Messi è diventato un duro

Dopo il Mondiale, il fuoriclasse timido ha completato la trasformazione in leader carismatico. Con anche spigoli e scorrettezze inaspettate.

Quando parliamo o scriviamo di scimmia sulla spalla, usiamo una frase idiomatica che in origine faceva riferimento ai disagi fisici provati nel corso di una violenta crisi d’astinenza, per esempio quelle degli alcolisti o dei tossicodipendenti. Messo in questa prospettiva, il concetto diventa abbastanza semplice da comprendere: questa scimmia immaginaria ti spinge ad abusare di sostanze che hai già testato, che ti sono piaciute, a cui ti sei assuefatto. E diventa molesta – cioè ti sgraffia la faccia e può farlo, visto che idealmente si trova proprio sulla spalla – nel momento in cui non riesci a procurarti ciò di cui hai bisogno. Col tempo l’espressione si è allargata e si è addolcita un po’, nel senso che ha iniziato a essere usata per tutti i tipi di mancanze, non solo quelle legate a vizi proibiti dalla morale o dalla legge. Facciamo un esempio: oggi, un anno fa, Lionel Messi ha vinto l’unico grande trofeo che gli mancava, parliamo ovviamente della Coppa del Mondo, e così è riuscito a scacciare la scimmia che viveva da sempre sulla sua spalla. Nel caso specifico era qualcosa di molto più ingombrante, si può dire fosse un gorilla gigantesco, visto che per 15 anni Messi ha dovuto fare i conti con un’infinità di critiche, tutte diverse, tutte feroci: quella relativa all’incapacità di vincere lontano da Guardiola e poi lontano da Barcellona, quella relativa all’impossibilità di essere come Maradona, come giocatore decisivo e come leader spirituale, quella relativa alla sua presunta debolezza caratteriale. E ancora tante, tante altre.

Una volta Jorge Valdano disse che «non è facile essere Diego Maradona: io, per esempio, non avrei voluto esserlo». Lo stesso discorso vale pure per Lionel Messi: anche se è diventato Messi in un tempo diverso, un tempo in cui i calciatori hanno una dimensione politica meno totalizzante rispetto all’era-Maradona, Leo ha dovuto lavorare molto su di sé. Lui, che fondamentalmente è sempre stato un uomo normale con una voglia matta di giocare a calcio, ha dovuto fare i conti con la necessità di esporsi fuori dal campo, di prendere posizione. È stato costretto ad affinare e ad affilare il carisma, quindi la capacità di influenzare i suoi compagni e il suo pubblico – cioè il mondo intero – con delle manifestazioni non strettamente connesse al pallone. E ci era pure riuscito, però mantenendo un profilo da bravo ragazzo, da leader conciliante, rassicurante.

Due casi su tutti: nel 2020, era la primissima fase della pandemia, Messi iniziò una combattutissima guerra di posizione con Bartomeu, e alla fine fu proprio lui ad annunciare l’accordo per i tagli degli stipendi di tutta la rosa del Barcellona. Pochi mesi prima, dopo la sconfitta in semifinale di Copa América contro il Brasile, Ángel Di María disse che «Leo ha parlato al gruppo, ha detto di essere orgoglioso della squadra che eravamo. Quando ha finito, tutti hanno pianto: gli aveva toccato il cuore, specialmente ai giocatori più giovani. Ha detto che tutti abbiamo remato nella stessa direzione sin dal primo giorno e che era felice di quanto avevamo dato per questa maglia. In passato ha ricevuto molte critiche, per il fatto che non ha cantato l’inno, perché non ha parlato con la stampa: ma in questo torneo è stato diverso e lo ha dimostrato. Mi ha reso felice che abbia parlato ai compagni, è importante che Leo sia così. Questo Messi mi piace».

Nei film, di solito, il cambiamento di personalità dei protagonisti avviene dopo – e quindi a causa di – un evento catartico e capovolgente. C’è sempre un evento catartico e capovolgente, anche se prima c’è stato un lungo processo di mutazione. È andata così anche per Messi: il percorso iniziato tra il 2019 e il 2020, culminato con l’annuncio dell’addio al Barça (ricordate la storia del burofax?) e il successivo dietrofront, ha ricevuto la spinta decisiva in occasione della Copa América successiva, quella giocata in regime di stadi chiusi – causa pandemia – e vinta dall’Argentina in finale contro il Brasile. Finale giocata al Maracanã, per altro. Era l’estate del 2021, ed erano 28 anni che la Selección non conquistava un trofeo senior. Nel corso del torneo in Brasile, ma soprattutto dopo la vittoria, è come se Messi avesse iniziato a scartare il tappo che poi sarebbe saltato un anno e mezzo dopo, come succede pochi minuti prima della mezzanotte a San Silvestro. Secondo Sports Illustrated, «la vittoria in Copa América è come se avesse fatto scattare un interruttore, nella testa di Leo». È una lettura realistica, lo ha confermato lo stesso Messi qualche tempo dopo il suo primo titolo con la Selección: «Prima della Copa América 2021, non ho sempre vissuto bene il mio rapporto con gli argentini. I più critici sono stati ingiusti nei confronti dei giocatori della mia generazione, e hanno detto delle cose brutte su di me. Io non sono permaloso, ma è impossibile non soffrirne. In fondo ero in una condizione complicatissima: a Barcellona ero molto amato, in Argentina sono sempre stato criticato. Oggi il 95% o il 100% degli argentini mi ama, ed è una sensazione bellissima».

Forse è un caso o forse no, ma poche settimane dopo Messi ha effettivamente lasciato il Barcellona, altro che burofax, e ha accettato l’offerta del Paris Saint-Germain: quella scelta, per quanto fosse legata alla profondissima crisi economia del Barça, per quanto sia stata vissuta in modo sinceramente sofferto dallo stesso Messi, l’ha subito trasformato in un traditore, in un mercenario, in un antieroe calcistico. Ecco, questo cambiamento ha messo ulteriore benzina nel motore della trasformazione. Sedici mesi dopo, Messi è arrivato ai Mondiali ed era un altro calciatore. Non tanto nel fisico o nella tecnica, sempre sublime, ma nella testa. Lo ha dimostrato quando c’è stato da affrontare gli altri, soprattutto i suoi nemici. Appena sbarcato in Qatar, Leo aveva detto di sentirsi «più esperto, più maturo: ora cerco di vivere la mia vita con intensità, tutti i momenti, anche quelli più importanti. Fino a qualche tempo fa non riflettevo su quello che mi stava accadendo, volevo solo stare con la palla tra i piedi. Ora è diverso». Ce ne siamo accorti durante le partite: dopo aver segnato contro i Paesi Bassi, ai quarti di finale, Leo si è avvicinato alla panchina di Van Gaal – che lo aveva criticato, che aveva definito «scarso» il suo contributo alla fase difensiva dell’Argentina – mettendo le mani vicino alle orecchie, invitandolo a farsi sentire; dopo la vittoria contro gli Oranje, nel corso delle interviste del postpartita, Messi ha guardato male Wout Weghorst, giocatore della Nazionale olandese, e gli ha detto «Qué miras bobo? Anda pa’alla, bobo», praticamente cosa guardi, scemo? Vai via, scemo, e poi è emerso che i problemi tra i due sarebbero cominciati prima, mentre le due squadre si incrociavano nel tunnel degli spogliatoi. Il portiere dell’Argentina Emiliano “Dibu” Martínez, uno che di provocazioni se ne intende, ha detto alla BBC che «Leo in Qatar si è ritrovato a capitanare una squadra più aggressiva rispetto a quelle a cui era abituato. Magari si è fatto influenzare, ma al Mondiale è stato un uomo chiaramente diverso, più simile a noi: un ragazzaccio».

Il tappo è saltato in modo definitivo dopo la vittoria contro la Francia, dopo aver alzato al cielo la Coppa del Mondo. Quel momento ci ha recapitato e poi ci ha fatto scoprire, col tempo, un Messi privato di ogni freno, come giocatore e anche come uomo – entro certi limiti, è chiaro. Certo, anche prima era caduto nelle trappole degli avversari, in questo senso potete leggere qui trovate un elenco compilato da Goal.com in cui si vede come ogni tanto abbia perso la testa, ma il nuovo Leo è decisamente meno timido, più sicuro di sé. È come se, una volta scacciata la scimmia dalla spalla, si sentisse finalmente in grado di attaccare lui per primo, senza aspettare di dover reagire a uno sgarbo altrui. È facile comprendere perché, in fondo ora non ha più punti deboli: fino a un anno fa lo potevano criticare perché gli mancava qualcosa, perché non aveva vinto tutto quello che c’era da vincere, mentre oggi è l’eroe che ha trascinato l’Argentina al titolo mondiale. E così ha scoperto come maneggiare e sfruttare scientificamente l’arroganza, è diventato irridente, supponente, perfino sgradevole. A pensarci bene, tutto questo lo rende un po’ meno perfetto, un po’ più umano. E quindi un po’ meno noioso, a dire il vero.

Quello è davvero Leo Messi?

Le cose successe nelle ultime settimane sono abbastanza esplicative: durante la partita del 17 novembre contro l’Uruguay, finita con la prima sconfitta dell’Argentina dall’1-2 contro l’Arabia Saudita nella fase a gironi dei Mondiali in Qatar, Manuel Ugarte ha fatto un gesto volgare a Rodrigo de Paul e in pratica gli ha detto di essere un calciatore “al servizio” di Messi; al termine della gara, Leo ha pontificato con i giornalisti, dicendo che «questi giovani devono imparare un po’ di rispetto». In un altro momento “caldo” della partita contro l’Uruguay, aveva anche preso per il collo Mati Olivera, terzino sinistro del Napoli. Pochi giorni dopo, in occasione di una nuova sfida contro il Brasile, Messi ha avuto un battibecco in campo con Rodrygo: secondo la ricostruzione di Tyc Sport, l’attaccante del Real Madrid gli avrebbe dato del «codardo» e lui avrebbe risposto affrontandolo faccia a faccia e dicendo «noi siamo campioni del mondo, altro che codardi». La partita a un certo punto è stata interrotta per via di alcune cariche della polizia brasiliana sugli spalti: per tutta risposta, Leo ha guidato i suoi compagni negli spogliatoi e poi ha detto alla stampa che «questa notte sarebbe potuta finire in tragedia: la polizia brasiliana ha picchiato i nostri tifosi sugli spalti, e non è la prima volta che succede».

Ci sarebbero degli altri episodi un po’ meno recenti, ma comunque tutti condensati nell’ultimo anno: il trash talking nei confronti di Felipe, centrocampista dell’Orlando City, nel corso di una gara di Leagues Cup; le dichiarazioni piuttosto nette – «lì ho vissuto un periodo difficile, non ero felice» – sulla sua esperienza a Parigi; gli attacchi diretti ai giornalisti spagnoli, definiti «bugiardi», che hanno raccontato di un suo presunto incontro con Joan Laporta, presidente del Barcellona. Insomma, si può dire: Leo Messi è diventato un duro. Certo, a dirlo fa un po’ strano, così com’è strano pensare che possa e/o sappia essere insolente, antipatico, cattivo. Oppure chissà, magari Messi era così da sempre, magari le vittorie con l’Argentina hanno semplicemente squarciato il velo, e così ora possiamo vedere la sua reale natura. Riuscire a scacciare la scimmia dalla spalla, se ci pensi, significa anche liberarsi di un peso.