Quando Didier Deschamps ha deciso di sostituire Olivier Giroud e Ousmane Dembélé con Marcus Thuram e Randal Kolo Muani, eravamo solo al 40esimo del primo tempo della finale di Coppa del Mondo. Ed è sembrato che il calcio francese fosse tornato indietro di dieci anni, a un’epoca in cui la mancata razionalizzazione del talento era stata la causa del fallimento dei primi tentativi di ricostruzione sulle macerie lasciate da Raymond Domenech, artefice del secondo posto a Germania 2006 e poi autore dei disastri del biennio 2008-2010. Non è una questione legata solamente al campo, alla tattica: con quelle sostituzioni, Didier Deschamps ha dato l’impressione di agire per casualità, di essere totalmente in balia degli eventi in attesa che Mbappé, Griezmann, qualcuno, cambiasse il corso degli stessi. Ed è una sensazione che ritorna, forte, ogni qual volta la Francia si trova a dover fronteggiare difficoltà che non dovrebbero appartenerle, soprattutto se si considerano valori in campo e potenzialità di una rosa troppo più forte rispetto al resto della concorrenza. «Se ho fatto dei cambi così presto», ha detto il ct in conferenza stampa, «è stato perché non ero soddisfatto ed ero convinto che si potesse fare meglio. Questo non vuol dire che i giocatori che sono usciti fossero più colpevoli degli altri. Siamo mancati nel primo tempo per via dei numerosi errori tecnici che poi pesato sul punteggio. A metà del secondo tempo abbiamo avuto uno scatto d’orgoglio e il talento di Mbappé ci ha permesso di rimontare, da lì in poi è stato un incontro di boxe. Purtroppo è finita male per noi».
Il dibattito sul valore effettivo di Deschamps, il suo riuscire essere o meno l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto, è un qualcosa che si è ripetuto ciclicamente, più o meno a ogni grande competizione che la Francia ha disputato negli ultimi dieci anni, da quando l’ex centrocampista della Juventus è subentrato a Laurent Blanc. Ed è un dibattito che è rimasto spesso slegato dai risultati effettivamente raggiunti. Nel giugno 2017, in una celebre intervista rilasciata a FourFourTwo, Eric Cantona disse che «la quantità di talento che Deschamps si ritrova tra le mani è assolutamente folle, come non riesca a farlo esplodere è del tutto sbalorditivo. Un grande tecnico è tale se riesce a far esprimere al meglio il suo gruppo di campioni, ma questo non succede se ad allenare è un contabile ossessionato dal risultato, piuttosto che un visionario».
Di lì a qualche mese Deschamps sarebbe diventato il tecnico più vincente nella storia dei Bleus e l’anno dopo avrebbe vinto il Mondiale in Russia, terzo di sempre a riuscirci da giocatore e allenatore dopo Mario Zagallo e Franz Beckenbauer. Eppure siamo ancora lì, siamo sempre lì, a quel latente senso di inadeguatezza che ci fa pensare che se pure Kolo Muani non avesse trovato sulla sua strada Emiliano Martínez il merito, alla fine, sarebbe stato solo di un Kylian Mbappé talmente onnipotente da essere in grado di opporsi a un destino già scritto. E che una Coppa del Mondo e una Nations League siano comunque troppo poco per chi ha potuto attingere così tanto e così a lungo da un bacino di talento con pochi eguali nella storia del calcio.
Nell’estate 2021, mentre erano in corso gli Europei che la Francia sembrava avviata a vincere anche piuttosto agevolmente, era chiaro che la storia da ct di Deschamps stesse ricalcando quella dell’antico mentore Aimé Jacquet, soprattutto per il modo in cui stava riuscendo a bilanciare le pressioni e le aspettative che gravavano su una squadra così forte, dovendola guidare a vincere nonostante la componente episodica di tornei brevi e imprevedibili, che sfuggono alle normali logiche di campo. Di lì a qualche giorno, però, sarebbe arrivata la clamorosa eliminazione agli ottavi contro la Svizzera – sempre ai rigori, ma dopo essere stati in vantaggio 3-1 fino a dieci minuti dalla fine – che avrebbe fatto scrivere a Eric Devin, sul Guardian, che «la Francia aveva tutte le possibilità di vincere gli Europei ma Deschamps le ha sprecate», cambiando il modo in cui viene valutato l’operato di un commissario tecnico. Normalmente, infatti, le peculiarità di un Mondiale o di un Europeo pongono al centro di tutto la capacità di essere un selezionatore nel senso stretto del termine, cioè un tecnico in grado di scegliere gli elementi più funzionali – quindi non necessariamente i più forti – per la creazione di un gruppo che possa di arrivare in fondo alla competizione manifestando coesione e unità di intenti; da questo punto di vista la ricchezza del parco giocatori a disposizione di Deschamps si è paradossalmente trasformata in un limite, perché gli ha imposto di dover essere anche un allenatore in grado di dare un’impronta, di creare un’identità di gioco che permettesse un’espressione completa e totale di quella qualità, di quella schiacciante superiorità tecnica. Quindi di vincere, e di farlo anche in un modo netto, inequivocabile, schiacciante: ciò che viene richiesto dal nostro tempo, un tempo in cui anche il calcio delle Nazionali impone ai tecnici di fare la differenza attraverso una struttura tattica che aggiunga un valore collettivo ulteriore rispetto alle qualità individuali.
Alla prova pratica del campo, queste premesse sono state raramente seguite dai fatti. Il punto di non ritorno è certamente la finale degli Europei del 2016, quando la sconfitta piuttosto episodica contro il Portogallo di Fernando Santos – tra l’altro privo di Cristiano Ronaldo, uscito al 25’ per infortunio – ha instillato in Deschamps il seme di un dubbio con cui avrebbe continuato a convivere anche dopo la vittoriosa campagna di Russia. Se possibile, anzi, la vittoria raggiunta nel 2018 lo ha definitivamente convinto che la ricerca dell’equilibrio fosse l’unica strada percorribile. Lui l’ha portata avanti nel nome di un giocatore che sapesse garantirlo, questo equilibrio, in modo da ridurre al minimo la componente di rischio legata alla contemporanea presenza in campo di almeno quattro giocatori iper-offensivi: in principio fu Matuidi, utilizzato da finto esterno per coprire lo spazio alle spalle di Mbappé in fase di non possesso; oggi invece tocca a Rabiot, che però deve interpretare questo ruolo anche in considerazione della nuova collocazione tattica di Griezmann. In avanti, dopo, ci avrebbero pensato in qualche modo Mbappè, Giroud, Griezmann, Benzema, Pogba, secondo quella visione utilitaristica e perciò minimalista del calcio per cui i grandi giocatori trovano un modo per vincere la partita, lo trovano sempre e comunque, a prescindere dalle sovrastrutture in cui sono chiamati ad agire. E anche se, in fondo, ci è mancato poco, pochissimo, perché avesse di nuovo ragione lui, la percezione comune è che il secondo Mondiale consecutivo vinto dalla Francia sarebbe arrivato nonostante Deschamps. E non grazie a lui.
È come se Deschamps, a un certo punto, nel bel mezzo di un guado in cui sembrava non riuscire a scegliere se assecondare le inclinazioni verticali della sua squadra o virare verso un calcio di controllo e di possesso, avesse deciso di non decidere, smettendo di cercare qualcosa di diverso e ulteriore rispetto a ciò che lo aveva portato al successo mondiale, rifugiandosi in una coperta di Linus rivelatasi poi troppo corta, e nemmeno così inaspettatamente. Il tutto al culmine di un quadriennio in cui la necessità/volontà di speculare sulle grandi individualità era stata l’unico filo conduttore in grado di tenere uniti i pezzi di un puzzle diventato troppo difficile da comporre, quando invece sarebbe stato naturale farlo, tanto più in ragione di un serbatoio praticamente inesauribile da cui basta attingere per risolvere qualsiasi tipo di contrattempo tecnico, fisico e psicologico: il ritorno di Benzema poi naufragato a causa di un infortunio più diplomatico che reale, Giroud rimesso al centro del progetto e dell’attacco quando sembrava ormai esserne ai margini, Theo Hernández diventato titolare solo a causa dell’infortunio del fratello Lucas, l’inserimento di Koundé e Upamecano al posto di Pavard e Umtiti, una doppia scelta meno semplice del previsto, i problemi dentro e fuori dal campo di Pogba, tutte queste sono state delle circostanze marginali e superabili proprio perché non hanno spostato nulla a livello di rapporti di forza reali e percepiti rispetto alle dirette concorrenti.
Eppure è proprio qui, più che nei risultati, che si è sostanziata in quella generale sensazione di “pochezza” e incompiutezza che nemmeno il Mondiale di quattro anni fa ha contribuito a lavare via. La particolarità, anzi l’irripetibilità, delle circostanze in cui Deschamps non ha vinto in questi ultimi dieci anni da ct – la mano di Neuer sul tiro a botta sicura di Benzema nel 2014, Eder in versione “eroe per caso” nella notte di Saint-Denis nel 2016, Messi che chiude il cerchio nel giorno in cui El Dibu Martínez mantiene la promessa di regalargli «la miglior prestazione della carriera» – dovrebbero renderlo inattaccabile dal punto di vista che più conta, cioè quello dei risultati; eppure il fatto di non essere riuscito a cambiare quando sarebbe stato opportuno farlo, di non essere andato oltre sé stesso e le proprie convinzioni, di non aver mostrato tutto il potenziale che la squadra avrebbe potuto, dovuto (e forse voluto) esprimere, hanno finito con l’alterare anche il valore e il peso specifico dei traguardi raggiunti – traguardi di un certo prestigio.
In questo modo, Deschamps si è trasformato in un ct discusso e discutibile, ha alimentato e non cancellato gli interrogativi sulla sua capacità di gestire la transizione verso un nuovo modello di gioco. Tutto questo è avvenuto prima e sta avvenendo ora, dopo la sconfitta con l’Argentina, nonostante persino il presidente Macron si sia speso in prima persona per provare a dare qualche certezza su un futuro che certo non può esserlo: Deschamps ha infatti rimandato qualsiasi discorso all’incontro di gennaio con il presidente federale, con l’ombra di Zidane che incombe minacciosa sullo sfondo. Il fatto che il suo esonero ci sembri solo questione di tempo potrebbe sembrare un controsenso assoluto nella storia di un vincente che ha fatto di tutto per diventarlo e restarlo. Eppure è anche la dimostrazione questo può non bastare, quantomeno non sempre. Anche dopo un Mondiale vinto e un altro perso al termine della più grande finale di tutti i tempi.