“Vergogna”, “Rivoluzione”, “Dimissioni”, “Cambiamento”. Negli ultimi cinquant’anni, cioè da quando il calcio è diventato un fenomeno della cultura popolare e di massa grazie alla televisione, il glossario che ha caratterizzato ogni eliminazione della Nazionale Italiana da un grande torneo internazionale non è mai cambiato davvero. Il giorno dopo la rovinosa sconfitta contro la Svizzera all’Olympiastadion di Berlino, tutta questa incontinenza retorica e verbale ha generato un cortocircuito logico e comunicativo per cui l’invocazione coram populo di interventi strutturali e di sistema – interventi che, per la loro stessa natura, potrebbero produrre gli effetti sperati in un lasso temporale di almeno dieci anni – ha seguito di poche ore la richiesta di dimissioni/esonero di Luciano Spalletti, un ct che è stato tale per appena dieci mesi e 14 partite malcontate. Senza, cioè, che abbia avuto il tempo materiale di capire come potesse vincere quelle partite che gli si rimprovera di non aver vinto ed ereditando in corsa una squadra che doveva imparare, e in fretta, a fare i punti necessari per qualificarsi a Euro 2024: «C’era subito un’urgenza di risultati e, probabilmente, per quello che necessitava il momento siamo stati bravi fino a un certo punto. Non siamo riusciti a crescere in questo mini-percorso fatto» ha detto, non a caso, Spalletti durante la conferenza stampa congiunta con il presidente federale Gabriele Gravina che ha chiuso il ritiro di Iserlohn.
Questo paradosso spazio-temporale che vede fondersi due concetti teoricamente contrapposti come la progettualità a medio-lungo termine e l’urgenza di evitare la mancata qualificazione ai Mondiali per la terza volta di fila, si sostanzia in un’altra categoria narrativa ricorrente, quella dei nomi da cui ripartire. «Qualche cosa ho sbagliato», ha detto Spalletti. «Ho tentato di ringiovanire la squadra. Ma siccome rimarrò qui, questo sarà fatto ancora di più per provare a creare un gruppo nuovo. Alcuni aspetti come la mancanza di personalità e di leadership non mi hanno convinto e non ho avuto le risposte che cercavo: cercherò di creare una base per il futuro più giovane, con energie e forze nuove». In effetti l’Italia si è presentata in Germania con la sesta rosa più giovane dell’Europeo (26,6 anni di media) e al termine di un processo di rinnovamento che aveva visto l’uscita di Insigne, Immobile, Verratti, Bernardeschi, Bonucci e Chiellini. Intanto, accanto a Spalletti, c’era, come detto, Gravina che parlava di un talento che c’era e che c’è ancora ma che non si era riusciti a valorizzare appieno.
Così nei giorni e nelle ore immediatamente successive, sulla home page di numerose testate online sono comparsi tantissimi articoli in cui tutti i calciatori nel giro della Nazionale venivano divisi per categorie, ipotizzando addii, conferme e nuovi arrivi sulla base delle indicazioni arrivate dalla Germania, e in attesa di capire quale sarà l’identità tattica che Spalletti ha intenzione di costruire nel biennio che porta al Mondiale. L’importanza del nuovo corso, di quella che sarà l’Italia dei vari Tonali, Kayode, Udogie, Scalvini e Buongiorno, non può e non deve essere limitata unicamente alle liste di nomi e alla loro collocabilità in un determinato sistema. La questione riguarda anche il loro status, quanto cioè questi calciatori vengano percepiti come sufficientemente bravi per poter fare la differenza a un certo livello, al di fuori di una determinata comfort zone. Da questo punto di vista la riflessione deve svilupparsi proprio attorno alla differenza che c’è tra il valore reale e quello percepito; perché, se da un lato è oggettivo che un’ossatura per la Nazionale del futuro esista già ed è stata anche testata a buoni livelli in campionato e nelle coppe europee, dall’altro è altrettanto oggettivo che le quattro partite in terra tedesca hanno dimostrato la differenza che passa tra un giocatore da top club come Donnarumma e tutti quelli abituati a confrontarsi quotidianamente con un contesto dove di top club veri – al livello, quindi, dei vari Real Madrid, Psg e Manchester City – non ce ne sono.
In questo senso le voci che vorrebbero Riccardo Calafiori come uno degli obiettivi di mercato dei principali club europei vanno lette in due modi: se la possibilità, concreta, di perdere un potenziale difensore generazionale impoverirebbe di certo la Serie A, il passaggio a una dimensione competitiva diversa e ulteriore permetterebbe a Calafiori di colmare tutte le mancanze a livello di curva d’apprendimento e player development che sembrano costituire il vero discrimine nel confronto tra i calciatori da Nazionale italiani e quelli delle grandi rappresentative europee. Un Calafiori che va a giocare nel Real, nell’Arsenal, nel City, nel Bayern, è un Calafiori che si misura con un approccio tattico, tecnico e fisico maggiormente adeguato ai tempi. E che può arricchire lo skillset che si porterebbe dietro anche in Nazionale, magari influenzando positivamente anche chi gioca insieme a lui.
Questo pensiero può estendersi, in senso deteriore, anche a quelli che identifichiamo come i giocatori della prossima generazione ma che in realtà non riusciamo in alcun modo a considerare pronti per il salto tra i grandi. E questo pure se alcuni di loro sono stati i protagonisti della recentissima nuova età dell’oro delle nazionali giovanili coordinate da Maurizio Viscidi, con il risultato di ritrovarli in quel limbo per cui si è già troppo forti per Primavera e Under varie ma non abbastanza formati per essere considerati elementi da prima squadra. L’esempio più ovvio e immediato è quello di Francesco Camarda, che è otto mesi più giovane di Lamine Yamal e per il quale, dopo quasi due stagioni da predestinato, non si riesce a immaginare nulla di più, anzi nulla di diverso, da un percorso di crescita prudente e costellato di tappe intermedie, come può esserlo un anno (il prossimo) in Lega Pro con il Milan Futuro, la (nuova) seconda squadra creata dal club rossonero; ma ci sono anche Cesare Casadei, undici presenze con il Chelsea nel 2023/24 dopo un Mondiale Under-20 dominato e sei mesi in prestito al Leicester di Enzo Maresca, Simone Pafundi e Tommaso Baldanzi, giocatori ancora in cerca di spazio, autore e identità in un calcio che fagocita il talento a una velocità spesso insostenibile e a un’età in cui gli omologhi nel resto d’Europa e del mondo sono già fatti e finiti per quel che riguarda dimensione e prospettive di carriera.
Attenzione, però: non intendiamo dire che Camarda possa avere lo stesso tipo di impatto che sta avendo Yamal o che Casadei, Pafundi e Baldanzi meritino a prescindere tutto quello spazio e quei minuti che non hanno trovato finora; semplicemente, non avergli dato modo di mettersi alla prova con continuità nel calcio vero rende difficile capire fin dove possano arrivare e quanto possano davvero considerarsi quel futuro che sembra sempre non poter arrivare mai. Un dettaglio che, pure se proiettato su un orizzonte temporale più ristretto, complica non poco il lavoro di Spalletti.
E quindi tornando a quello che è il tema: Donnarumma e Calafiori a parte, da chi deve – anche se forse sarebbe meglio chiedersi da chi può – ripartire Spalletti a poco più di 60 giorni dall’esordio in Nations League, cioè dalla sfida del Parco dei Principi contro la Francia? I pochi punti fermi si ritrovano nel reparto arretrato, dove il gran numero di centrali di nuova generazione abituati a giocare in una difesa a tre (Scalvini, Buongiorno, Bastoni) imporrà a Spalletti una seria riflessione sulla necessità di abbandonare la ricerca di un compromesso tra il suo sistema difensivo ideale e quello che, invece, asseconda le naturali inclinazioni dei giocatori a sua disposizione, virando con decisione verso una difesa a tre pura con contaminazioni gasperiniane soprattutto per quello che riguarda l’utilizzo dei braccetti in fase di possesso. E questo anche in virtù del lancio in pianta stabile di due esterni a tutta fascia come Udogie (a sinistra) e Bellanova (a destra), giocatori che possano sopperire alle lacune dettate dalla penuria di esterni offensivi puri che agiscono utilizzando la linea laterale come riferimento fisico – escludendo Chiesa, ovvviamente.
A centrocampo l’unico imprescindibile sembra essere Barella che vedrà alternarsi al suo fianco Tonali o Pellegrini in relazione alla centralità che Spalletti intenderà conferire a Nicolò Fagioli: uno dei principali equivoci dell’Italia a Euro 2024 è stato proprio il tentativo di fare un calcio di possesso rinunciando a un secondo giocatore di palleggio, quello che nel 2021 era stato Verratti con Jorginho. In questo modo, l’Italia ha fatto ricadere l’intera responsabilità di far progredire l’azione in verticale su un solo giocatore: una scelta che l’ha reso, di fatto, il giocatore più marcabile dell’intera squadra. Pellegrini è al momento l’unico giocatore che può garantire questo tipo di interpretazione tecnica del ruolo senza perdere molto in termini di fisicità e corse all’indietro senza palla, ed è probabile che – almeno all’inizio – Spalletti punti su di lui per riprendere quel discorso sul dominio del gioco attraverso il controllo del pallone interrottosi bruscamente a Lipsia contro la Spagna. Come per i difensori, però, l’abbondanza di mezzali di corsa e inserimento – Tonali, appunto, ma anche Frattesi e Miretti – potrebbe spingere il ct a cercare soluzioni diverse per quello che riguarda la risalita del campo e la ricerca della superiorità nell’ultimo terzo, virando verso un sistema più diretto e verticale dopo il recupero palla, scegliendo di farsi attaccare per poi aggredire lo spazio in profondità sulla transizione.
In questo modo sarebbe possibile ovviare anche quella che è la vera cronica carenza del calcio italiano degli anni Venti del Duemila: gli attaccanti. Se è vero che l’Europeo di Scamacca non è stato all’altezza delle aspettative, e se è vero che Retegui non potrà mai essere più di uno specialista dell’area di rigore da azionare attraverso un crossing game esasperato, è altrettanto vero che alle loro spazio c’è un immenso spazio vuoto che né Giacomo Raspadori, né Moise Kean, né – in prospettiva – Lorenzo Lucca sono stati o saranno in grado di riempire, per presupposti e conseguenze diverse. Da qui hanno avuto origine lo spostamento di Chiesa sulla stessa linea del centravanti e l’utilizzo di Raspadori come seconda punta di raccordo chiamata creare le connessioni agendo alle spalle della seconda linea di pressione: esperimenti che non hanno pagato in termini di incidenza della prestazione individuale su quella collettiva e che presumibilmente porteranno Spalletti a guardare altrove, magari a quel Nicolò Zaniolo che potrebbe essere riciclato come falso nueve in caso di tridente spurio. In questo senso, magari, il suo arrivo all’Atalanta e la cura-Gasperini potrebbero aprire nuovi orizzonti. Anche perché delle prospettive diverse, ora come ora, non ce ne sono.