà il 9 novembre. In campo, ancora. Del passato, della Juve, dell’Australia, della famiglia, del calcio. Del futuro. Sì, l’India. Con la sua faccia, le sue gambe, la sua storia per portare il pallone dove non è ancora calcio. Poi? Televisione, altri viaggi, progetti di comunicazione, iniziative benefiche. Il brand Adp, cioè se stesso da valorizzare, perché ce n’è ancora. Perché piace.

«La gente è la nostra vita. Io li guardo che mi guardano e mi preparo. Lo so, sono stato un fan anche io»

Giuseppe De Bellis: Come sta?

Alessandro Del Piero: Bene. Anzi: benissimo.

GDB: Quanto si sente cambiato?

ADP: Calcisticamente o umanamente?

Entrambi…

Non so se sono cambiato. Sono invecchiato, e questo di sicuro è un cambiamento. La volontà di costruire un percorso fuori dal campo cresce man mano che sento avvicinarsi il giorno in cui smetterò. Questo mi ha inevitabilmente cambiato: ho cercato esperienze e posti che mi permettessero di conoscere cose che fino a quel momento non conoscevo. Quindi l’Australia. Quindi l’India. Mi sono evoluto. Sono maturato, ho altre priorità: prima pensavo a giocare per vincere, ora penso a giocare per il piacere di farlo, per onorare il mio sport lontano dai percorsi più battuti. Per conoscere il mondo. E comunque vincere.

Alcuni dicono che la carriera agonistica è finita il 13 maggio 2012, il giorno di Juventus-Atalanta…

Hanno ragione in parte, così è troppo superficiale. Lì è finita la carriera agonistica nel calcio che ho conosciuto fino a quel momento, ma non quella da calciatore. Sembrano la stessa cosa, ma non lo sono. Avevo molte offerte: in Inghilterra, in Scozia, in Spagna, in Portogallo, in Francia, in altre parti del mondo. Alcune erano squadre competitive. Ho fatto una scelta: niente Italia, perché dopo 19 anni di Juventus non sarei potuto andare altrove. Niente Inghilterra, niente Scozia, niente Spagna, niente Portogallo, niente Francia. Se hai avuto la fortuna di vincere tutto con la tua squadra non cerchi un surrogato altrove. Quello che è accaduto quel giorno allo Juventus Stadium spiega anche le scelte che sono arrivate dopo: cosa potevo chiedere di più? Solo qualcosa di diverso. Ecco l’Australia. E l’India è una scelta coerente con quella fatta due anni fa.

Com’è allenarsi a 40 anni? Dove si trova la forza?

È bello. Chi non lo prova non sa quanto possa essere entusiasmante. Ti fa continuare a sentire un calciatore e questa è una sensazione bellissima. La forza si trova nella felicità di fare ciò che ti piaceva e che è ancora ciò che ti piace: giocare a pallone.

Ha detto: alleno di più il piede sinistro. Lo fa ancora?

Sento sempre l’esigenza di coltivare la sensibilità del piede, la forza, la precisione. Oggi il mio allenamento è portare il mio fisico e la mia testa a essere ogni giorno al massimo delle loro attuali possibilità.

Il suo dopo è già cominciato. La tv, l’arte, la comunicazione, le partnership con aziende. Sembra che stia aspettando di capire che cosa scegliere nella carriera da ex calciatore…

Non voglio scegliere solo una cosa. Forse è questa la differenza con alcuni dei miei colleghi. Ho molti interessi, li ho sempre avuti. Li coltivo. L’esperienza fatta con Sky al Mondiale mi ha entusiasmato. Mi sono divertito, ho visto questo mondo da un’altra prospettiva. Ho vissuto il Mondiale da tifoso, da calciatore, da commentatore. Non potevo chiedere di più. La tv era qualcosa che un tempo sentivo distante, mentre oggi mi piace, la studio, la analizzo, la voglio vivere.

Quindi l’anno prossimo sceglierà la tv?

È una possibilità. Ma non una certezza. Ho una stagione per pensarci, per capire, per scegliere.

Ha sempre detto: mai allenatore…

Adesso non dico più: “Mai”. Per la prima volta è una prospettiva che vedo: lontana, ma la vedo. Anche qui: è una possibilità. Nell’ultimo periodo ho capito anche scelte che allenatori hanno fatto in passato con me, ho compreso le loro ragioni, mi sono immedesimato e ho colto sfumature che in passato non avevo colto. Questo non vuol dire condividerle, ma comprenderle.

Che cosa le ha fatto cambiare idea?

Forse proprio l’esperienza in tv. Ho capito che cosa mi interessa del gioco, del suo sviluppo, della preparazione delle partite. Mi piace analizzare i movimenti dei giocatori in campo, le possibili soluzioni a una situazione tattica particolare, le scelte che l’allenatore fa quando la partita è bloccata, la strada che prende un singolo in una giocata uno contro uno. Da giocatore pensi a tutto questo in un contesto singolare: come faccio io a fare una certa cosa nell’interesse della squadra? Commentando le partite mi sono reso conto che oggi la mia visione è meno singolare e più collettiva e questo mi avvicina filosoficamente a un allenatore. Oppure vuol dire che sono davvero vecchio.

Ha avuto tutto?

Ho avuto molto.

Che cosa le manca?

Calcisticamente niente. Ho avuto una carriera meravigliosa. Ma la vita ti porta comunque ad avere desideri nuovi ogni volta. Oggi vorrei raggiungere altri risultati. Anche giocare un altro anno ancora può essere quella cosa che ti manca. Finita quella ce n’è un’altra. È la nostra ricerca costante di una soddisfazione. È una sensazione bella. Che c’è di più bello di avere un obiettivo, qualunque sia, e lottare per raggiungerlo?

Le torna mai in mente il Del Piero ragazzino?

Oggi ci penso più spesso. Qualche settimana fa ho scritto sul mio sito una lettera ai tifosi del Padova dopo la notizia del fallimento della società. Sono tornato indietro di quasi venticinque anni, mi sono rivisto lì in quella squadra e in quella città che all’epoca mi sembrava enorme.

Come enorme?

Ero solo, ero un bambino di campagna costretto a lasciare la famiglia per inseguire un pallone. Padova mi sembrava una metropoli, mi toglieva il respiro. Mi misero in una specie di collegio, c’erano camerate giganti, anche se avevo il privilegio di avere una stanza tutta per me: è lì dentro che mi sono formato. Nella solitudine dei miei sogni, dai tredici ai diciotto anni. Ricordo alla perfezione quella camera, come se ci stessi dentro ancora adesso. Era lunga, stretta, minuscola. Aveva un armadio e una finestrella in fondo. Per vedere fuori dovevi metterti sotto alla finestra e poi alzarti sulla punta dei piedi.

Commentando le partite mi sono reso conto che oggi la mia visione è meno singolare e più collettiva, e questo mi avvicina filosoficamente a un allenatore.

Mai pensato io me ne torno a casa, a San Vendemiano?

Se rivedo il bambino che ero, timido ed emotivo, mi sembra pazzesco pensare a ciò che sono riuscito a fare. Credo che si commetta spesso un errore: pensare che i timidi siano deboli. Avevo 13 anni, ma non sono mai stato vinto dalla nostalgia. Con la testa già viaggiavo. L’ho scritto nel mio ultimo libro: se non fossi diventato bravo col calcio, forse avrei fatto il camionista: perché il sogno era andare, vedere, curiosare. Si può dire che il talento abbia anche a che fare con il carattere e con le sue eventuali debolezze. Io ero timido, ma non debole. Ricordo il giorno della partenza da casa, il pianto di mia mamma, la mano di mio padre che mi accompagnava a Padova. Non avevo paura. Vivevo quell’esperienza come una specie di gioco a premi, un percorso che ero stato chiamato ad affrontare e che alla fine mi avrebbe regalato la realizzazione dei miei sogni.

Qualcuno ha scritto che da ragazzino era spaccone. Gira voce di un Alessandro bulletto che però di fronte alla mamma Bruna si scioglieva…

Non esiste. Mai. Non sono mai stato un bulletto. Anzi. Ero l’obiettivo dei bulletti, ero timido, chiuso. Ho sempre usato la furbizia e la scaltrezza con quelli più grandi di me. Anche in campo.

È vero che la prima prova di coraggio fu su un albero di ciliegie?

Era un ciliegio alto sei metri, o almeno così dicevamo noi da ragazzini a San Vendemiano. A noi pareva che i frutti più buoni, più grossi, più rossi, più succosi fossero tutti più in alto. Arrampicarsi era una sfida con gli altri e con se stessi. Il giorno in cui arrivai in cima per la prima volta mi sentii felice.

Ha detto più di una volta: sono cresciuto in una famiglia in cui si stava attenti a ogni centesimo. È un ricordo che le serve anche oggi che non ne ha bisogno?

Il ricordo è l’educazione ricevuta dai miei genitori. La cultura del sacrificio, la consapevolezza di aver avuto una vita da privilegiato, di fare un lavoro che non è un vero lavoro: il lavoro era quello di mio padre. Faceva l’elettricista. Ricordo la sua stanchezza quanto tornava a casa, ma ricordo anche i suoi sorrisi. I sacrifici dei miei sono stati la forza più grande, per me e mio fratello. È vero: a volte si sentiva la tensione per i soldi, ma loro non cadevano mai nel vittimismo, non si lamentavano mai. E hanno trasmesso a me e a mio fratello la capacità di adattarsi: le difficoltà erano la nostra spinta a fare meglio. L’ho detto altre volte: se non potevano comprarmi un pallone nuovo, allora avrei aspettato il prossimo compleanno. E se i miei compagni portavano le Timberland, io mi accontentavo delle Fimberman. Per tanto tempo ho portato gli abiti dismessi di mio fratello Stefano. Era una specie di ciclo: io prendevo in eredità le cose degli altri.

Del Piero in azione contro il Torino, il 3 dicembre 1996. AllSport UK/Getty Images
Del Piero in azione contro il Torino, il 3 dicembre 1996. AllSport UK/Getty Images

Mai provato invidia?

Non pensavo alla moda, ero solo un bambino. Mi ricordo la felicità nella scelta del regalo per il tredicesimo compleanno. Era poco prima di andare a Padova… Mia madre mi chiese che cosa volessi come regalo. Stefano aveva appena lasciato il motorino per la macchina, quindi sapevo che a 14 anni quel motorino sarebbe stato mio. Pensai: gli chiedo un casco. Però in realtà volevo un robot e alla fine scelsi quello. Lo conservo ancora, si chiama Emperor.

Che cosa pensavano i suoi genitori dei primi guadagni da calciatore?

Ricordo che quando tornai a casa per la prima volta con un macchinone – era una Mercedes coupé – provai un po’ di imbarazzo. In quel contesto quella macchina non c’entrava nulla. In fondo sapevo che mio padre la pensava così, ma non disse nulla. Tirò fuori dal garage la sua vecchia auto per far posto alla Mercedes. Era un box piccolino, mi disse di stare attento a non rigare la fiancata. Quell’auto costava così tanto… Poi, però, ricordo anche la soddisfazione di un altro momento della vita: con il primo stipendio della Juventus mi comprai il cellulare e poi un’automobile. I giocatori della Juve avevano diritto a due auto del gruppo Fiat con lo sconto del 50%. Io presi una Punto Gt e una fantastica Lancia Delta integrale: ce l’ho ancora, come il robot Emperor. Con l’arrivo di quella macchina cambiò il giro della catena: a me la Delta, a mio fratello la Punto Gt, a mio padre la Tipo che era stata di Stefano. E la Uno, che fino ad allora guidava mio padre, finì in vendita. Io, il più piccolo, che passava qualcosa agli altri: per me fu una grande soddisfazione. Una specie di risarcimento morale nei confronti dei miei che avevano fatto tutti quei sacrifici per me.

Torino. La Juve. Era il 1993…

Ero passato dal Padova alla Juve Primavera. Avevo diciotto anni. Se Padova mi sembrava grande, immaginatevi Torino. Tremavo davanti alle sue strade e a quei palazzi che mi sembravano grattacieli. A volte mi dava una sensazione di cupezza, quasi a far sentire la fatica operaia che c’era dentro quelle fabbriche che io non avevo mai visto. Però avrei accettato di dormire anche in una baracca pur di essere lì, alla Juve. Ci pensavo: sono alla Juventus. Mi ripetevo: sono alla Juventus. Ci sono rimasto 19 anni. Anche se alla fine della prima stagione sarei potuto andar via.

Ecco. Se n’è parlato diverse volte. Come fu la storia?

Era quasi deciso che sarei passato al Parma, in prestito. Sembrava fatta. Ricordo di aver incontrato anche il presidente Tanzi. Invece, poi, il Parma prese Dino Baggio e il mio trasferimento lì saltò. Lippi disse alla società che come quarta punta il ragazzino andava benissimo. Il ragazzino ero io. La storia cominciò così. Se avessi cambiato maglia, forse sarebbe stato tutto diverso.

Si ricorda più spesso l’esordio o l’addio alla Juve?

Oggi mi capita più spesso di pensare al giorno dell’addio. Ci sono momenti in cui rivedo quel giro di campo infinito allo Juventus Stadium. Quell’applauso spontaneo, profondo, quelle lacrime mi rendono felice e orgoglioso. Non sono ancora riuscito a descrivere a parole quello che ho provato. Quel momento mi ha dimostrato, ancora una volta, quanto sia stata speciale la mia avventura in bianconero. Unica. E non soltanto per me.

Ma lei ha pianto? C’è chi ha scritto di sì e chi ha scritto di no…

Non lo so, sinceramente. Non lo capisco neanche riguardando le immagini.

In un’intervista a Vanity Fair di due anni fa parlò per la prima volta della delusione per come maturò il suo addio alla Juventus. È cambiato qualcosa?

No. Ma è passato del tempo.

S’è mai sentito fuori posto nella Juventus?

Mai. Per 19 anni è stata casa mia.

S’è parlato spesso del suo rapporto con Gianni Agnelli. Chi era?

Una persona incredibile. Sorprendente. Spiazzante.

La chiamava?

Sì, solitamente la mattina presto. Prestissimo.

E quando vedeva il suo numero sul cellulare che cosa pensava?

Il suo numero non appariva, primo perché all’epoca non appariva il numero di nessuno. Poi perché comunque il suo non appariva nemmeno nell’epoca in cui quelli di tutti gli altri apparivano. E poi chiamava a casa.

Che cosa diceva?

Era cordiale. Chiedeva come stavo, che facevo, se era tutto a posto. Poi scivolava sull’argomento che gli interessava: se c’era troppo entusiasmo diceva sempre una frase che lo frenava. Se era un periodo negativo, invece, ti esaltava. L’ho detto: era spiazzante. Era il suo modo di essere all’interno della Juventus sempre e comunque. Ed era incredibile pensare che un uomo come lui, con tutti i suoi impegni, desiderasse così fortemente prendersi un po’ di tempo per la Juventus.

C’è un momento con lui che ricorda?

Due. Di uno mi ricordo la data: era il 16 marzo ’94, dopo che il Cagliari ci eliminò dalla Coppa Uefa, si presentò nel ritiro di Villar Perosa con un ritaglio di giornale in mano e disse: «Ragazzi, qui scrivono che siete dei brocchi, dimostrate che non è vero». La domenica giocammo in campionato contro il Parma che aveva appena vinto con l’Ajax: vincemmo quattro a zero. Segnai tre gol. Un’altra volta al Delle Alpi, prima di  Juve–Milan, mi chiamò al telefono mentre facevo il riscaldamento. Mi vennero a prendere, mi portarono nel sottopassaggio per rispondere alla telefonata. Pochi secondi: «Come sta? Giochi bene, mi raccomando». Perdemmo 1–0.

Ha mai desiderato di non essere Del Piero?

No. Sono stato Del Piero quando ho vinto; sono stato Del Piero quando ho perso.

E qual è stata la sconfitta peggiore?

All’Europeo 2000. Ebbi l’occasione di segnare due gol ma non ci riuscii, la Francia vinse in dieci secondi la partita e la Coppa. Ho ripensato spesso a quel momento. Perché sbagliai? E come sbagliai? La verità è che una risposta vera non c’è. L’ho capito col tempo. Anche se hai segnato più di trecento gol è come se non fossero serviti ad altro che a preparare il successivo: a 40 anni capisci che è il destino. Non sai dire come hai realizzato un certo gesto tecnico e nello stesso modo non puoi sempre sapere come l’hai sbagliato. Semplicemente accade.

Ha detto: «Chiesi scusa a Zoff. Il giorno dopo ricominciai». Ecco: come si ricomincia?

Col sacrificio. Col dolore. Con il campo. Sì, il campo aiuta. Aiuta a sacrificarsi e a lenire il dolore, quello fisico, come dopo un grave infortunio, e quello emotivo, come dopo una delusione. Stando in campo hai la possibilità di rimediare anche a ciò che ti sembra irrimediabile. Io dopo l’Europeo mi sentivo vuoto, deluso, amareggiato, in colpa. Giocare, segnare, esultare mi ha permesso di superare quel momento e mi ha dato la convinzione che ci fosse ancora una possibilità. La possibilità è arrivata: non era scontato, ma è arrivata.

Il Mondiale 2006 ha cancellato tutte le delusioni?

Sono diventato campione del Mondo. Questo è un risarcimento unico. Io non credo che le delusioni si possano cancellare. Restano con noi, a volte tornano in mente, quasi come quei rimproveri che ti facevano i genitori da piccolo e che non ti scordi più. Le amarezze di una carriera sportiva restano, ma se hai la fortuna di alternarle alle gioie sei un uomo felice. E io quando ripenso alla Nazionale ora non penso più al golden gol di Trezeguet a Rotterdam, ma alla corsa dopo il mio gol contro la Germania e a quella dopo il rigore di Grosso a Berlino. Corro come un matto prima verso Fabio, poi verso Buffon. Vedendomi dall’esterno oggi capisco ancora di più quanto fossi felice in quel momento.

Ma è vero che di quel Mondiale non ricorda quanto ha giocato?

Sì. Più che altro non mi interessa. Non ricordo nemmeno più se ho giocato e quanto ho giocato prima della semifinale con la Germania. Titolare, subentrato: non mi importa. So che in quella partita straordinaria a Dortmund ho segnato il 2–0 con un gol bellissimo. So che in finale ho calciato uno dei rigori decisivi. Vincere conta, a volte per un calciatore è davvero l’unica cosa che conta. Se non ci fossi riuscito, probabilmente non sarei così sereno come sono.

Qual è il posto di Del Piero nella storia del calcio italiano?

Questo lo diranno altri. Io mi sentirò per sempre un campione del Mondo.

Qual è il posto di Del Piero nella Juventus?

Anche questo lo diranno altri. Sono stato un giocatore, sono stato un innamorato fedele. Sono stato un capitano.

Che cosa vuol dire essere un capitano?

Essere educato, essere un esempio, essere un riferimento. Può sembrare una frase scontata, ma per me è soprattutto una frase vera. Il capitano spesso è una specie di sindaco, uno che regola la vita di una squadra, la rappresenta. Deve saper parlare, anche verso l’esterno. Ci sono un sacco di cose da mandare giù anche se non vuoi e un capitano deve farlo per se stesso e per gli altri.

Si ricorda la cosa più importante fatta da capitano?

Mi è successo di bussare alla porta di un compagno per cercare di tranquillizzarlo. Capitava che i ragazzi, spesso i più giovani, ma non solo loro, mi cercassero per raccontarmi un loro problema. Io gli facevo sentire la sicurezza di avere qualcuno con cui potersi confrontare.

Ma il contrario è mai accaduto?

Che fossi io a chiedere aiuto?

Sì…

È accaduta un’altra cosa, un po’ diversa. Non ho chiesto aiuto, ma qualcuno ha capito che ne avevo bisogno. Eravamo in ritiro, a un certo punto si avvicina Montero. C’era stima e collaborazione tra colleghi, ma non ancora confidenza. Quella sera Paolo mi prende da parte e mi fa: «Oh, ma che hai? Sempre ‘sto muso…». Io lo guardo e non so che cosa rispondere. Sorpreso, in silenzio. Comincio a dire qualche banalità, lui mi stoppa. E parla: «Vabbè, qualunque cosa tu abbia, fattela passare. Non vedi come ti guardano i ragazzi più giovani che si allenano con noi? Tu per loro sei un grande, sempre e comunque. Pensaci». Era la stagione 1999/2000, quella dopo l’infortunio al ginocchio. Non funzionava niente. Paolo aveva capito che io avevo bisogno esattamente di quelle parole. Mi aveva osservato, aveva capito le mie ombre e aveva deciso che dovessi combatterle.

Una volta ha detto: c’è stato un periodo in cui ho giocato in una squadra con nove capitani…

Uno, due, tre… otto, nove. È vero, sì. Ho giocato con campioni che se non fossero stati alla Juve sarebbero stati capitani in qualunque altra squadra. Penso a Cannavaro, Buffon, Thuram, Vieira, Emerson, Nedved, Peruzzi, Deschamps, Zidane, Van der Saar, Di Livio, Montero. Ciascuno aveva un carisma incredibile. Negli spogliatoi sembravano sempre padroni della situazione e in partita erano quasi fratelli.

Ecco: come si fa il capitano di altricapitani?

Essendo se stessi. Non ho mai pensato: adesso mi comporto così, faccio questo o faccio quello. Mi sono comportato come mi sentivo in quel momento. Non credo di aver fatto sempre la cosa giusta, ma ho fatto quello che in quel momento mi pareva giusto.

Passa sempre per buono. Ma possibile che non abbia mai litigato con qualcuno?

Ho litigato, ho litigato. Mi capitava con i compagni con cui avevo più confidenza: Di Livio e Tacchinardi. Li conoscevo da molto tempo, con uno avevo giocato sin dai tempi del Padova, con l’altro c’era vicinanza perché eravamo i due più giovani della Juventus. Con loro mi sfogavo, a volte li maltrattavo e loro facevano lo stesso con me.

E con i giovani? Mai avuta l’impressione di mettere in soggezione qualcuno?

Sì. I giovani a volte erano intimiditi. Ti vedevano come un mito e sembravano timorosi. Ma è capitato anche a me.

E quando lo notava che faceva?

Continuavo a essere me stesso: non cambiavo in relazione alla persona. Cercavo di far capire che in un gruppo non bisogna sentirsi a disagio. Li trattavo come trattavo gli altri. Credo che un capitano non possa fare eccezioni davanti alla squadra. Le regole, soprattutto i doveri, sono uguali per tutti.

Se ripensa ai suoi compagni e al giudizio che loro avevano di lei, chi la colpisce di più?

Ho ricevuto grandi attestati di stima, anche inattesi, e forse per questo ancora più preziosi. Tra gli ultimi, mi viene in mente Ibrahimovic. Mi ha colpito molto che qualche mese fa, quando gli hanno chiesto di scegliere una squadra ideale con undici giocatori con i quali ha giocato, abbia scelto molti della Juventus, e tra loro ha scelto anche me. A volte i complimenti migliori sono parole che non sembrano avere a che fare coi complimenti.

Cannavaro ha detto che è la miglior persona con cui abbia giocato. Le piace?

Sono felice che l’abbia detto. Sono felice che lo pensi. È stato un grande capitano, ha alzato la Coppa che abbiamo vinto a Berlino. Mi piace ricordare che il gol più importante della mia carriera, quello contro la Germania a Dortmund, sia nato da quei suoi meravigliosi colpi di testa in uscita dalla difesa. Fenomenale, un muro insuperabile. Lui dice che per me il suo recupero è stato come un assist. Io lo prendo in giro e rispondo che se non avessi fatto gol in quell’azione nessuno si sarebbe ricordato della sua giocata.

Tra i rivali chi l’ha colpita di più?

Del Piero esulta dopo un gol segnato al Real Madrid, al Bernabeu il 5 novembre 2008. Jasper Juinen/Getty Images

Totti. Eravamo diversi, due modi forse opposti di essere capitani. Ma c’è sempre stata grande stima, e ci sarà sempre. Professionale ed umana. Il rispetto e l’ammirazione di un avversario contano tantissimo, e questo vale anche per i tifosi avversari. Per questo il mio ricordo più bello “da rivale in trasferta” è la standing ovation al Santiago Bernabeu, dopo la doppietta contro il Real Madrid. Era il 2008, avevo già 34 anni, per qualcuno avrei dovuto già essere un ex, invece mi è capitata una delle più grandi soddisfazioni della vita: uno stadio avversario, quello stadio, in piedi per me. Credo che se fosse accaduto dieci anni prima non me lo sarei goduto come me lo sono goduto in quel momento.

Più importante quella doppietta o il gol a Bari dopo la morte di suo padre?

Due cose diverse. Nel gol di Bari ci sono molte cose che vanno al di là del calcio. Tecnicamente mi sorprese quando lo rividi in tv per la prima volta, perché ero sicuro di avere fatto un doppio passo classico, e invece no, era stata una cosa diversa. Emotivamente, invece, in quel momento c’è una sofferenza enorme che viene fuori con l’urlo subito dopo il gol. La morte di mio padre è stato il dolore più grande della mia vita.

Ha detto: avrei voluto dire un sacco di cose a mio padre…

Ho il rammarico che non abbia conosciuto i miei figli. Ho cercato di conservare in me la sua parte migliore. Era silenzioso, concreto, leale. A San Vendemiano ogni tanto mi è capitato di parlare con chi lo aveva conosciuto e attraverso i loro racconti mi è sembrato che lo stessi conoscendo ancora meglio. Ho il rimpianto delle parole che non sono riuscito a dirgli, il tempo che non gli ho dedicato, i sorrisi e il pudore che a volte non ho saputo interpretare. Ho il dispiacere di sapere che a volte non c’è niente da fare: avevo i soldi per provare a fare di tutto per salvarlo, ma non sono serviti a nulla.

È vero che lui teneva un taccuino con tutti i risultati e  i marcatori?

Sì. Più che un taccuino era una raccolta di ritagli. Qualunque cosa uscisse su di me, soprattutto nei primi anni, quando ero a Padova. Ce ne sono due conservati a casa dei miei. Quando li sfoglio trovo perfino ritagli di notizie di sette righe. Risultato e marcatore della Primavera del Padova.

Che cosa pensa di trasmettere ai suoi figli delle cose che le ha trasmesso lui?

Il rispetto per se stessi e per gli altri. I miei figli sapranno di essere dei privilegiati. E spero di riuscire a trasmettergli che questo ha un significato. Hanno potuto girare il mondo, lo faranno ancora. Hanno mezzi e possibilità che altri non avranno mai.

Che cos’è  la ricchezza?

Una fortuna.

Che cos’è la notorietà?

Un privilegio.

Che cos’è il calcio?

La cosa che so fare.

Una versione leggermente più ampia di questa intervista è stata originariamente pubblicata sul numero 2 di Undici, settembre 2014.

Nell’immagine in evidenza, Del Piero nel 2006 contro il Milan. Newpress/Getty Images